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CLEMENTE REBORA
La Coscienza e il Dono
a cura di Paola Zelco
Clemente Rebora è oggi considerato uno dei più grandi poeti del nostro Novecento.
Attorno al suo nome c'è sempre meno diffidenza, anche se forse a tutt'oggi dobbiamo ancora considerarlo un “maestro in ombra” come lo definì Pasolini.
Geno Pampaloni attribuiva il “silenzio” gravato per anni su Rebora al risalto che la critica letteraria dell'epoca aveva dato al gusto ermetico, quindi a poeti come Ungaretti, Montale e Quasimodo, lasciandone in disparte altri, come Campana e Rebora.
Negli ultimi decenni l'interesse per l'opera reboriana si è fatto più vivo e sono fiorite nuove pubblicazioni, studi, conferenze e convegni.
Già da ragazzo Clemente preferiva giocare e lavorare con i figli dei contadini. Scrive Carlo Bo: “Il fratello Piero ci ha ricordato come Clemente preferisse sin da allora la compagnia degli umili, come fosse felice di lasciare i panni delle buone abitudini e delle piccole eleganze borghesi per correre a giuocare, a lavorare con i figli dei contadini.” (1)
Rebora mostrava rettitudine e schiettezza, conosceva l'essenza dei suoi doveri: non si trincerava dietro ai valori borghesi a cui era stato educato, vedeva gli altri uguali a sé, non sminuiva nessuno, non si sottraeva alle sofferenze o al dolore degli altri.
“Il primo germe della spiritualità di Rebora sta nella sua natura (…) - scrive Carlo Bo. “E' la pasta dell'uomo, è la sua figura spirituale: ciò non toglie che per adeguarvisi abbia dovuto spendere in tormenti e in sofferenze più di metà della sua vita.” (2)
La sua biografia è complessa: nato a Milano nel 1885, quinto di sette figli, frequentò l'Accademia scientifico-letteraria dove si laureò nel 1909 con una tesi su Giandomenico Romagnosi. Suoi amici di quegli anni furono Antonio Banfi, Angelo Monteverdi, Lavinia Mazzucchetti, Giovanni Boine, Lydia Natus, Ada Negri e Sibilla Aleramo.
Clemente Rebora non fu mai uno studioso regolare nelle materie scolastiche. Antonio Banfi, suo compagno all'università mise in luce il fatto che Rebora “s'interessava soltanto delle intuizioni della vita (Nietzsche, Schopenhauer, Budda) sul piano di una idealizzazione piuttosto che d'una razionalizzazione.”(3)
In quegli anni Rebora collabora alla “Voce”. Nel 1913 esce la sua prima raccolta di 72 componimenti poetici i “Frammenti lirici”.
Le esperienze di insegnamento segnarono parte della sua giovinezza: dal 1910 al 1915 fu professore alla Scuola Tecnica di Milano, Treviglio e Novara. “Era pendolare e viveva nell'incertezza: partecipò ad un concorso in cui risultò tra i vincitori ma che in seguito venne annullato”(4). Approfondì l'aspetto della formazione, dell'erudizione e soprattutto del ruolo della coscienza nella responsabilità dell'insegnamento: “Riflettè molto sui modelli e valori della scuola italiana, sulla didattica e la pedagogia dell'epoca a cui pose la sua attenzione anche dopo la guerra. Seguirà il “Gruppo di azione per le scuole del popolo”, guidato da Adelaide Coari pedagogista cattolica.” (5)
La scuola era diventata un modo per mettersi a disposizione degli altri, di dimostrare amore e sacrificio: gli anni pre-bellici, aridi, sconfortati e l'impegno gravoso a scuola, richiesero da parte di Rebora molta abnegazione:
(…)
Erra, tra polvere e peste,
il gonzo pecorume
dei ragazzi di scuola,
e, palloncini sugli spaghi, oscilla
dai corpi smilzi il vuoto delle teste:
dietro mi stringo con passo caduto,
vittima che s'immola
al sacrificio muto (…)
(Frammento XXXVI)
Più tardi fu la volta della chiamata alle armi: nel 1906 Rebora aveva prestato il servizio militare e durante il 1.o conflitto mondiale, sottotenente di fanteria, dovette arruolarsi. Nel dicembre del 1915 a seguito di una tremenda esplosione di un'arma da fuoco di artiglieria subì un gravissimo trauma cranico. Fu ricoverato per molti mesi e finì così la sua partecipazione attiva al conflitto.
Percorrere la via del compimento, del perfezionamento, è stato per Rebora il compito e l'anelito di un'intera vita: all'inizio ci furono passaggi e tentativi. Poi le prove e la ricerca di un Amore che superasse quello terreno. In quegli anni si dedicò soprattutto allo studio delle religioni, agli studi spirituali, tenne conferenze sui temi del misticismo, della teosofia, della reincarnazione. Nutriva una grande ammirazione per il poeta e filosofo indiano Tagore, ma considerava importante soprattutto la rivelazione religiosa occidentale incarnata dal Mazzini e dal mistico 'messianico' polacco Towianski.
Nel 1922 Rebora pubblica i “ Canti Anonimi”. Nel 1924 accetta di dirigere per l'editore Paravia la collana “Libretti di Vita” che proponeva testi della spiritualità orientale e occidentale, dal Talmud a Plotino, da Jacopone a Gioberti, da Boehme a Towianski. Nella prefazione Rebora dichiarava l'impegno che si era proposto, cioè di “scoprire l'unità delle diverse credenze” miranti all'ascesa umana “verso sintesi superiori di vita affratellata”, anche se più tardi non si sentì più a suo agio in questo tipo di “sincretismo”.
Attraverso la spiritualità di Mazzini prima e di Rosmini poi, Rebora si preparò alla scelta di conversione che lo avrebbe portato nel 1930 a ritirarsi nel Convento Rosminiano dell'Istituto della Carità di Domodossola e a pronunciare nel 1936 i voti perpetui.
Fu una scelta totale e assoluta. Nel 1930 Rebora rivelava ad una sua ex-alunna della scuola Martignoni il suo approdo definitivo alla Fede cattolica:
“Ecco: nell'autunno dell'anno passato, con misericordiosa grazia, la Madonna mi prese per mano e dalle tenebre in cui erravo mi condusse al fulgore di Gesù. Erano almeno trent'anni che io, non educato alla Fede, andavo cercando la via del Paradiso su tutte le deviazioni dell'inferno”(6)
Osservava Carlo Bo:
“Perchè è durato tanto? Perchè Rebora non ha scelto prima la strada del Monte Calvario ma ha resistito in questa dura e affascinante trincea milanese, a fare il piccolo cabotaggio nelle scuole serali, a cercare la compagnia degli umili e dei diseredati, a dividere infine la sua casa, la sua tavola, il letto con i barboni, con chi trovava la sera per caso e lo ingannava spesso con la maschera della miseria? Quarantatre anni sono molti, almeno a noi sembrano molti, dico a noi per cui queste operazioni sono rese molto più facili dalla comodità e dalla insensibilità della nostra vita.” (7)
Per la Marchione l'intervento trascendente è palese nella vita e nella sofferenza del poeta:
“(…) E' evidente che Dio per ricondurre a Sè Clemente Rebora, si servì specialmente dell'insoddisfazione e disgusto (e anche nausea) che costituirono la di lui reazione e ribellione a una società contemporanea che aveva rigettato la sua pietra angolare – Dio.” (8)
(…) Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!
(Sacchi a terra per gli occhi)
(Canti anonimi 1920-22)
Questi versi di Rebora ci ricordano una citazione di Pascal: “Noi corriamo senza pensarci nel precipizio, dopo di esserci messi qualcosa dinanzi per impedirci di vederlo”.
Sono versi che esprimono la realtà vera e profonda, il grido che manifesta la verità, quella pura, mentre tutta la vita a cui siamo assuefatti attorno a noi ci abbandona.
Notava ancora Carlo Bo:
“(...) sarebbe ingiusto da parte nostra non guardare il rovescio della medaglia, vale a dire dimenticare quello che ha significato per Rebora questa lenta ma sicura maturazione, cosi che la fulminazione della Parola contro le chiacchiere è avvenuta al momento giusto, con tali radici da non dover temere per il futuro tentennamenti, dubbi, ma soltanto quella particolare forma di “insoavimento” che è davvero la cosa più singolare della sua storia e che per noi resta inafferrabile, irraggiungibile.” (9)
(…) “Chissà come doveva sembrargli povera – scrive ancora Carlo Bo – e alla fine ridicola l'enorme fiera in cui buttiamo la nostra stessa vita fra lampi di ambizione e stracci di miseria interiore”. (10)
Per lunghi anni della sua gioventù era maturata in Rebora l'ardua e dolorosa ricerca interiore: aveva tramutato in poesia il compito a cui si sentiva chiamato ma l'anima sua rimaneva inaridita, nascondeva in sé forze che non riusciva ad esprimere ed assomigliava a un carro vuoto, abbandonato, in una notte oscura:
“O carro vuoto sul binario morto,
ecco per te la merce rude d'urti e tonfi. (…)
(…) e irrigidito rattieni le chiuse forze inespresse”
(Frammento XI)
Un identico tema ricorre in altre liriche:
(…) e talor sembro un carrettier che al sole
per l'urto rotto di un cavallo stanco
dentro l'arsura del cammino bianco
un sonno covi di polvere e sete.”
(Frammento XXXV)
o ancora:
“(…) le mete non raggiunte dalla vita.
tocche saranno dall'arcana morte”
(Frammento XV)
Rebora sa riconoscere il proprio dolore e soprattutto il dolore degli altri, scruta l'afflizione dell'essere umano che vive nel sogno:
“Il fato di ciascun è dentro al mio,
come nell'occhio lo sguardo (…)
(Frammento XXIV)
comprende l'illusione di chi vive nell'angoscia e l'ossessione di chi nega la coscienza:
"… O stanchi di sognar, oggi dormite:
tutto, domani, ricomincerà”
(Frammento XXIV)
L'insensatezza del quotidiano, il brancolare nel buio, la negazione del Trascendente, l'essere umano divenuto fantoccio nelle abili mani di altri, risuonano come un'ombra cupa nelle sue poesie:
“(...) scoli ognuno nei molti, e dissolva la sua intima pace alla città vorace che nella fogna ancor tutti affratella (…)
esser persona la saggezza or vieta.”
L'ultimo grido “Ohimè, luce dove sei?” rimane senza risposta.
(Frammento X)
L'essere umano non può che tentare di salvarsi da solo e per far questo deve saper scrutare la propria interiorità. Non può più aspettarsi alcun aiuto dall'esterno, deve trovare le forze dell'amore in sé. Gli viene richiesto di agire in prima persona e di esercitare le virtù:
Quel che ammonirono i libri santi,
i nostri profeti traditi
ecco che viene avanti -
l'antiCristo con falsi riti (…)
(…)
Ma chi si eleva, sarà salvato,
chi serba fede all'umano,
chi nel diluvio tenderà la mano
al mondo naufragato.
(…)
C'è tanta bontà nascosta
che non osa uscir fuori
attende s'aprano i cuori
a un'umana risposta.
Versi (sta in: “Poesie sparse” 1913-1927)
L'uomo che si sostituisce a Dio si trascina asservito ai propri vizi, a ciò che noi oggi siamo soliti chiamare “io” o “ego”:
(…) “anonima rozza che il carro trascini
dite dite l'arcana maniera
dell'invisibile amore
a noi, che meschini
coniamo dei nostri suggelli
il lavoro di Dio gridando : Io, io, io!
Frammento LXII
Presumiamo di essere bravi e onesti, santi e virtuosi, ma in genere non lo siamo o lo siamo troppo poco. In realtà vorremmo metterci al posto del Divino e rivaleggiare con Lui.
Nel Preludio ai “Canti dell'infermità” Rebora a tale proposito scrive:
(…) “Orrore disperato, Gesù mio,
trovarsi in fin d'aver cantato l'io!
Se poeta salir, ma non qual santo,
perder di Tuo amore anche un sol punto,
oh da me togli ogni vena di canto,
senza più dir, nella Tua voce assunto!
30 dicembre 1955
L'educazione ai valori più profondi della vita e dello Spirito Rebora l'aveva ricevuta, nel tempo felice della sua infanzia, da Carlo, il contadino che lo teneva accanto a sé nel lavoro dei campi e che lo indirizzava ed educava guidandolo solo con l'esempio:
"Al tempo che la vita era inesplosa
e l'amor mi pareva umana cosa,
fanciullo a te venivo
o Carlo contadino...”
(...)
A te correvo già felice:
e tu guidavi senza farmi male
l'anima persuasa,
parlando il poco di chi intende e dice;
(…)
Risorge la tua cara vita
dove va più smarrita
o Carlo, contadino (…)
E ti vedo levar come il mattino
in verecondia gli occhi
consacrando il pensiero
al semplice elemento,
mentre è bello il silenzio a te vicino.”
“Canti anonimi” (1920-1922)
“Consolati: tu non mi cercheresti
se non mi avessi già trovato”
(Blaise Pascal)
Nel periodo della piena maturità (dal 1936 al 1956) l'esito poetico di Rebora riguarda soprattutto le Poesie Religiose (1936-1947), i Canti dell'infermità (1946-1956) e il Curriculum Vitae (estate 1955). Si stava preparando già da molto tempo a questo compito. In una lirica del 1926 in “Poesie sparse” un assillo tormenta il poeta e un'afflizione lo coglie nel desiderio di poter essere d'aiuto, di rendersi utile, di essere “disposto a servire la gente”:
“Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,
mi pare deva echeggiar imminente
una gran voce chiamando: “Clemente!”
Per un'umana impresa ch'è da farsi...
E perchè temo che risuoni quella
quando dai miei fratelli io fossi assente,
monto, senza sostar, di sentinella
nel cuor disposto a servire la gente.”
(Poesie sparse 1913-1927)
Nella prima tra le Poesie religiose (1936 – 1947) leggiamo una lirica in terzine dedicata al ruolo e alla santità del sacerdote:
(…) Il sacerdote è qual porto e difesa
nel mareggiar del mondo contro Cristo;
stende le braccia della Madre Chiesa.(…)
Il sacerdote insegna vera storia
al mondo illuso che corre alla fine:
la volontà di Dio e la sua gloria.(…)
Il sacerdote è tutto una preghiera
che sal non vista in sacrificio a Dio:
così snerva il demonio e la sua schiera.”(…)
e nel “Notturno” Rebora si rapporta al voto emesso “sub gravi” nel giugno del 1936:
(…) La grazia di patir, morire oscuro,
polverizzato nell'amor di Cristo:
far da concime sotto la sua Vigna.
pavimento sul qual si passa, e scorda,
pedaliera premuta onde profonda
sal la voce dell'organo nel tempio -
e risultare infin inutil servo:
questo, Gesù, da me volesti; e vano
promisi, se poi le anime allontano. (…)
Maria invoco, che del fuoco è Fiamma;
pietosa in volto, sembra dica ferma:
Penitenza, figliolo, penitenza:
prega in preghiera che non veda effetto:
offriti sempre, anche se invan l'offerta;
e mentre stai senza sorte certa,
umiliato, e come maledetto,
Dio in misericordia ti conferma.”
24 dicembre 1955
“Il mio pregare è divenuto una invocazione muta,
interna, di ogni momento”
(Canti dell'infermità 1947-1956)
Nell'Archivio Rosminiano a Stresa, alle pagine 276-302 si trova il testo di una conferenza dedicata a Rebora e tenuta a Varallo Sesia da Padre Giovanni Pusineri il 21 dicembre 1957.
“Il 16 dicembre del 1952 Rebora ha le prime avvisaglie della malattia che lo porterà alla paralisi completa. Lo trovo impossibilitato a muoversi: paresi destra. “Don Clemente mio – gli dico – che mi state combinando?”
“Padre – mi risponde tutto sorridente e luminoso – Dominus tetigit me!”
“(…) Il 2 ottobre del 1955 un'altra “visita” del Signore “L'assalto del male fu di una gravità eccezionale: tutti fremettero al pensiero che il caso fosse disperato: egli solo, rinvenuto, ne era gioioso”(...) La camera in cui fu collocato (...) era (…) staccata dalle altre celle dei religiosi, in modo che egli potesse ricevere visite senza turbare il regolare ritmo della vita comunitaria. (…) “Sparsene la voce – è ancora Pusineri a raccontare – non solo i confratelli e i suoi congiunti, ma sacerdoti e persone di ogni qualità venivano a visitarlo, e non a confortare lui, ma a ricevere conforto da lui. Anche da lontano, persone che né egli aveva mai conosciute né prima esse avevano sentito parlare di lui: il Padre Pio da Pietralcina stesso a persone che erano andate da Vercelli, da Novara, da Milano fino a San Giovanni Rotondo, disse: “Perchè venite qua voi che avete a Stresa un padre Rebora?” (11)
Rebora si abbandona alla prova, alla volontà dell'Eterno, con serenità e beatitudine, gioioso in realtà, affidandosi totalmente a Dio. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato e che sarebbe stato non solo un supremo esercizio di sofferenza e di rinuncia ma il culmine di tutto il suo combattimento spirituale e la vetta di un'eccelsa beatitudine.
E' la “perdita completa di sé” di cui scrive Jean Guitton: “E' qui che riconosco l'efficacia del dono di sé (…) quando questa perdita è totale, legata alla gioia, quando conosciamo l'emozione trionfante dell'abbandono, allora siamo padroni delle cose” – (12)
Per Rebora il grande numinoso aiuto proveniva dalla sua devozione alla Santa Vergine.
Anche Guitton, come Rebora, aveva una predilezione particolare per la devozione Mariana, una venerazione che gli ha consentito di conservare la fede nel corso dell'intera vita: “Credo che senza le devozioni cattoliche, e in particolare quella per la Vergine Maria, che è al centro di tutte le devozioni (che le riassume tutte, come il corpo si riassume nel cuore) non avrei potuto conservare la fede nella sua sostanza costante, che mormora come un'acqua sotterranea, che scorre silenziosa in fondo all'anima, e che è quasi un accompagnamento alla sensazione di esistere.” (13)
Negli Inni (1953-1956) si trova la lirica 'Il Lebbroso' che fa parte del 'Trittico' assieme a 'Tobia' e 'La Maddalena'
Tratta dal Vangelo di Luca, capitolo 17 versetti 11-19, racconta la vicenda dei dieci lebbrosi che furono guariti da Gesù lungo la strada e che proseguirono il loro cammino - come se nulla fosse - pur vedendosi guariti.
Solo uno di loro tornò indietro e si gettò ai piedi di Gesù, lo ringraziò e lo lodò per il miracoloso prodigio compiuto. Era un Samaritano, uno straniero.
“(...) di dieci un sol fu con Lui sincero:
il bene conosciuto riconobbe (…)
baciò, baciò, baciò la faccia a terra,
i piedi di Gesù, più ringraziando.
Così si offrì al Donatore in dono.”
Gli altri nove rimasero evidentemente insensibili alla conversione e alla fede. E' interessante notare che l'esortazione finale nella poesia di Rebora è piena di una drammaticità che si addice – sotto certi aspetti - alle vicende umane e spirituali della nostra epoca:
“Oh, correte, correte, scade il tempo:
correte! E gli altri nove dove sono?”
Il tema dell'inesorabilità del tempo e, ancor di più, il tema della grazia e della redenzione segnano la poesia di Rebora che sembra metterci in guardia da una verità ineluttabile.
Nel “Cinquantesimo di vita religiosa di P. Giuseppe Bozzetti” si legge:
(…) “Non riamare l'Amore è tormento;
amiamolo, amandoci, adesso:
domani non saremo più in tempo”
(sta in: C. Rebora “Poesie varie” - 1947-1956)
C'è una scadenza che pesa su tutti, una lotta contro l'inesorabile perchè solo l'essenza possa essere salvata:
“Oh ch'io Ti elegga nell'unico momento
che fa l'eterno! Poi, non sarà più tempo.
Tutto che amor non sia andrà travolto
(sta in: C. Rebora “Poesie varie”- 1947-1956)
Clemente Rebora fu anche musicista, pianista e compositore.
Al termine degli studi, oltre alla tesi su Romagnosi, Rebora aveva dovuto preparare anche una tesina, e visto il suo amore per la musica aveva deciso di scrivere un saggio sulla musica in Leopardi dal titolo: “Per un Leopardi mal noto”(14)
Approfondì e continuò a studiare ancora da adulto l'Armonia, la “scienza della musica”. Quest'Arte rappresentò per Rebora, accanto alla poesia, l'aspetto più intimo, la via più diretta e immediata alla rivelazione dello Spirito:
“O musica, soave conoscenza,
tanto innaturi l'anima fin ch'ella
delle immagini vere la più bella
in sua voce ritrova e in sua movenza (…)”
(Frammento XVI)
Platone considerava compito della musica il “risvegliare l'amore per il Bello e avviare l'uomo alla contemplazione del Bene”. Nelle antiche scuole elleniche si accostava la musica all'etica e alla filosofia e si studiava il potere curativo del suono.
Anche ai giorni nostri molti studiosi hanno sottolineato l'importanza che la musica ha per l'anima dell'uomo. John Blacking (15), professore di antropologia sociale ed etnomusicologo, affermava che “la cosa più difficile è amare e la musica è una attività che prepara l'uomo a questo arduo compito” (16). Sosteneva altresì che “la principale funzione della musica nella società e nella cultura è quella di promuovere un'umanità armoniosamente organizzata, innalzando il livello di coscienza degli uomini” (17)
Non dobbiamo dimenticare che Beethoven in tutta la sua opera e in tutta la sua irreprensibile ed esemplare esistenza aveva già realizzato tutto ciò insegnandoci che “La musica è una rivelazione più alta di tutta la saggezza e di tutta la filosofia”.
Sertillanges ribadiva che: “una zona di contemplazione è necessaria ogni giorno ed è necessaria alla vita. (…) Noi stessi la cerchiamo con la vita morale, col misticismo, con l'amore, con la filosofia, con la scienza, con l'arte e la troviamo quando queste cose sono pure (...). Di Cesar Franck si era detto che guardava il mondo attraverso le vetrate che illuminavano il suo organo. Come aveva ragione! L'organo è sublime perchè cerca di esprimere tutte le voci degli esseri; le vetrate lo sono quando proiettano in noi, in colori e forme, in idee e in ispirazioni, le luci del cielo.”(18)
Nella nona poesia dei Frammenti (IX) si trova una lirica dall'ampio respiro musicale, ispirata alla montagna che Rebora tanto amava:
“e tu, aria, ne accogli limpidamente
la forma sonora” (...)
“Tutta è mia casa la montagna (...)”,
“ineffabile palpita gioconda
l'estasi delle cose”(...)
Nella purezza delle vette che si avvicinano al cielo affiorano comprensione e indulgenza: “l'uman destino vincola le mani con lacci che non han peso né solco” e il poeta scorge l'essenza di quanto vi è di più vero nel cuore dell'uomo: il perdono, la bontà e la purezza.
(…) quanto misero mal vita perdoni
quanta bontà ci volle a crear noi
quassù quassù non è chi non l'intoni
mentre vorrebbe far puri i dì suoi.”
(Frammento IX)
Scrive Rebora in una delle Epigrafi del “Curriculum Vitae”:
“Vede il Padre e provvede: ancor più dona
se non condona. E per virtù divina ,
nell'insuccesso la mia vita sale
là dove sta la riuscita eterna.
Giovinezza, ora sol scopro il tuo slancio!
(...)
Santo, Santo, Santo,
nell'unico momento io non ti perda!
bruciami ch'io arda,
innamorante Fuoco!
non il mio male faccia,
ma il bene tuo, Ognibene!”
“Per fare di un uomo un santo, bisogna bene che intervenga la Grazia:
chi ne dubita non sa che cosa sia un santo, né un uomo.”
Blaise Pascal
Rebora sta per realizzare compiutamente il suo destino e la sua elezione, e non prega per sé ma per gli altri: “Pregare per sé - dice Giovanni Crisostomo - è la necessità che lo richiede, pregare per un altro lo consiglia l'amor fraterno. E per questo non diciamo Pater meus ma Pater noster.”
Sertillanges annotava: “Quando la morte verrà ne faremo il nostro ultimo dono al cielo, l'ultima sottomissione, l'ultimo sacrificio. Questo avviene per perfezionare la perpetua armonia della vita. E là dove siete perpetuamente vissuti la morte vi troverà. (19)
E' il destino che si compie, che attraversa il tempo della contemplazione del mondo e giunge alla contemplazione dell'Eterno:
“Ogni persona non possiede altro che il proprio destino” (…) Noi crediamo che il nostro destino sia qualcosa di fortuito, mentre in realtà tutto ciò che ci succede si adatta perfettamente a ciascuno di noi.” (20)
Pier Paolo Pasolini aveva definito Rebora - e con lui Palazzeschi, Sbarbaro, Boine, Jahier, Campana – “un maestro in ombra” della generazione vociana, avvverso a qualsiasi retorica della parola: “Avevano dunque ragione loro, i marginali, gli eteronimi, i maestri in ombra: Sbarbaro o Boine, Jahier o Campana, che in modi così diversi scrivevano in nome … della “vita” o, appunto, Rebora. Poeti che ai margini nella gioventù, ai margini, ora, nella vecchiaia, persistono, si salvano, fuori della storia: della loro storia particolare, cronologica e letteraria, vogliamo dire, ma anche della storia tout court. Il loro luogo è la loro anima, la loro vita interiore”. (cfr. Note 21,22,23)
“La nostra umanità vive immersa in un bagno di menzogne dal quale emergono solo alcuni eroi” – scriveva Sertillanges. (24)
Clemente Rebora eroe lo è stato fino alla fine:
“Rebora è riuscito a farci capire che differenza passa fra la parola che incanta e la parola che dà vita, fra un pretesto di bellezza e un'idea di verità. Proprio questo: nessuno, neppure il più sordo degli spettatori, potrà sostenere che dalla sua poesia non si levi qualcosa di diverso, di inevitabile, che brucia, se davvero noi fossimo ancora materia infiammabile e non soltanto larve, ombre di un mondo senza speranza, senza vita diretta.”(25)
NOTE
1) Carlo Bo
“Rebora e la poesia della Grazia”
sta in: Storia della Letteratura Italiana vol. IX Il Novecento – Garzanti – 1973 – pag. 304
2) Ibidem pag. 304
3) Sr. Margherita Marchione “L'Immagine tesa” - Vita e opera di Clemente Rebora – Ed. di Storia e Letteratura – Roma 1960, pag.15
4) Roberto Cicala “Il giovane Rebora tra scuola e poesia. “Professoruccio filantropo” a Milano e Novara. 1910 – 1915 con testi e documenti.” - pag. 46
Introduzione di Marziano Guglielminetti - Studi novaresi 8 – Edizione promossa dalla Provincia di Novara – 1992 - Associazione di Storia della Chiesa novarese. (una parte è stata pubblicata una prima volta con il titolo “Rebora professore filantropo. Gli anni di insegnamento tra Milano e Novara (1910-15), sta in : “ Novarien”, n. 20, 1990, pgg. 141-184)
5) Ibidem pag. 120-121
6) Sr. Margherita Marchione
“Clemente Rebora prosatore” - con lettere inedite del Poeta - Capua – Centro d'Arte e di cultura - “L'Airone” - 5 – pag.19
“La conferenza “Clemente Rebora prosatore” è stata tenuta dalla scrittrice Sr. Margherita Marchione della Farleigh Dickinson University al Centro d'Arte e di cultura l'Airone in Capua la sera del 20 febbraio 1972. La pubblicazione delle lettere inedite del Rebora è dovuta alla cortesia dell'Autrice. Giuseppe Centore”
7) Carlo Bo – op.cit. pag.305
8) Sr. Margherita Marchione – op.cit. pag. 20
9) Carlo Bo – op.cit. pag.305
10) Carlo Bo – op.cit. pag.306
11) P. Giovanni Pusiteri – conferenza del 21.12.1957. Archivio Rosminiano Stresa – pagg. 276-302
12) Jean Guitton “Che cosa credo”- Prefazione di Giulio Giorello - Gruppo Ed. Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Milano 1994 – pag. 109
13) Ibidem pag. 120-121
14) Clemente Rebora “Per un Leopardi mal noto” - Rivista d'Italia, Roma, pgg.373-439, n.XIII, settembre 1910
15) John Blacking “Come è musicale l'uomo?” Ricordi Unicopli, Le Sfere, Milano, 1986 – a cura di Francesco Giannattasio. Presentazione di Giorgio Adamo (tit. orig. How musical is man? - 1973 - University of Washington Press - traduzione dall'inglese di Domenico Cacciapaglia, rivista dal curatore)
16) Ibidem pag. 115
17) Ibidem pag. 113
18) A.D. Sertillanges O.P. 'Meditazioni', Morcelliana, 1941 – Tipolitografia F.lli Geroldi, Brescia - op.cit.pgg.16-18
19) Ibidem pagg. 211-212
20) Alexander Lernet-Holenia “Marte in Ariete”(tit. orig. Mars im Widder – trad. Enrico Arosio) - Adelphi, Milano, 1983, pag.201)
21) Scrive Pasolini: (…) “Scheiwiller ha pubblicato fuori commercio questo fascicoletto di poesie di Rebora (22), che mi sembrano stupende, e stupende son certo, sembreranno anche a voi. Scheiwiller ci concede di pubblicarle tutte su Officina, num. 7, novembre 1956” (23)
22) “Canti dell'infermità” di Clemente Maria Rebora, Scheiwiller, Milano, 1956 - sta in: “Il Punto”, 24.11.1956
23) sta in : Pier Paolo Pasolini “Lettere” 1955-1975 – a cura di Nico Naldini – Einaudi, Torino, 1988 – pag.235-236
24) sta in: A.D. Sertillanges O.P. “Meditazioni” op.cit. pag.63-64
25) Carlo Bo 'Rievocazione di Rebora' sta in: “L'eredità di Leopardi e altri saggi”- Vallecchi, Firenze, 1964 – pag. 90
BIBLIOGRAFIA
Clemente Rebora
“Le Poesie” 1913 – 1957
a cura di Vanni Scheiwiller
All'insegna del pesce d'oro – Milano - 1961
Sr. Margherita Marchione
“L'immagine tesa”. La vita e l'opera di Clemente Rebora. Prefazione di Giuseppe Prezzolini.
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1960
Marziano Guglielminetti
“Clemente Rebora”
Mursia, Milano, 1961
L'ultimo Rebora 1954-1957
a cura di Giuseppe Colangelo e Gualtiero De Santi
Marsilio ed. 2008 Venezia
Contiene saggi di: Attilio Bettinzoli, Giuseppe Colangelo, Gualtiero De Santi, Enrico Grandesso, Franco Lanza, Maria Lenti, Mario Luzi, Donatella Marchi
Clemente Rebora
“Diario Intimo”
a cura di Roberto Cicala e Valerio Rossi
Novara, Interlinea - ed. 2006
Clemente Rebora
“Scritti spirituali”
a cura di C. Giovannini
ed. Rosminiane Sodalitas, Stresa, 2000
Clemente Rebora
Poesie, prose e traduzioni
a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei
con la collaborazione di Paolo Maccari
Mondadori, Milano, 2015
Clemente Maria Rebora
“Passione”
Testimonianze rosminiane e poesie
Con una nota di Eugenio Montale
Incisioni a punta secca di Mauro Maulini
Interlinea Sodalitas - Ed. Novara-Stresa - 1993
“La musica in Leopardi
nella lettura di Clemente Rebora”
a cura di Gualtiero De Santi
ed. Enrico Grandesso – Marsilio 2001 – Venezia