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Bruno Barilli operista dimenticato
di Tito Del Bianco
disperse bruciate le mie opere, bruciati anche
come i fili elettrici della trazione - e tutte le valvole della luce -
i miei rapporti sociali umani.
Perchè la mia vita è stata quella di un uomo
e non la vita di un burattino.
(Bruno Barilli ,Taccuini inediti,LXVII, 30 bis-31 bis)
Bruno Barilli è oggi concordemente ritenuto uno dei prosatori maggiori del nostro Novecento. La critica letteraria è finalmente pervenuta pochi anni or sono a questa 'ufficializzazione' della collocazione di Barilli nel panorama culturale italiano. Insuperato quale critico musicale, la sua prosa, sebbene domini nella sfera musicale, comprende anche gli importanti resoconti di viaggio (Barilli soggiornò a lungo a Parigi e a Londra e viaggiò molto in Europa, Africa e Medio Oriente) e i 'reportage' sulla guerra balcanica del 1912 e su quella austro-serba del 1914, ristampate di recente.(1) Il merito di aver riproposto al grande pubblico l'opera di Bruno Barilli va al prof. Mario Lavagetto e al Dipartimento di Italianistica dell'Università di Bologna che ospita l'archivio dei manoscritti barilliani e che ha curato l'edizione critica degli scritti per l'editrice Einaudi. (2)
Mentre il mondo letterario ha riconosciuto il valore e il pregio della 'voce poetica' di Barilli, la critica musicale non ha fatto altrettanto, perdurando a tutt'oggi l'oblio sulle due opere liriche barilliane, “Medusa” ed “Emiral”.
Bruno Barilli avrebbe probabilmente irriso a questa sua postuma collocazione tra i 'classici' della letteratura di questo secolo e anche il più ambito riconoscimento in campo letterario non l'avrebbe lusingato.
La musica era la sua ossessione, egli si sentiva compositore nel sangue, ma i suoi due unici spartiti, le stupende opere "Medusa" ed "Emiral" dopo un' iniziale brillante ed unanime accoglienza di critica, non furono più eseguite e - per ragioni ancora poco chiarite - sparirono dalla circolazione.
Barilli si considerò così fino all'ultimo un musicista misconosciuto e tradito, vittima abbandonata ed impotente di oscure macchinazioni. Fu costretto per vivere a fare il giornalista, ma l'attività di scrittore rimase per lui sempre secondaria; non amava il suo ruolo di critico musicale, lo considerava una 'dannazione': (“E dire che non è poi il mio mestiere - è la mia dannazione. lo che ero musicista. lo Orfeo in ciabatte e papalina”. T, LXV, 39 bis), rispetto allo splendore immediato e vitale della sua vocazione compositiva.
"Come letterato io scrivo con la sinistra" amava dire, e ribadiva che per lui la letteratura altro non era che "un incidente che dura da quarant'anni". La critica letteraria rilevò , anche se non sempre benevolmente, la doppia anima di Barilli, la sua musicalità, che chiusa e costretta a seguire i sentieri incidentali della letteratura, si manifestava prepotentemente nello stile della prosa . Notava Eugenio Montale:
"Nato alla musica lo stile di Barilli torna a risolversi in musica; il suo periodo è la battuta, e nell'intervallo dei suoi improvvisi la nota del basso continuo ci ricorda che s’è entrati qui nella zona eminente e insensata della musica pura. Non dunque l'urto dei concetti ma delle sfere: pitagorica zona da cui si evade con un sospiro di sollievo."
"La stessa punteggiatura in Barilli - notò Riccardo Bacchelli - “segue più l'orecchio che la legge della chiarezza e della sintassi”. La valenza musicale nello stile di Barilli pone attenzione maggiore al significante rispetto al significato, alla valenza sonora ed emotiva della parola rispetto al suo valore semantico, e a questa 'acustica interna', agli scorci di immagine del pensiero, si collega in Barilli la scelta 'epigrammatica' , tradotta negli squarci di comprensione degli aforismi, carichi di sacra indignazione e di esemplare integrità che costituiscono la sua sferzante ed istintuale critica musicale. Nota Andrea Battistini a proposito della 'frammentarietà' della prosa di Barilli: "La rinuncia alle grandi architetture e' compensata dalla viva immediatezza di istantanee che senza preamboli inutili vanno dritte al cuore delle cose, consentendo all'autore di sbaragliare il decoro inamidato di tanta critica accademica e impettita che si avvolge delle perifrasi e della ipotassi per esimersi dalla deontologia del giudicare senza mezzi termini.” Un'ulteriore caratteristica della scrittura di Barilli è l'alternanza e talvolta la fusione dei due diversi moduli linguistici, l'italiano e il francese, quasi a contrassegnare come notò Ungaretti, una forma di pudore e di ritrosia, uno schermo a cui Barilli ricorreva ogni volta in cui voleva cogliere l'essenza .delle cose, e non osava far1o con il medium troppo diretto e indifeso della sua lingua madre. La liberta' di stile e di inventiva formale della prosa caratterizza in Barilli anche lo stile del comporre : nonostante i corsi con Felix Motti, Barilli rimane sempre un autodidatta: in campo musicale come in quello letterario suppliva alle nozioni tecniche e alle letture con 'intuizione, la “conoscenza silenziosa” che egli aveva dentro di sè. A partire dal 1916 Barilli iniziò l'attivita' pubblicistica sulla "Ronda" (ne fu redattore assieme a Cardarelli, Cecchi, Baldini, Bacchelli, etc...), e su altre riviste e quotidiani (Il Popolo di Roma, La Gazzetta di Parma, Il Resto del Carlino, Il Tempo, La Nazione, etc...), conobbe ed ebbe tra gli amici più cari Ungaretti, Cardarelli, Ezra Pound e grazie al suo stile musicalissimo, originale e 'barocco' riuscì ad imporsi assai presto: “Il Barocco romano e' il teatro e l'orchestra di Barilli. Barocco e Barilli fanno una di quelle leghe perfette, come il cacio e le pere, il prosciutto e il melone. Di musica, come dico sbaglio; ma i caratteri letterari del mio amico so che son quelli del più bel Seicento: d'un Seicento vergine, barbarico, quanto fu metaclassico quello del Marini o dell'Achillini...” - Antonio Baldini - Corriere Italico, dicembre 1923).
Ma l'essenziale e sostanziale apporto di Barilli è quello più squisitamente critico musicale. La sua critica, animata e splendente, la simbolica 'frusta' come la definirà Fausto Sartorelli (3) , e' caustica e dissacratrice, atroce talvolta. Sotto le sue sferzate cadono i nomi più altisonanti e illustri del mondo musicale, eppure essa sembra non opprimere, non è gravida di acrimonia - come si potrebbe pensare - non conduce alla vessazione o alla prevaricazione. "Barilli non odia, nè uccide" (4), la sua critica è dettata da idealità artistica e crediamo anche in buona parte da onestà intellettuale. Certamente quello di Barilli è un 'massacro', seppur brioso ed elegante, arguto ed umoristico, che non risparmia nessuno, nemmeno gli amici più cari: Casella (“la sua posizione nel mondo della musica è quella di colui che non persuade nessuno nè si lascia persuadere da chichessia. Grossista di rottami sonori.” Aforismi n.69 [83]), Toscanini (“specializzato e violento, un vero accesso del male professionale. Gli artisti sono d'altra natura” T. XXll ,121-125), Boito (“un poeta certamente autorevole, ma pieno di ideologie e di scombiccherature dilettantesche”- Verdi XIV), Malipiero (“musica esitante stremata come quella di un vecchio carillon. Ogni quattro battute tentenna, bisogna ricaricarlo” T.XLll, 113), R. Strauss (“Strauss ha la fantasia di un tirapiedi del boia” Aforismi 185 [209]), Debussy (“Noi rimaniamo tutt'ora persuasi che Claudio Debussy oltre che un creatore di musiche che non dureranno molto nel tempo a venire, era, per certe sue attitudini teoriche, il propulsore di un movimento disastroso e in Italia ne conosciamo assai bene le conseguenze”- Commemorazione di Debussy - 1918 ).
Nato nel 1880 a Fano, figlio del pittore parmigiano Cecrope, Bruno Barilli trascorse la giovinezza a Parma. A 19 anni abbandonò le scuole tecniche per iscriversi al Conservatorio dove iniziò lo studio del violoncello. Un anno dopo scappò a Monaco di Baviera dove frequentò l'Accademia e studiò composizione e direzione d'orchestra con Felix Mottl. Conobbe lì la principessa serba Danitza Pavlovic che sposerà nel 1907, un matrimonio che non durò a lungo e da cui ebbe una figlia, Milena. Tornato in Italia iniziò a comporre la sua prima opera “Medusa” completata nel 1910. A questa prima opera ne seguì una seconda “Emiral” nel 1915. L'occasione per dare avvio alla composizione di “Medusa” l'ebbe dalla lettura dell'omonimo libretto di Ottone Schanzer, una vicenda efferata e sanguinaria, destinata originariamente a Richard Strauss. Barilli appena lo lesse ne fu entusiasta, indipendentemente dal valore letterario del testo: per lui il libretto era solo un pretesto per la musica. La vicenda è ambientata (come lo sarà poi anche in “Emiral”) in un oriente balcanico leggendario, suggestione a cui Barilli fu particolarmente sensibile, probabilmente per influsso del mondo culturale di Danitza, la principessa serba che aveva sposato. Medusa è la ferale donna che con l'incantamento della lussuria e la trappola della perfidia porta alla rovina e alla morte tre fratelli, le loro mogli e il loro padre, un'intera famiglia che, cieca al terribile inganno, soggiace innocente. Il libretto di “Emiral”, la seconda opera, lo scrisse Barilli stesso, che nella vicenda, altrettanto truculenta e ferale, del tragico amore tra la bella Emiral e il guerriero Fazil, appartenenti a due tribù nemiche, intese forse sublimare l'essenziale suggello della sua storia autobiografica. L'intima visione barilliana del mondo è riflessa anche nel crimine di Emiral e nella maledizione di Medusa, nella cui vicenda sembra rispecchiarsi in tre riconoscibili fasi la parabola discendente del destino dell'uomo, attraverso la passione, il tradimento e il finale annichilimento e assoggettamento totale del corpo e dell'anima ad una forza maligna che penetra a poco a poco, ma radicalmente nella vita e nei corpi delle sue vittime, una parabola, o meglio una metafora essenziale nell'opera - e anche purtroppo - nell'esistenza di Barilli.
Barilli è essenzialmente una figura della duplicità, trasformatasi in vittima delle insidie di un 'maligno' che egli trovava in sé stesso, probabilmente nel narcisismo, nei suoi tormenti, nell'ossessione della sua fortuna compositiva e musicale, ma anche nel mondo che lo attorniava, nelle persone care, negli amici a cui egli non risparmiava con spietatezza e insensibilità quelle umiliazioni che non avrebbe voluto provare su di sè, spinto da un doloroso impulso che non era nella sua natura più vera e profonda, ma che forse nasceva in qualche modo da una sua intima e malcelata rivendicazione. “Medusa” ebbe due sole rappresentazioni. “Emiral” vinse nel 1923 un prestigioso concorso indetto dall'allora Ministero della Pubblica Istruzione (in giuria c'erano G. Puccini, F. Cilea, T. Serafin, F. Alfano e B. Molinari) e andò in scena al Teatro Costanzi di Roma nel 1924 con un buonissimo successo. Seguì poi un'inspiegabile ed ingiustificabile silenzio . A parte qualche esecuzione alla radio, l'opera è andata in scena, a tutt'oggi, credo di non sbagliarmi - quattro volte in tutto. Le partiture - ormai introvabili - di queste due stupende opere barilliane sono conservate alla Biblioteca Palatina di Parma. Tra le positive critiche che "Emiral" ebbe al suo esordio leggiamo quella di un critico d'eccezione, Vincenzo Cardarelli:
“L'opera ascoltata ieri sera al "Costanzi" conferma a modo suo, in un campo dove i Beckmesser in fregola di modernità sono sempre molti, la bonta' della nostra religione artistica. Nata dall'ardente fantasia di un compositore che professa criticamente il più cordiale tradizionalismo, essa è satura di esperienza storica, oltre che di sensibilità, e mentre si ricollega decisamente al nostro vecchio melodramma, porta con sè il frutto inestimabile di un lungo viaggio attraverso tutta la musica moderna. Caso eccezionale e nuovissimo, nel mondo dell'opera in ispecie e in quello del teatro in genere, un autore che è anche un poeta, un artista perfetto. E poichè il teatro nasce e muore col fiorire e decadere degli artisti, e il nostro agonizza per mancanza non di altro che di autori d'ingegno, ci si consenta di dire che con due o tre compositori di questa qualità e forza l'opera italiana sarebbe salva. Con questo augurio e questa speranza nel cuore, salutiamo “Emiral” sulla scena.” (Corriere Italico – 12.3.1924)
Il 'mistero' delle due opere dimenticate segnò profondamente la vita e l'anima di Barilli : “su quelle due sue creature Barilli gemette sino alla fine, come su due sepolte vive” - scrive Sartorelli. Non lo abbandonò mai l'idea dell'oscura macchinazione ai suoi danni e nei Taccuini si trovano numerosi espliciti riferimenti in tal senso, accresciuti negli ultimi anni dalle angustie dolorose di un'esperienza esistenziale angosciosa e tragica vissuta in completa solitudine:
"Come ricorrere alle leggi, se le leggi sono le redini in mano a una massoneria, a una frateria, a una gerarchia...? ...Guai a esser soli.” (T. , LXVII, 58) E ancora : "La vita è un problema pesantemente materiale, i rapporti necessari con le persone circostanti sono spaventevoli, perchè la società nostra è retta da una legge feroce: mors tua vita mea, e la furberia, la furberia soltanto può risolvere tutto. Chi non è furbo può mettersi a letto e aspettare i becchini." (Aforismi n. 210 {236])
Barilli non riuscì a comprendere la società del suo tempo, non volle accettare la crisi ineluttabile del melodramma, stretto dalla morsa inesorabile della storia. Eppure da operista qual’era sapeva benissimo che la lirica è una forma d'arte che non può essere piegata alle incongruenze delle epoche e ne presentiva esattamente la fine. Così scriveva nei Taccuini: “Le mie opere. Conosco la chiavetta per illuminarle di dentro. Nessuno lo sa. Nessuno lo può fare, non conoscendo la chiavetta. Morto io - morte anche le mie opere...” (T. , LXVI, 31)
Nel 1943 iniziò per Barilli la parabola discendente. In quell'anno si accinse a comporre una terza opera lirica, ma circostanze esterne glielo impedirono:
“Nel 1943 decisi di liberarmi del giornalismo e della critica per dedicarmi esclusivamente alla composizione di una terza opera. Comprai un pianoforte nuovo, molta carta da partitura. Affittai una stanza a Siena (Anche allora c'era la guerra). La mia stanza si trovò incastrata fra i due eserciti, gli alleati e i tedeschi, e in più le cascarono addosso i partigiani e i repubblichini. In conclusione scomparvero il pianoforte, la carta da partitura e anche la stanza con tutte le mie robe. Così scomparve ancora prima di nascere la mia terza opera. In quei giorni ero venuto a Roma per liquidare la mia posizione di critico giornalista ecc., ma prima che lo facessi io, me fa fecero gli altri, questa liquidazione a Roma.
Degradazione, depredato [vilipeso], messo al bando, spogliato, lapidato e buttato [nudo] sulla pubblica strada. Era l'inverno. Mi domanderete, “Mo' chi è stato?” Erano in tanti che non ho visto più nessuno. Quindi {d'ora in poi ] niente più composizione e musica nella mia ultima vita. Dopo la guerra, si spiegò su di me, [scoppiando] con la sua spregevole conflagrazione, la guerra civile che dura sino ad oggi.”
(T. , LXVII, 10-12)
In quegli anni bui la sua esistenza si fece sempre più difficile. Nei suoi scritti si delinearono sempre più intense e dolorose le riflessioni sul motivo vittimistico di 'Giobbe' e sul dramma autobiografico dell'individualità frantumata e annientata nello spietato ingranaggio della realtà sociale: “Tutta la mia entità sociale abbattuta e distrutta ... allora precipitiamo nel sottosuolo, con quel che ci è rimasto della nostra vita, della nostra personalità … nel sottosuolo originale [e cavernoso] del nostro essere, là dove fra radici scorre il materno sangue germinale, vicini a quel che fummo e a quel che saremo di poi: nel limbo.” (T. , LXVI, 12-13)
Barilli a poco a poco lasciò sfuggire il tenue filo che ancora lo legava al mondo sociale e prestigioso ma 'artificiale' a cui negli anni giovanili si era aggrappato e piegato e scelse le strade del distacco e della liberazione. Probabilmente non riuscì più a far fronte al tributo sempre maggiore di disumanità, di spietatezza, di ipocrisia che gli veniva richiesto, non era più in grado di reggere alla formula compromissoria, all'abdicazione del 'talento umano' e della verità. La fisionomia che era stata fino ad allora il tratto distintivo della sua critica, diventa rigorosamente - direi quasi asceticamente - l'essenza della sua vita quotidiana. Barilli si pone senza alcuna corazza davanti alla vita e l'aggressività molte volte rimproveratagli si rivela frutto della sua avversione verso certa infingardaggine e certa impostura che trovava attorno a sè. La sua natura non si piegava ad alcuna doppiezza o falsita verso nessuno (celebre è rimasta la sua critica senza mezzi termini a Toscanini), egli non volle mai soccombere al circolo vizioso della 'unicità dell'opinione' proclamata e imposta dalla tendenza culturale di volta in volta dominante e alla quale, per chiunque, è assai difficile sfuggire.
La sua critica musicale provocatoria anche con gli amici più cari, finì per ritorcersi contro di lui e attirargli l'odio tremendo di molti. Nella sua dualità di innocente- trasgressore egli - stretto nella trappola di un gioco psicologico consacrato all’ equivocità - combattè al fianco di un istinto autodistruttivo, scambiandolo per un segno positivo e rasserenante. Finì per essere vittima di quell’ “assassinio del diverso” che la collettività tende in vario modo e in varie forme a perpetrare quando un individuo - con la sua stessa esistenza - pone problemi di coscienza alla comunità 'adattata' , minacciandola, seppure in modo simbolico, nella 'integrità' che essa si e' costruita e dietro la quale si difende.
Barilli li definì “mangiatori d'ipofosfiti”: “Avvicinatevi e prestatemi ascolto: Non conoscete voi i famosi odiatori del genio, della personalità, della grandezza, della semplicità"? (...) Orbene, sappiate che questi esseri freddi e tenaci esistono, e che il loro sinistro progetto è quello di fare le esequie e di seppellire rabbiosamente sotto terra a colpi di tacco gli uomini di vita e di talento. Essi sanno salire, scalare, inerpicarsi, tendere agguati, stuzzicare la suscettibilità dei potenti, sfruttare le deficienze palesi e le imbecillità segrete del Governo, stabilirsi su tutti i piuoli della scala gerarchica...”(Delirama 1924)
Barilli attribuisce l'origine dei 'mangiatori' ad un momento di stanchezza e di disamore della Provvidenza, la quale, nel creare quegli esseri confonde nella sua alta mente “le leggi e i principi della perfezione”, dando così avvio alla creazione di una generazione “incompiuta e defraudata di tutte le prerogative superiori ...”
“Questa - prosegue Barilli - è la genia dei mangiatori d'ipofosfiti, (...) genia tartassata e semispenta codesta, ma pertinace e stridula che disturba in chiave di zanzara il riposo delle vecchie civiltà (...)
Schiuma di tutte le schiume che l'invidia e il malanimo sospinge a ondate verso le rive sonnolente dove ardono i fuochi del Genio e impera lo stile crudo e fermo dell'eternità, questi piccoli esseri nuotano affannosamente con la grande bocca immersa nella spuma dei flutti e cercano di superarsi l’un l'altro per arrivare e distruggere”.
La disperazione di Barilli che trapela così nettamente da queste pagine viene esacerbata dall'improvvisa scomparsa nel 1945 della figlia Milena, famosa pittrice, la sua proiezione autentica nell’arte. Caparbiamente egli si impuntò a conservarne l'urna con le ceneri nell'armadio della stanza, quasi a voler suggellare la sua ormai disperata e quotidiana frequentazione con la Morte.
Da quella disgrazia iniziò per Barilli un’incessante tormento che durò per altri sette lunghi anni fino alla morte che lo colse poverissimo e solo nel 1952 a Roma, dove è sepolto nel Cimitero degli Inglesi: “Sono disperato - son già due anni che sono disperato – nella più spaventevole miseria – non posso staccarmi da questa disperazione. Adesso che non c'è più Milena - che tu non sei intanto, qui da me. Se tu ci fossi e mi guardassi, con i tuoi occhi, potrei sentire ancora il cielo di Dio ancora una volta sopra di me.”
(T,LXV,23 bis)
Note
1. Bruno Barilli – Le guerre serbe - a cura di Giorgio Pellegrini Editori Riuniti,Milano, 1993
2. Bruno Barilli - Il sorcio nel violino - a cura di Luisa Avellini e Andrea Cristiani Introduzione di Mario Lavagetto Einaudi,Torino,1982
Bruno Barilli - Il Paese del Melodramma - a cura di Luisa Viola e Luisa Avellini Einaudi,Torino,1985
Bruno Barilli - Capricci di vegliardo e Taccuini inediti - a cura di Andrea Battistini e Andrea Cristiani - Einaudi,Torino,1989
3. cfr. Fausto Sartorelli “Bruno Barilli” - Battei, Parma, 1990 -
4. Ibidem pag. 95