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Antonio Smareglia

ostracismo oltranzista per un Genio

 

a cura di Sergio Del Bianco

 

 

Scrivere ancora oggi su Antonio Smareglia rinnovando gli auspici di una prossima definitiva e totale affermazione della sua opera negli attuali circuiti lirico-teatrali, può sembrare sterile e vano.

Sull’opera di Smareglia perdura infatti, ostinato ed imperterrito, il peso di una ingiustificata e caparbia esclusione dai circuiti teatrali e dalle sale da concerto.

Gli scritti biografici e critici sul compositore istriano succedutisi in tutti questi anni, pur qualitativamente notevolissimi, non sono bastati a rendere giustizia di un caso scellerato nell'opera lirica italiana e malvagio verso la figura del compositore e la sua memoria.

Nonostante i fiumi di inchiostro spesi da personalità anche illustri e da critici famosi e nonostante l'appoggio prestato in vita a Smareglia da anime nobilissime come Silvio Benco, Rocco Pierobon, Carlo Saiz, Leone Gabrici e tanti altri amici triestini, ben consapevoli del valore del suo genio, l'opera smaregliana ha continuato ad essere ignorata dalla gran parte dei responsabili artistici degli enti lirici. Troppe illustri firme hanno messo in evidenza - almeno per chi è in grado di leggere - che il “caso” Smareglia non potrà mai essere liquidato con la solita passiva rassegnazione sull'inesorabilità di un destino tragico e amaro, quando è palese l'operato di coloro che questo difficile destino hanno voluto dolosamente rendere ancora più drammatico. Ed è inutile rifugiarsi, come hanno fatto molti critici, nell'alibi, pur realistico, dell’ “epopea dell'ingiustizia” nella storia della lirica italiana, poichè cercare di combatterla è oggi più che mai dovere di tutti.

Smareglia, uomo dalla condotta esemplare, pur colpito dalla cecità nel fiore degli anni, uomo dal carattere schietto e leale, alieno da qualsiasi calcolo o furberia, tanto onesto da nuocere a sè stesso attirandosi inimicizie e potenti invidie, non c'è più.

Ciò che di lui ci rimane è la musica meravigliosa che potrebbe imporsi gloriosamente in quasiasi concerto o rappresentazione teatrale a costituire un vanto per Pola e per Trieste.

Questo accadrebbe se gli uomini fossero giusti.

Qual’è quindi la forza che tiene segregata la sua memoria ed esclude la sua opera dal dovuto riconoscimento? A questa domanda hanno già tentato di rispondere in tanti, ma una giustificazione plausibile sembra proprio non esistere e sarebbe disonesto affermare il contrario.

Aurelia Gruber Benco allorchè ebbe notizia dell’ennesima mancata rappresentazione di un’opera smaregliana al ‘Verdi’ di Trieste espresse il dolore e la rabbia cogliendo con intelligenza estrema il punto focale del rapporto Trieste-Smareglia:

 

“Come tutte le città perpetuamente bastarde Trieste possiede il fascino della irrequieta disponibilità al mutevole, ma anche il gretto opportunismo, ieri mercantile e oggi pseudo culturale dei clan chiusi che la rende detestabile. E incolta, perché sprovveduta di sua propria equa coscienza e misura dei valori. Pronta ad innalzare alle stelle uomini destinati alla ridimensione storica, essa si è sempre ferocemente accanita contro gli spiriti indipendenti (…) Tuttavia il bersaglio della più bassa sufficienza aculturale e di una trogloditica superstizione è colui che già James Joyce proclamò l’artista più eminente di queste terre: il Maestro Antonio Smareglia. Su questo gigante che farebbe l’orgoglio di qualsiasi città che gli avesse dato i natali si accanisce da anni il silenzio (…)

Le indubbie nobili ed oneste intenzioni che al ‘Verdi’ avevano, dopo la lontana soprintendenza di Cesare Barison, riproposto Smareglia hanno dovuto cedere un’altra volta alla sotterranea perfidia dei clan denigratori (…)

Così per tutta la sua lunga vita, protestando persino in piazza, lui l’uomo mite, quando sembrava che a Smareglia dovessero essere negati i funerali civici, Benco, con l’autorità morale di autentico uomo di cultura, ha sempre affermato essere il Maestro Antonio Smareglia il nostro più puro, più autentico genio creatore. E queste pagine (…) non possono non esprimere il dolore e l’indignazione, non perché sia rimandata, se così è, l’esecuzione di un’opera smaregliana, ma perché manchi a Trieste l’orgoglio civico di volere, come accade in tutte le città che possiedono artisti di inconfondibile valore, difeso il patrimonio morale della sua tradizione, con una costante rievocazione qualificata dell’opera smaregliana”(1)

 

La più grande responsabilità per il destino e la fortuna postuma dell'opera smaregliana ricade naturalmente su Trieste che per prima avrebbe dovuto coltivare nel suo teatro lirico l'opera del più grande genio musicale delle sue terre. Eppure in questa città si è escogitato tutto e il contrario di tutto per evitare di portare avanti questo dovere fino in fondo; alla personalità di Smareglia sono state attribuite le tendenze più diverse e contrastanti: si è cercato addirittura di ‘colpevolizzarlo’ perchè “nato da madre slava” (!) (destino che condivideva tra l’altro con il suo grande amico ed estimatore Arrigo Boito), per poi condannare il suo irredentismo e deplorare il ‘patriottismo’ di “Abisso”; si cercò di schernire la sua fierezza e di deriderlo nella povertà, ben sapendo che l'unica causa della sua indigenza era la deliberata e dolosa esclusione delle sue composizioni dai circuiti teatrali e concertistici.

Si è cercato di distruggere la sua persona colpendola con le più spregevoli calunnie a ignobile ‘scusante’ per le mancate inclusioni in cartellone delle sue opere:

 

“A Milano dopo l’esecuzione di ‘Oceana’ fu sparsa per la prima volta, con diabolica astuzia se si considera quanto e' suscettibile l'ambiente teatrale di simili balorde suggestioni, la voce che egli portasse jettatura, voce che col tempo acquistò sempre maggor pubblicità e che aggravò le innumerevoli difficoltà che pesavano per altre ragioni su mio padre. Con l’annessione arrivò anche a Trieste tanto che per l’esecuzione di ‘Falena’ al teatro Verdi, datasi in commemorazione della sua morte, questa ignobile diceria fu argomento di discorso perchè il pubblico disertasse le rappresentazioni. A Trieste però né la stampa né nei circoli più autorevoli non ci fu una sola voce che reagisse pubblicamente contro una simile canagliata. Fu questo fatto appunto che mi fa desiderare che in quella città non si abbia mai più il dispiacere di riudire musica di mio padre...”(2)

 

Ariberto Smareglia descrive altresì perfettamente il nocciolo sostanziale del dramma che aveva colpito il padre:

“Molti di quell'ambiente teatrale milanese, editori e musicisti, e particolarmente Giulio Ricordi, avvertirono subito nello Smareglia come uno scoglio che poteva minacciare e già minacciava coi suoi spietati demolitori giudizi, ispirati alle ragioni e alle idealità più pure dell’arte, la navigazione tranquilla di quella nave mercantile che fu sempre il teatro lirico in Italia e identificarono in lui un nemico che conveniva mettere a tacere. In questo primo urto con la sua personaltà d'artista il mondo teatrale e intellettuale milanese ebbe buon gioco della impulsività dello Smareglia, incapace di ogni freno, d'ogni mascheramento, anche quando ciò fosse consigliato dalle stesse imperiose ragioni di non compromettere il suo diritto d’artista alla vita: egli assunse il ruolo pericoloso di cavaliere errante con la missione di combattere a fondo per le idealità dell’arte contro tutte le ipocrisie e i giudizi interessati e ignoranti.” (3)

L’eterna lotta tra genio estetico e spirito ‘filisteo’, cioè tra impulso ascensivo di superamento del mondo del divenire e impulso animale che spinge l'uomo a calarsi totalmente nella realtà contingente si era palesata ancora una volta.

L’essere umano preferisce ignorare qualsiasi principio spirituale e mistico e così considera vana ogni azione che non si colleghi ad una prospettiva meramente terrena.

San Paolo ne scriveva in questi termini:

“L'uomo animale non riceve le cose dello Spirito: per lui, infatti sono stoltezza e non le può intendere perchè soltanto in modo spirituale vanno giudicate.” (Corinzi, 2,14)

 

Smareglia era un artista ascensivo, collegato alla categoria oltremondana del Bello. Non a caso la sua opera è stata amata ed apprezzata in modo notevolissimo da Gabriele D’Annunzio.

Leggiamo quanto scrive Ariberto Smareglia in merito alla concezione estetica e artistica del padre:

“Interessi e ripicche personali, per lui non dovevano aver diritto d’asilo nel tempio dell'arte. Egli dimenticava che l’opera d'arte ha una sua atmosfera, dirò del tutto indipendente, quasi soprannaturale, solo fino a quando rimane nelle mani dell’artista, ma che questa privilegiata condizione d’indipendenza dirò ‘soprannaturale’ necessariamente sparisce appena essa viene al contatto della realtà umana: si costituisce attorno ad essa tutto un tessuto di interessi industriali, di piccole contingenze terrene che la soffocano, la offuscano se anche l’artista non interviene con un po' di destrezza a sostenere la sua creatura spirituale (…) Per lui l’opera d'arte doveva vivere da sè stessa, senza l’ausilio di artifici industriali o di organizzazione reclamistica, e questa convinzione purtroppo non l’abbandonò che molto tardi, quando le buone occasioni non dovevano presentarglisi più, anche se ardentemente aspettate e ricercate. Dimenticò che il teatro lirico per le possibilità immense che esso ha di onori e di guadagni insoliti e' l’arena delle più feroci competizioni umane che si possa immaginare. Dimenticò che il teatro vive anche di suggestione, di popolarità, di buona fortuna, che o arride all'artista con carattere continuativo o lo seppellisce nel discredito o per lo meno nel disinteresse, nello scetticismo.(4)

Smareglia, “artista fine, alieno dalle facilonerie, dagli istrionismi, da tutto quello che si presta ai capricci della fortuna”, (5) come lo descriverà Benco, si trovò a dover fare i conti con l'economicismo e il filisteismo del mondo che lo circondava e che imponeva indistintamente una visione limitata della realtà.

Molta parte della critica musicale si è resa responsabile, sulla base di una analoga concezione del mondo, del colossale equivoco sull'opera smaregliana, relegandola tra le fila del “melodramma delle aree depresse” (6), tra il “colore locale” e il “verismo popolare da coltello” (7) (a proposito di 'Nozze Istriane') , tra la fiaba romantica anacronistica e un sinfonismo apparentato - ahimè - alla “brutta scrittura di Svevo” (sic) (8), insomma tra una produzione regionale, secondaria ed epigona, frustrata da correnti culturali ben più forti ed attuali.

Ebbene, nulla di più sbagliato.

Questo smisurato e forsennato errore venne messo particolarmente in evidenza da Silvio Benco:

“Nozze istriane” … per quanto possa classificarsi tra i drammi veristi ... se ne distingue per qualcosa di più intimo, per una dizione più limpida, più classica, per finezza del ricamo orchestrale… nè si rompe l’incanto se non quando deve superare fuggevolmente gli scogli creati dall’Illica con la prosaicità dei particolari veristi e folkloristici disseminati a dovizia in omaggio al gusto del tempo (…) Come un'opera siffatta (…) chiara chiarissima, profondamente sentita (…) irrigata da un'onda lirica che ha riflessi squisiti (...) potè starsene segregata per anni in una specie di quarantena ?

Ebbe sì successo ma come se si trattasse di un lavoro regionale… e non una delle cose più nobili d’artista italiano comparse in quel periodo, non le si fece eco alcuna, non la si propagò nei teatri, la si lasciò ignota a quasi tutti i pubblici d’Italia. Noi che la conosciamo potremmo dire: Tanto peggio per questi pubblici – ma noi anche amammo il maestro e sentimmo in verità più di lui l’ingiustizia patita.

Smareglia tutti lo dicono ebbe un cattivo temperamento, ma lo ebbe anche così buono. Era tanto migliore del mondo che lo circondava. Un lieto successo gli rallegrava l’animo, ne viveva spiritualmente per qualche tempo, ed era come se il suo giardino di illusioni gli desse tanti fiori da non domandarne di più”(9)

 

Smareglia era “tanto migliore del mondo che lo circondava”, e come Poeta viveva nel principio metafisico dell'Arte.

Smareglia aveva ricevuto in dono dalla natura un grandissimo genio che si svelò - tra l'altro - anche nel suo metodo compositivo.

Già cieco dettava la musica che sgorgava dal suo interno già perfetta, senza correzioni o ripensamenti, come in Mozart:

“Smareglia non componeva mai al pianoforte… la sua creazione era direttamente orchestrale, e la concepiva per lo più stando seduto sul canapè tutto assorto, tamburellando con le dita e ricordandosi tratto tratto di riaccendere il sigaro spento. Intorno a lui … c'era il rumore della casa il gridio dei figlioli, ma questo non turbava i suoi nervi superbi, validi alla più intensa concentrazione e alla piu laboriosa costruzione interiore (...)

Giacchè Smareglia non ci vedeva più a scrivere la sua musica. Era cieco. O riusciva a dettare quanto componeva, o la sua musica moriva in lui. Solo allora conoscemmo la formidabile potenza di quel cervello. ... Smareglia dettava come se leggesse cosa già scritta, senza mai perdere il filo, senza mai invertire gli ordini degli strumenti, traendo dalla mente… le note e le pause ... fermandosi alla fine della battuta perché l’amanuense avesse il tempo di tracciare la linea verticale di separazione. (10)

Smareglia trascorse i suoi ultimi anni a perfezionare, a rifinire le sue opere, perché riponeva la sua unica speranza nel tempo che sarebbe seguito alla sua scomparsa.

“Smareglia aveva ripreso a comporre. Non con lo slancio della passione, bensì piuttosto per dare un'occupazione allo spirito, per salvarsi dall'accidia. Perchè comporre? Aveva lì tante opere: tutte scritte con coscienza, tutte segnate di quanto era di più eletto nella sua natura di musicista, tutte degne di stare a paro con le migliori musiche che si scrivessero in quel tempo: nessuno vi poneva attenzione, nessuno ne mostrava curiosità e desiderio, nessuno si indignava di quell'abbandono. (...)

Perchè comporre? avesse fatto il capolavoro dei capolavori, gli sarebbe toccato logorarsi e strisciare ai piedi di Tizio e di Caio perchè lo inserissero come riempitivo in un cartellone teatrale. Per il calcolo di un editore, il corto fiato d'un cantante, il malumore d'un giornalista, poteva essere stroncato ai primi passi, forse per sempre, anche il cammino d'un capolavoro. Così si attristava (…) Questo pensiero di dover condurre a miglior lezione tutte le opere sue fu in lui ostinato e non gli diede pace finchè non l’ebbe tutto attuato scrupolosamente: il che avvenne soltanto nell’ultimo periodo della sua vita.

Egli sapeva ormai per troppe amare esperienze che le fortune del teatro sono capricciose, ora facili, ora restie, sempre imponderabii, incongruenti, esposte ai colpi di vento e alle pigre ed estenuanti bonacce: ma l’opera d'arte resta quello che è, e solo è sicuro di dare al proprio nome un avvenire chi può consegnare ai posteri un lavoro che dalla struttura ineccepibile tragga la sua intima salute. Tale il concetto a cui obbediva. In un certo modo egli trascendeva le circostanze presenti per corredarsi di documenti validi dinnanzi a una giustizia futura. (…)

Egli aveva fede che un'opera condotta alla sua perfezione non invecchi mai, rimanga sempre quella, pronta a scattare fresca e viva dalla polvere del tempo, e non dubitava affatto di avere in sè la forza di trasmettere alle opere sue questo dono dell’ideale perfezione."(11)

Ma i posteri siamo noi e in un mondo della lirica come quello attuale commercializzato dalla mentalità consumistica, che affida il valore artistico delle opere ai cd - o peggio - agli mp3, si troverà un direttore d'orchestra o sovrintendente teatrale disposto ad allestire ed incidere gli spartiti smaregliani in modo che possano venir finalmente ascoltati ed apprezzati come sarebbe giusto e doveroso? E sarà mai possibile un'operazione di questo genere che non trova posto negli interessi economici dei piani industriali e commerciali dei teatri e del mondo discografico? Quanta parte ebbero ed hanno a tutt’oggi le scelte politiche e faziose del teatro lirico, non solo nel dramma di Smareglia, ma anche nelle tragiche circostanze vissute da altri validissimi compositori dimenticati?

A tale proposito può essere illuminante la lettura dei ‘Taccuini’ e degli ‘Aforismi’ di Bruno Barilli (12), scrittore, musicista, critico d'arte e sfortunato compositore di due stupendi spartiti operistici “Emiral” e “Medusa”. Nei libri e nei diari lasciatici da Barilli si trova tutta la sua disperazione più tetra, stemperata dal gusto estremo di un'amara ironia. Barilli ben descrisse quella situazione problematica e pericolosa del teatro lirico con cui Smareglia stesso ebbe a confrontarsi:

“Nel nostro teatro lirico non si muove più una foglia (…) Ridotto in questo stato, è chiaro che non possa più interessare la gente giovane e intelligente. In questo ambiente l’artista che dovrebbe comandare è obbligato ad obbedire, gli interessi privati comandano (e comandano male, naturalmente). Se le cose poi vanno male il primo ad essere buttato a mare è l’autore. Problema del teatro prettamente originale. Andiamo verso il deficit intellettuale. Tutti questi posapiano che fanno i satanassi”(13), una situazione per la quale Barilli indicò anche un possibile rimedio:

“Promuovere l’istituzione di due o più compagnie liriche permanenti che abbiano lo scopo di svolgere un proprio repertorio del tutto indipendente da quello delle uniche due case editrici musicali italiane e composto di lavori nuovi, di opere premiate ai concorsi nazionali, di opere cadute in dominio pubblico e di quelle opere il cui valore e l’opportunità consigliano l’esumazione” (14)

Anche l’appello del grande Bruno Barilli, come si sa, è rimasto inascoltato. Viviamo in tempi in cui viene impedito alle arti di emergere e di delinearsi nella qualità spirituale e assoluta della loro essenza – che è poi l’unica che parla all’anima dell’uomo. Viviamo una sorta di abiezione. Lo vediamo chiaramente: nei teatri, negli allestimenti scenici, nelle regie delle opere liriche, per tacere delle arti figurative.

Obbrobri di ogni genere dappertutto.

 

Per concludere: non va dimenticato che Smareglia è l’Artista più sommo di queste nostre terre. Alle sue opere andrebbe dedicato un vero e proprio Festival Internazionale permanente che si rinnovi ogni anno e che proponga l’intera opera smaregliana in modo tale che essa abbia una giusta e definitiva collocazione.

Fino ad oggi abbiamo lasciato impolverire in un cassetto un patrimonio di genialità e di arte che è parte integrante della sacralità e della dignità della nostra cultura.

E di questo siamo colpevoli e lo siamo tutti.

La rivalutazione smaregliana è una sfida che la cultura musicale triestina dovrà cogliere, se non vorrà perdere la sua ultima e più importante battaglia.

 

NOTE

(1) Aurelia Gruber Benco

Antonio Smareglia, bersaglio dell’anticultura triestina

sta in : “Umana”, n. 7-9, luglio-settembre 1970

(2) Ariberto Smareglia

Vita ed arte di Antonio Smareglia

Tipografia Cesare Mazzucconi, Lugano, 1932 – pg.58

3) Ibidem – pag.23

4) Ibidem – pag.41-42

5) Silvio Benco

Ricordi di Antonio Smareglia

sta in: “Umana”,Trieste, 1968 -pg.25

6) cfr. Rodolfo Celletti

Il melodramma delle aree depresse

sta in Discoteca - 15.07.1962

7) cfr.Rubens Tedeschi

Addio fiorito asil

Step, Parma, 1972

8) Ibidem

9) Silvio Benco – op. cit. pg.35

10) Ibidem - pgg.49 - 96/97

11) Ibidem - pgg. 118 -121

12) Bruno Barilli

Capricci di vegliardo e taccuini inediti

Einaudi, Torino, 1989

13) Ibidem pg. 43

14) Ibidem pg.248

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