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Manlio Tummolo

 

I DISCORSI SULLA RETORICA DI ALCIDAMANTE, ISOCRATE E DEMETRIO

(Quarto saggio sulla storia delle teorie estetiche)

 

Come si è detto nei saggi precedenti, Aristotele fissa le regole fondamentali in campo estetico-letterario per molti secoli: in buona sostanza fino al Romanticismo, che segna la prima grande ribellione a tali regole. Ciò non toglie che, in tutto questo grande periodo, si siano fatti tentativi di rinnovamento parziale, soprattutto in sede retorica e nel campo dell'oratoria. Spesso si tratta semplicemente di manuali con funzione didattica: in tal senso sono gli autori significativi, che qui esamino, Alcidamante, Isocrate e Demetrio. Il terzo, benché il meno conosciuto e di incerta identificazione, è tuttavia sul piano estetico forse il più interessante. Riguardo ad Isocrate (1), c'è da osservare che egli è contemporaneo, anzi più anziano di Aristotele, nascendo alla fine del secolo V; fu alunno e seguace di Gorgia (il celebre sofista di Leontini, in Sicilia), di cui però imitò lo stile molto limitatamente. Infatti, le cinque Orazioni riportate nel testo (2) sono scritte in opposizione ad un altro rètore, Alcidamante, il quale segui invece lo stile gorgiano. La polemica tra i due presenta tuttora tratti di notevole attualità (pensiamo non solo ai discorsi politici pubblici o davanti alle folle, non più tanto utilizzati, quantoa.i dibattiti radiofonici e televisivi); la questione era, ed è, dunque questa: è più opportuno ed efficace improvvisare il discorso, come sosteneva Alcidamante, secondo il quale il vero discorso non può che essere improvvisato, mettendo così in evidenza le capacità di saper intervenire su temi e problemi non ancora affrontati, non lasciandosi imbarazzare dall'avversario o da un pubblico, non favorevole o del tutto ostile ? oppure, è meglio, e più tecnico, preparare prima il discorso e pronunciarlo leggendo, o studiandolo a memoria ?

 

La questione tra Alcidamante ed Isocrate non ha soltanto, come per i due al loro tempo, un aspetto di persuasione politica, ma, come sosteneva Aristotele, poteva riguardare ogni settore di conoscenza o momento di azione; ancora oggi è viva la discussione se un conferenziere debba improvvisare il suo discorso ovvero prepararlo in forma scritta e leggerlo. Io qui non affronterò tutte quelle vecchie distinzioni, secondo me del tutto superate e poco pratiche, delle figure retoriche, le quali non possono dirci nulla, ma riesaminare semmai gli aspetti efficaci ed inefficaci di un modo e dell'altro rispetto allo scopo che, come scrissi nel secondo saggio, non concerne tanto la persuasione o convincimento dell'uditorio (o dei lettori), quanto il loro semplice interessamento: saperli far ascoltare, e non tanto condividere i contenuti, i quali si condividono o si respingono ben altrimenti che con gli artifici retorici. Anche quando l'oratore o lo scrittore, con il suo stile espressivo riesce non solo ad interessare bensì anche ad appassionare, il risultato è durevole solo a condizione che sia già, almeno in parte o potenzialmente , condiviso dal lettore o ascoltatore .

Un'altra osservazione mi sembra opportuna in merito alla pronuncia orale: quest'estate, in una trasmissione radio su argomenti religiosi della RAI, ho avuto occasione di sentir passare come "poesia" una sciatta e volgare descrizione autobiografica di una triste esperienza infantile di una donna africana, per giunta pronunciata in modo piatto e privo di sentimento; del pari, qualche giorno dopo, alla sera sul medesimo canale di RADIO RAI ho dovuto malinconicamente (o tragicamente) sentir recitare descrizioni autobiografiche spacciate per ''poesie", col medesimo tono piatto e privo di convinzione. Fortunatamente, non è sempre così, tanto è vero che, . nei medesimi giorni, si è pur sentito, sul medesimo programma, declamare Dante, forse con enfasi ed ampollosità eccessive, ma di gran lunga più attraenti di povere e volgari prosettine, pronunciate in modo piatto, senza vita né convinzione, neppure dagli stessi autori di quelle prosettine fatte passare per poesie.

Ora, la retorica, antica o moderna che sia, superata non nello spirito ma solo ed esclusivamente riguardo alle classificazioni astratte, denominate tra l'altro con termini astrusi, insegna una cosa fondamentale: i sentimenti, soprattutto nel linguaggio umano (ma non solo...) vanno naturalmente e già spontaneamente espressi con particolari sottolineature date dal tono, dal volume, dall'uso di pause, ecc. 

Tutta questa "sintassi" retorica non serve tanto a convincere l'ascoltatore, quanto a fargli percepire il grado ed il modo di sentire di chi parla o legge; cerca di coglierne l'interesse, più che di convincerlo. Ma se il lettore o il parlatore si esprimono in modo piatto, come se si leggesse l'elenco della spesa o peggio (3), come può pretendere il poeta o il suo apologista di convincere gli ascoltatori della forza dei sentimenti che si volevano esprimere?

O la poesia è innalzamento, sublimazione o spiritualizzazione dei sentimenti, oppure poesia non è; e se la poesia è tale, essa non può essere letta o pronunciata allo stesso modo di un elenco di spese da farsi al Centro Commerciale.

Chi, sostenendo l'esigenza della naturalezza e della spontaneità, si esprime con la monotonia di un giudice che legge la propria sentenza o di un manager che diffonde il proprio piano di licenziamenti (pardon: di risanamento o ristrutturazione di un 'azienda...: perfino i managers sentono il bisogno di edulcorare e rendere eufemistici i propri piani !), non ha capito nulla della naturalezza dei sentimenti, né della natura spirituale della poesia, la quale si distingue dalla prosa non perché è scritta in versi, con un certo ritmo ed eventualmente con rime baciate, mentre l'altra è scritta a frasi continue, con capoversi solo quando appare necessario dar respiro ai concetti, ma proprio per un'impostazione ideale diversa: infatti, esistono prose poetiche, mentre possono esistere versi del tutto prosaici e volgari. La prosa cerca di adeguarsi ad una determinata realtà, o considerata tale; la poesia si innalza ad una sfera di sentimenti puri, indipendentemente dalla realtà stessa; la poesia è un fatto del tutto interiore, la prosa mira o ambisce ad esporre ciò che per lo scrittore è reale e da tutti intellettivamente condivisibile. Così la poesia richiede una pronuncia particolare ispirata, direi enfatica, se questo attributo non venisse abitualmente collegato all'insincerità; la prosa può essere letta in modi diversi comunque più o meno pacati, senza. che necessariamente perda il suo significato, esprimendo in tali casi solo interpretazioni diverse. Cicerone, a proposito della grammatica, sosteneva che essa è ben conosciuta solo quando chi parla o scrive ne applica le regole, senza ricordarle mnemonicamente o come tassonomia; lo stesso può dirsi per le regole retoriche: non conta che si sappiano elencare a memoria utilizzando i termini delle varie figure, quanto l'utilizzarle in modo sciolto e sicuro nel discorso orale o scritto .

Sembra, viceversa, che la tendenza della seconda metà del secolo (di probabile derivazione nordamericana) sia quella di non saper commisurare il rapporto tra toni, volume, pause, nel proprio discorso, per cui o tutto è urlato, o tutto è detto in tono piatto, col risultato dell'assoluta monotonia: questo, ahinoi!, capita ormai anche tra attori professionisti o sedicenti tali, col bel risultato della noia e del fastidio più assoluti. La retorica, la vera "psicologica" retorica mira ad evitare tutto questo, proprio partendo dalla naturale esigenza del linguaggio, particolarmente umano ma anche limitatamente di tutti gli esseri viventi (4), di esprimere i propri sentimenti per farli capire agli altri e, possibilmente, per farli condividere in una qualche misura. Questo era ben compreso dagli antichi, e fino alla prima metà del secolo XX: oggi lo è molto di meno, e basta seguire una trasmissione radiofonica del mattino sempre di RADIO RAI 3 "'A voce alta'', per rendersene conto; faccio due esempi: proprio nei giorni in cui scrivo, Paolo Poli legge (o, più esattamente, recita) "Il Codice di Perelà" (5). Poli non smentisce affatto la sua meritata fama di attore: non solo modifica I toni, il volume e le pause, ma sa anche cambiare il timbro della voce, dal falsetto al grave, identificandosi in ciascun personaggio (quali le molte donne pettegole, I giudici, il re, e così via). Prima di lui, altro bravissimo attore Paolo Bonacelli aveva letto "I Tre Moschettieri" del Dumas, se non con la varietà del Poli, sicuramente attraendo 1'ascoltatore col sapiente uso della voce, dei toni e delle pause. Alcuni precedenti, viceversa, rendevano il testo ancor più noioso di quel che già fosse in partenza, tanto da rendersi inascoltabili .

 

Torniamo ad Alcidamante e ad Isocrate: il loro dibattito verteva non tanto su questo, quanto, come si è accennato, sulla spontaneità ed improvvisazione del discorso pubblico, ovvero sulla sua preparazione scritta o espressa a memoria.

Sono interessanti alcuni brani di Alcidamante per dimostrare quale finezza psicologica avessero già allora i Greci, anche i pensatori oggi meno conosciuti :

“Sugli scrittori di discorsi o sui sofisti” .-

1. Poiché alcuni dei cosiddetti sofisti si vantano e vanno oltremodo orgogliosi per aver scritto dei discorsi..., benché... siano sprovvisti di capacità espositive quanto i profani, e poiché, inoltre, pur padroneggiando solo una piccolissima parte dell'abilità retorica, pretendono di possedere l'arte tutta intera..., io tenterò di sottoporre ad accusa i testi scritti...perché ... penso che si debba usare la scrittura in modo accessorio rispetto al parlare (6). Sostengo infatti che quanti dedicano tutta la loro vita allo scrivere si mantengono ben lontani, sia dalla retorica, sia dalla filosofia, e si possono definire ben più giustamente poeti che sofisti

2.. Un primo motivo per biasimare la scrittura potrebbe essere il fatto che essa si apprende più facilmente, è più ... accessibile a chiunque. Invece, improvvisare abilmente un discorso, secondo le esigenze del momento, reperire rapidamente le argomentazioni e non rimanere a corto di parole, adeguarsi alle circostanze e alle aspettative del pubblico pronunciando il discorso più appropriato non è prerogativa né di una qualsiasipersona né di una cultura qualunque. 3. Al contrario, scrivere avendo ampia disponibilità di tempo e correggere con tutta tranquillità..., imitare le espressioni più riuscite... [di oratori precedenti] può riuscire facile anche a chiè sprovvisto di cultura..."(7) .

Le obiezioni di Alcidamante mettono in rilievo la necessità che il discorso pubblico non sia preparato per l'occasione, perché la cultura dell'oratore, politico o giurista, deve essere tale da consentirgli interventi adeguati ad ogni possibile osservazione ed obiezione avversaria; sarebbe ridicolo - egli sostiene - che un oratore, nelle assemblee o nel tribunale, tiri fuori le tavolette per rispondere a chi ha parlato poco prima. E certamente, se pensiamo ad un dibattito diretto è difficile dargli torto, perché o si sa comunque ribattere ad un'argomentazione inattesa, e allora·è inutile arrivare con scritti predisposti, o non si è in grado di farlo, ed allora la lettura di uno scritto sarà inutile, perché fuori tema. Al di là dunque delle forzature polemiche, che ovviamente dobbiamo tarare, il senso del discorso di Alcidamante non è quello di un'improvvisazione assoluta: gli ignoranti ed i poco esperti, infatti, non sanno reggere un discorso orale, né del resto hanno quella sufficiente conoscenza di psicologia sociale per capire, prevenire o reagire alle posizioni del pubblico. L'improvvisazione è, dunque, relativa: con una solida formazione culturale e professionale, l'oratore in ogni situazione può e deve rifarsi ad un patrimonio culturale che gli consente di parare ogni colpo, di rispondere alle varie obiezioni, senza bisogno di portarsi un discorso già fatto. Egli, al massimo, predispone uno schema (la cosiddetta scaletta) che potrà memorizzare molto di più di un intero discorso. Per ottenere questo risultato, egli deve dominare ogni possibile argomento in discussione in quel momento: dunque, a ben vedere, l'improvvisazione è soltanto apparente. Si tratta di evitare monotone letture già predisposte o discorsi fatti a memoria se interrotti per una qualche ragione intervenuta da parte di altri o per qualche digressione compiuta dal medesimo oratore, non sono più proseguibili con scioltezza, si perdono in silenzi o in ripetizioni che rendono presto nervoso o derisorio il pubblico.

Sarebbe facile rispondere ad Alcidamante che, se oggi a distanza di 2400 anni leggiamo ed apprezziamo il suo discorso, lo dobbiamo al fatto per cui egli stesso, o qualche suo alunno, lo ha trascritto nel momento del dibattito. Alcidamante, nei paragrafi finali, risponde di aver trascritto (o fatto trascrivere) il suo discorso, sia per dimostrare che sa anche scrivere, sia per dimostrare la propria abilità a coloro che non possono ascoltarlo, sia perché, per chi legge, è possibile ripercorrere il filo del ragionamento e dell'argomentazione.

Conclude infine, scoprendo la sua vera argomentazione, secondo cui l'improvvisazione del discorso orale non è un fatto casuale ed imprevedibile, bensì effetto di una solida cultura. Dunque, è facile verificare che le posizioni dei due polemisti non sono così lontane, quanto sembrerebbe all'inizio .

Certamente, un fluido eloquio nel vivo discorso è_ una qualità che piace sempre. Ma se esso non veniva trascritto in qualche modo (con metodi stenografici, già esistenti in antico), era impossibile conservarlo e tramandarlo. Di qui, le difficoltà di conoscere l'originale pensiero di Socrate o l'originale predicazione <li Cristo, nonché di tantissimi altri pensatori, predicatori ed oratori. Oggi, naturalmente abbiamo ben altri sistemi per conservare e tramandare discorsi con la registrazione meccanica o elettronica che, se conservata in modo adeguato, ci consente di ascoltare e riascoltare un discorso dal vivo, anche se del tutto improvvisato. Ma questa opportunità tecnologica è una conquista solo del tardo secolo XIX (Thomas Alva Edison), e del XX quanto al suo perfezionamento ed uso normale. Riguardo poi ad un'esposizione di carattere scientifico, una relazione, è ben difficile che, .con la complessità delle cognizioni umane (già allora e ben di più oggi), ci si possa presentare ad un pubblico, preparato e colto; con discorsi improvvisati, anche se sulla base di una consolidata cultura. E' necessario portarsi dietro una sufficiente documentazione, al fine di non dimenticare nulla di rilevante o di non perdere l'ordine dell'esposizione. Ma è anche vero che la monotonia della lettura non favorisce affatto l'interesse degli ascoltatori; bensì i loro sempre più potenti sbadigli e la conciliazione del sonno: anche i più coinvolgenti argomenti, oltre un certo limite, necessitano di pause, di battute di spirito, di digressioni. Così la distanza fra Alcidamante ed Isocrate si accorcia molto di più di quanto sembrerebbe a prima vista . I testi delle "Orazioni” di Isocrate, pubblicati dalla BUR, non riguardano tanto la teoria della retorica, quanto situazioni ipotetiche o inventate. In tali discorsi, tuttavia, vi sono dei riferimenti a tali teorie che cercherò di mettere in evidenza, ma prima ancora mi piace notare che, sulla scia di Senofane e di Socrate, secondo una mentalità nettamente filosofica, Isocrate critica l'abitudine di premiare gli atleti delle attività ginniche, piuttosto che gli atleti del pensiero, dell'arte, della scienza e della parola:

2. “E invece era a questi uomini che si doveva pensare. Infatti, se gli atÌeti avessero anche il doppio della loro forza fisica, l'umanità non ci guadagnerebbe nulla, ma se un solo uomo è saggio, tutti quelli che vogliono condividerne le idee possono trarne vantaggio...,, (8).

Commentiamo per un momento tale idea: ai tempi dell'Ellade antica come in tutti i popoli del Mediterraneo, I giochi, che oggi consideriamo un semplice divertimento, avevano un'origine religiosa: era un modo di ringraziare o di ingraziarsi gli Dèi per un qualche evento importante, o per celebrare l'unità civile e culturale dei Greci. Che direbbero ora uomini come Senofane, Socrate ed Isocrate, quando le gare sportive hanno la pura e semplice funzione di distogliere gli uomini dai problemi importanti ? E che cosa direbbero giustamente vedendo quale enorme differenza c'è tra il valore finanziario di un premio dato al campione sportivo, e quello oggi dato ad un artista, ad uno scienziato, ad un filosofo?

Non temo di sbagliare affermando che l'umanità, in tale ambito, invece di progredire, è andata pericolosamente declinando in un disfacimento morale, pessimo segno per la sua medesima sopravvivenza. Ma proseguiamo col discorso sulla retorica di Isocrate, sempre nel medesimo "Panegirico " :

(4)"... ma spero con la mia superiorità di dare la sensazione che gli altri non abbiano mai detto nulla sull'argomento. D'altra parte sono convinto che i discorsi più belli sono quelli che hanno queste tre caratteristiche: vertono su questioni della massima importanza, mettono meglio degli altri in luce le qualità dell'oratore e sono molto utili agli ascoltatori... (7)... bisogna smettere di parlare di una cosa o quando la situazione è cambiata..., oppure quando ci si accorge che il discorso ha conseguito quel culmine di perfezione che non consente ad altri di aggiungere nulla. (8) Ma finché le cose continuano a stare come prima e le parole dette non valgono niente, come posso non applicare tutto il mio acume e la mia cultura a questo discorso che, se ben riuscito, ci libererà dalla guerra che ci stiamo facendo...,(9) 

Una pausa per osservare come in quei tempi l'ipocrita modestia, ai nostrì tempi non disgiunta spesso da grande presunzione, era pressoché ignota Si nota qui la convinzione di Isocrate di essere capace di un discorso non solo esteticamente bello ed appassionante, ma anche in grado apportare utili consigli per il superamento della guerra civile allora in corso. Infatti, tutto il "Panegirico" è destinato a dimostrare la necessità di unificare le forze greche in un blocco tale da opporsi validamente alla potenza dell'Impero Persiano che, per quanto estromesso da un· dominio diretto, con la celebre Pace di Antalcida (386 a. C.) dominava indirettamente la Grecia, soprattutto approfittando delle lotte intestine; ma è anche teso a dimostrare che Atene soltanto è in grado, per tutte le sue risorse economiche e culturali, di coordinare le poleis e respingere ogni tentativo di intromissione del Re dei re. Dunque, come già abbiamo visto in Aristotele (ma è un argomento di tutta la mentalità retorica antica e moderna, malgrado l'attuale retorica non abbia alcun fondamento per giustificare in senso teoretico un simile parere), Isocrate ritiene che l'abilità retorica serva proprio a convincere, sia in sostanza un ausilio indispensabile al ragionamento di natura scientifica: l'intrinseca validità di una tesi viene "corroborata" dalla bellezza del discorso, quasi che la logicità o non logicità dello stesso, la sua coerenza e correttezza procedurali non siano sufficienti ad operare un convincimento nell'ascoltatore.

Isocrate continua :

"... 7. A ciò si aggiunga che, se non ci fosse che un 'unica modalità espressiva per far luce sugli stessi fatti, allora chiunque potrebbe sostenere che è inutile parlare esattamente come gli oratori precedenti col risultato di annoiare gli ascoltatori [il neretto è mio]. 8. Ma le parole, questa è la loro caratteristica, permettono di raccontare le stesse cose in molti modi diversi, di rendere umili quelle grandi e conferire grandezza a quelle piccole, di esporre in modo nuovo idee antiche e usare uno stile classico per avvenimenti attuali. Perciò bisogna non già evitare i soggetti sui quali altri si sono espressi..., ma cercare di parlare meglio di loro..."(10) .

Evitare o vincere la noia: questa è la prima e fondamentale regola retorica in ogni ambito, compreso quello scientifico dove spesso si confonde la noia con la serietà del discorso: vero è, tuttavia, che evitare e vincere la noia con persone di ampia cultura generale e di profonda cultura particolare è una possibilità effettiva, ma parlare di cose serie e di eventi culturali, scientifici o politici, con persone prive d'ogni cultura, avvezzi soltanto a discutere di sport o del pasto meridiano e serale, significa spesso, malgrado tutti gli artifici retorici, farli cadere tra uno sbadiglio e l'altro in un sonno profondissimo: se tra gli antichi Greci ciò non avveniva, ed anzi anche il popolino meno colto si entusiasmava per le discussioni tra Socrate e Protagora, o tra Platone ed Aristotele, è un indizio ulteriore di quanto la Grecia d'allora sopravvanzasse l'Europa attuale .

Per Isocrate, inoltre, non è importante tanto portare nuovi argomenti, quanto esporre in modo nuovo e più stimolante vecchi argomenti e vecchie questioni. Anche qui si sente la mentalità retorica, più portata a sottolineare la bellezza di un discorso che non il rigore dei contenuti; tuttavia vi si può anche considerare implicito un principio oggi troppo trascurato: la bellezza non è data dalla novità (dei contenuti e delle forme), quanto da valori assoluti che essa offre (ciò che definiamo come bellezza classica). Infatti, la bellezza non può essere data dal nuovo, se non in modo incidentale, ma da valori spirituali sempre validi, ovvero assoluti. Al contrario, la novità può piacere finché appare tale e a chi (ad esempio, bambini) appare tale, ma esaurito tale motivo di attrazione, essa si riduce spesso ad noia brutta e fatiscente.

Secondo il nostro rètore, è importante saper esporre in modo migliore, oppure ottimo in assoluto (tale che nessuno riesca a superarne bellezza ed efficacia), argomenti o problemi anche molto antichi. Egli inoltre rimprovera quegli oratori che, per conquistare il pubblico, cercano di adularlo (11) al solo scopo di averne l'applauso, mettendosi alla loro altezza (o bassezza). Esaminando poi lo stile di Isocrate, trattando l'argomento prescelto, si può dire che egli conserva una pacatezza formale e quasi uniforme, più di storico e da scienziato, che non da politico. E' evidente che egli non mira né ad appassionare , né a conquistare l'uditorio (infatti l'orazione è scritta per essere letta in sede privata), bensì a dimostrare, attraverso gli eventi storici, che, mentre i Greci sono superiori ai barbari (Persiani), malgrado la vastità del loro Impero ed il numero sterminato di guerrieri e di mezzi disponibili, gli Ateniesi meritano di condurre la suprema guida della lotta contro i Persiani. Non vi sono, insomma, toni particolarmente elevati. Neppure la conclusione segna una vera acme del discorso, anzi Isocrate si confessa incapace di elevare il proprio stile, in modo da celebrare degnamente I meriti di Atene: "... 187. ... mi accorgo di non pensarla più come all'inizio del discorso. Allora infatti credevo di poter trovare parole adeguate all'argomento; ora invece non riesco a elevarmi alla sua altezza e mi sfuggono molte idee che avevo in mente..." (12) .

Si tratta, evidentemente, di una finzione retorica, che Isocrate ripete in più occasioni, soprattutto in età avanzata: il rètore sarebbe stato sicuramente in grado di elevare i toni del suo discorso, se questo fosse stato pronunciato nel corso degli eventi. Viceversa, così a freddo non riesce a trovare toni esaltanti, malgrado gli elogi, spesso sperticati o esagerati, agli Ateniesi. Rimane ad un livello intermedio, ma non mediocre. Non va neppure trascurato il fatto che i suoi discorsi non sono compiuti per questa o quell'occasione, sia pure in sede ristretta quale era la sua scuola e davanti ai suoi alunni. Sono piuttosto modelli, tracce, che i suoi alunni, o chiunque altro, poteva utilizzare aderendo ad una tesi o a quella contraria, aggiungendovi poi una personale espressione dei sentimenti, adeguata alla tesi sostenuta. Di qui, il suo tono piuttosto didattico, scientifico, storico o giuridico, che non da oratore appassionato che sostenga una sua propria tesi. Infatti così egli sostiene nell'orazione "Filippo” che, in una certa misura, possiamo considerare un' “anti-filippica": egli infatti non vi condanna il re macedone come nemico della Grecia, ma lo incita a comportarsi da Greco e da elemento unificatore dei Greci contro la Persia. In questo scritto, trattando la questione retorica in generale, Isocrate sostiene :

"... 25. Certo, i discorsi composti per essere recitati differiscono molto da quelli scritti per essere letti (13) , quanto al persuadere, lo so bene, e so anche che tutti ritengono i primi fatti per ragioni serie e urgenti, i secondi per bella mostra e per soldi. 26. E hanno ragione, perché quando un discorso è privo della fama dell'oratore, delle modulazioni di voce e degli artifici tipici dell'arte oratoria, e ancora quando manca di improvvisazione, e non è legato a un 'occasione concreta, se non ha nulla che lo aiuti a convincere, ma è completamente spoglio di tutti gli accorgimenti menzionati sopra, quando lo si legge senza convinzione e senza caricarlo di sentimento, meccanicamente, 27. è naturale, credo, che sembri insulso agli ascoltatori. E anche il discorso che ora ti presento, se venisse letto in questo modo, sembrerebbe di valore ancora più scarso. In effetti, non l'ho ornato di simmetrie e di variazioni, di cui facevo uso quando ero più giovane, e che ho insegnato agli altri per rendere i discorsi più piacevoli e insieme più credibili. 28. Ora non lo posso più fare per colpa degli anni..."(14) .

Il riferimento all'età appare discutibile: che c'entra l'età con un'orazione scritta, che chiunque potrebbe leggere pubblicamente o privatamente? Certamente, Isocrate, alludendo all'età (attorno ai novant'anni), vuol significare che non è più in grado di pronunciare discorsi con la foga e la voce degli anni giovanili. Si presenta al re quindi, senza pretesa di sedurlo con gli artifici retorici, ma piuttosto di convincerlo con argomentazioni razionali e ragionevoli: ma è difficile dire se un tale discorso (fu mai effettivamente pronunciato ?) fosse espresso semplicemente in forma di lettera, come noi oggi diremmo "aperta", oppure indirizzata al solo sovrano e letta o fatta leggere soltanto in sua presenza: in tal caso, tutto il riferimento alI'età sarebbe anche qui una pura finzione retorica, ovvero una giustificazione per un eventuale ambasciatore molto anziano, inviato da Atene al re macedone .

Relativamente, quindi, alla polemica tra Alcidamante ed Isocrate, si può concludere che le divergenze non riguardano tanto Io stile da utilizzare nelle più varie occasioni, l'importanza degli artifici retorici, la necessità di esprimere nel modo più adeguato i propri sentimenti, quanto proprio la prevalenza da dare al discorso scritto, ma pubblicamente letto, o al solo discorso orale: così, a ben vedere, l'opposizione non riguarda tanto le premesse culturali, i contenuti oppure le forme, quanto il mezzo tecnico da adoperare nel modo più conveniente.

 

Passo ora ad esaminare la teoria retorica ed estetica di Demetrio: il personaggio non è affatto ben identificato né come persona fisica, né per l'epoca esatta della sua vita, che viene calcolata, con particolare ampiezza, dal III al I secolo a.C. Essendo evidente che un tale Autore non poteva essere vissuto per ben tre secoli, risulta altrettanto ovvia la difficoltà di un'esatta identificazione. Taluno lo identifica in Demetrio Falereo, rètore vissuto nel IV secolo a C., sostenitore dei Macedoni (un anti-Demostene, per intenderci), morto esule in Egitto: un qualche dubbio su tale ipotesi sorge dal fatto che il nostro Demetrio ne parla in terza persona, tra altri rètori che scrissero trattati sullo stile, ma quest'obiezione è tutt'altro che una prova (15). Qualcosa di più ci potrebbe dire la terminologia adoperata, se non fosse che la lingua greca pare molto più conservatrice del latino, tanto che, malgrado il tempo e le occupazioni straniere, il greco moderno non gode certo di quell'evoluzione avuta invece dal latino nel medesimo secolo, e le differenze dal greco classico non sono poi tante e tali da rendersi reciprocamente incomprensibili, come invece avviene tra il latino e le varie lingue neolatine, italiano compreso. Non essendo poi io in grado di portare un qualche contributo, seppur minimo, alla soluzione del problema, proseguo oltre sottolineando che, chiunque sia stato l'autore ed in qualunque di quei tre secoli sia vissuto, egli scrive un trattato, non lunghissimo, ma abbastanza completo sulla problematica estetico-retorica, sul modello di altri trattati precedenti sullo stile (quali, Teofrasto, Anassimene, Longino Prassifane, Demetrio Falereo, Clitarco, ecc.) di notevole interesse per farci rendere conto dell'importanza delle teorie estetiche, non del tutto pedisseque de1 pensiero di Aristotele, nella letteraturaclassica (16) . Il saggio di Demetrio comincia con un Preambolo, destinato alla tipologia della frase ed ai quattro capitoli sui quattro stili prevalenti o fondamentali, quello "grandioso ", quello "elegante", quello "piano" ed infine lo stile "veemente". Demetrio discute se i quattro stili possano essere ridotti a due, mentre la commentatrice osserva che vi era una teoria che contemplava tre tipi di stile. Le classificazioni sono sempre convenzionali: normalmente, nessuno scrive in un solo stile, salvo che lo scritto (o il discorso orale) non sia breve. Se infatti lo scopo è quello di interessare, e soprattutto evitare la monotonia, con la conseguente noia, è necessario modificare con una certa frequenza, ma con motivazioni precise, lo stile. Eviterò comunque il più possibile di addentrarmi nella terminologia retorica, assai pesante ed arida per il nostro gusto, osservando soltanto le questioni che sono tutt'ora attuali. Ancora un'osservazione, quale premessa: molte cose specifiche, asserite da Demetrio, sono comprensibili nel contesto della lingua greca, ma non sempre sono applicabili alla lingua italiana.

Nel "Preambolo" Demetrio affronta la struttura sintattica della prosa, quasi a riassumere o ricordare quanto trattato in un precedente corso più elementare (17). Qui egli si occupa della prosa, ma citando Omero ed altri poeti non rinuncerà a qua1che riferimento più strettamente poetico. Egli esamina il cosiddetto kolon, che costituisce la più semplice frase compiuta ìn lingua greca La funzione dei kola è quella di delimitare il pensiero o una sua parte anch'essa compiuta (soggetto, predicato, complemento, nella nostra sintassi): essendo un'unità semplice serve anche a dare il ritmo di una frase, come l'esametro lo dà nella poesia.

Tale unità prosastica non deve essere nè troppo lunga, né troppo breve: noi diremmo che questa unità deve avere almeno un complemento, ma non averne troppi. I kola troppo brevi offrono la sensazione di aridità, mentre quelli troppo lunghi non possono essere seguiti e compresi con immediatezza; tuttavia, una maggior lunghezza può dare, come nel caso dell'esametro, una natura eroica al contenuto: qui Demetrio, ad esempio, cita l'Iliade e viceversa critica Archiloco ed Anacreonte. La sostanza del discorso di Demetrio consiste nel sostenere che la lunghezza del kolon debba commisurarsi alla natura del contenuto; loda qui, come più avanti, una frase di Senofonte dove dice del fiume Teleboa: "Questo non era grande, bello però".

A parere di Demetrio una tale concisione è più efficace che se si fosse fatta un'ampia descrizione in confronto con altri fiumi Ancora, egli sostiene che la brevità rende bene lo stile veemente (infatti, chi è adirato e preso dall'impeto non sta certo ad aggiungere complementi a complementi, ma investe con forza immediatamente l'argomento), ed elogia il famoso discorso laconico proverbiale per la concisione e per l'asprezza Viceversa, la lunghezza è più idonea alle lamentazioni, alle preghiere, alle richieste di favori. A prova di ciò e dell'efficacia della frase laconica, cita un motto spartano ( "Gli Spartani a Filippo: Dionigi a Corinto") paragonandolo ad una più prolissa parafrasi che ci chiarisce il significato del motto: gli Spartani minacciavano Filippo, dicendo che lo avrebbero ridotto come Dionigi, divenuto semplice cittadino a Corinto. Se il riferimento era rivolto a Filippo il Macedone, sappiamo che la minaccia, concisa o prolissa, comunque non si realizzò .

Ancora, Demetrio definisce l'unità sintetica come komma e qui cita il famosissimo "Conosci te stesso" del Tempio di Delfi o un altro motto quale "Segui Dio". L'unione dei kola e dei kommata dà origine ad un periodo ben concluso; tale periodo, che deve avere un inizio ed una fine, è paragonato, da Aristotele e da Demetrio, ad un cerchio. In riferimento al tipo di periodo, Demetrio distingue lo stile "compatto" , tipico dei discorsi di Isocrate, Gorgia ed Alcidamante, dallo stile "slegato", caratteristico di storici, quali Ecateo di Mileto ed Erodoto, in cui le frasi sembrano ammucchiate piuttosto che coordinate, come nell'architettura vi è l'opus certum (un ordine preciso con equilibrio tra le parti) e l'opus incertum (pietre di forma irregolare, mal appoggiate una sopra l'altra, con un equilibrio che può essere sconvolto da un qualsiasi evento). Cosi osserva Demetrio:

"... (15) La mia opinione è che la struttura della prosa non dovrebbe né consistere interamente di periodi come in Gorgia, né essere interamente slegata come nelle opere arcaiche, ma dovrebbe piuttosto combinare i due metodi; sarà allora elaborata e semplice al tempo stesso, e possederà la piacevolezza di entrambi gli stili, non essendo né troppo pedestre né troppo artificiale. Agli oratori che impiegano periodi in fitta successione barcolla persino il capo come accade agli ubriachi; i loro ascoltatori sono nauseati a causa dell'innaturalezza dell'espressione e talvolta... gridano le conclusioni dei periodi prevedendoli ..."(18) .

Anche qui la parola d'ordine del vero rètore è una sola: "evitare la noia", non esprimere concetti troppo scontati, che ogni ascoltatore può prevedere ed esprimere da sé ancor prima della conclusione. Più avanti Demetrio distingue tre tipi di periodo: quello storico, il dialogico ed il retorico. Lo stile storico deve essere una forma intermedia tra lo stile circolare (ovvero, sistematico e concludente) e quello rilassato (a frasi slegate) "... in modo tale che non sembri retorico e privo di forza persuasiva ..." (19): è pur curioso che, in un'opera dichiaratamente retorica, si affermi che lo stile non debba apparire retorico e privo di persuasività. Ricorda molto quelle frasi dei romanzi, in cui un personaggio dice "Questa situazione sembra un romanzo, o appare romanzesca", una vera contraddizione in termini: come altrimenti potrebbe essere, se non romanzesca, una vicenda descritta in un romanzo? Ma si sa, in tal caso l'autore vuol dare un'aura di realismo alle frasi dei suoi personaggi e a tutta la narrazione. Cosi Demetrio vuol significare che un'opera storica non può avere un carattere letterario di tipo prettamente estetico, ma deve piuttosto essere vicino a quello scientifico o filosofico.

Lo stile retorico deve essere "... compatto e circolare; richiede una declamazione con apertura piena e rotonda della bocca e gestì della mano in sintonia con il ritmo..."(20) .

Lo stile retorico impone, quindi, non solo una certa struttura sintattica, ma anche una lettura espressiva, declamatoria, tale da rendere vivo e sentito ciò che si dice, anche quando non è improvvisato, ma letto. La struttura della frase, ben coordinata, deve suggerire al lettore a voce alta un tono che si adegui all'argomento ed alla situazione come se fosse improvvisato. Ciò viene ulteriormente sottolineato dal gesto che non è, come credono le persone di limitata o mediocre cultura, un segno di rozzezza, ma nient'altro che l'accompagnamento mimico e pantomimico dell'espressione vocale. Certamente, anche qui il gesto dev'essere misurato, non eccessivo, non sproporzionato, bensì adeguato ai contenuti ed ai sentimenti, ma sarebbe buffo un declamatore o attore che volesse esprimere ira o sdegno, standosene impalato e con aria indifferente, malgrado un tono di voce adeguato a quello stato d'animo.

Infine, lo stile dialogico è quello più semplice, implica uno stato d'animo ed espressione di sentimenti sereni e normali; le frasi sono poste in successione senza un necessario ordine strutturale, ma piuttosto casuale: è quello che più esprime la naturalezza quotidiana. Dopo un'ulteriore analisi degli stili dei kola, Demetrio, a proposito di una frase di Teopompo agli amici di Filippo, sostiene che è affettata :

"..: (27)... L'indignazione, infatti, non richiede artificio: in invettive di tal genere le parole dovrebbero essere... spontanee e semplici. (28)... la semplicità e la naturalezza sono la cifra della passione, e lo stesso vale per il carattere..."(21) .

Cita a questo proposito Aristotele, e poi conclude il "Preambolo " con alcune considerazioni sull'entimema (sillogismo imperfetto, non conclusivo), che qui non interessano. Passa poi all'analisi dei quattro stili e delle loro deformazioni, in capitoli distinti. Inizia dunque con lo stile grandioso, detto anche "eloquente", ed ha tre condizioni costitutive: il pensiero, il lessico, la composizione appropriata. La struttura della frase deve esprimere l'idea di grandezza, così all'inizio come alla fine:

" (40) Questo si vede chiaramente in Tucidide: il carattere grandioso in ogni sua frase è, infatti, quasi interamente dovuto all'impiego di sillabe lunghe (22) nel ritmo; si può persino dire, essendo l'elevatezza stilistica di questo autore diffusa ovunque, che è proprio la composizione della sua prosa, sempre o per lo più, a determinare tanta grandiosità..."(23) .

A parere di Demetrio anche la prosa ha necessità di un ritmo, non così rigoroso come la poesia (non dimentichiamo che la metrica classica, fortemente legata al canto ed alla musica, si fonda sulla disposizione degli accenti, mentre la metrica italiana tradizionale si fonda sul numero delle sillabe ed eventualmente sulle rime), ma pure presente, ritmo che deve essere idoneo al contenuto. Ad esempio egli respinge nella prosa il metro eroico in quanto solenne e troppo risonante; anche qui le sue osservazioni devono essere inquadrate nelle esigenze della lingua greca: nell'italiano non sarebbero applicabili.

In altri casi, e qui la tesi potrebbe valere anche in italiano, l'asprezza dei suoni rende meglio lo stile grandioso in senso epico. Ancora, egli asserisce che, per rendere meglio lo stile grandioso, è preferibile anteporre espressioni meno vivide per poi usarne alla fine più vivide: in sostanza, lo stile grandioso richiederebbe, musicalmente e concettualmente parlando, un crescendo. Altresì occorre evitare la precisione minuziosa e l'abuso di particelle connettive (congiunzioni), che invece devono essere adoperate per accentuare il senso di grandezza: lo stesso deve dirsi per le esclamazioni. Va evitata la banalità o quotidianità per rendere lo stile effettivamente grandioso: delle figure retoriche vanno utilizzate l'anadiplosi (ripetizione consecutiva di una parola), l'epanafora (ripetizione della parola all'inizio di ciascuna frase, come il famoso ciceroniano "Per quanto dunque Catilina...", che costituisce l'attacco della Prima Catilinaria): tali ripetizioni hanno valore rafforzativo e devono essere pronunciate con voce crescente; e più adatta alla grandiosità, secondo Demetrio, l'antipallage, uso del caso diverso dalla nornale regola grammaticale, ma con valore di sottolineatura:, di accentuazione del concetto: cita qui un verso di Omero: "Le due rocce, una si erge verso il vasto cielo" (24), piuttosto che la frase grammaticalmente corretta "Delle due rocce, una si erge...".

Anche la ripetizione della congiunzione "e" (quale rafforzativo che dà l'idea di qualcosa che avvenga nel momento stesso in cui la si descrive, come se prima non la si vedesse e poi apparisse in successione alle altre) dà un'idea di grandezza, ma soprattutto di cosa attuale, viva (25).

Importante mi pare l'osservazione, sempre valida, di Demetrio a proposito della grandezza: " ... (75) La grandezza dello stile dipende anche dall'argomento trattato: qualora sia, per esempio, una grande e famosa battaglia terrestre o navale, o qualora si parli del cielo o della terra. Chi, infatti, ascolta un discorso su un soggetto grandioso è subito ingannevolmente portato a pensare che anche lo stile del parlante sia grandioso; in realtà, bisogna valutare non tanto le cose narrate, quanto il modo in cui sono narrate..."(26) .

A questo proposito cita anche il pittore Nicia, secondo il quale, nella pittura, lo stile grandioso è dato dal soggetto grandioso, ad esempio una battaglia, piuttosto che soggetti naturali, come fiori ed uccellini: infatti, Demetrio concorda sul fatto che dipingere una battaglia implica cogliere momenti e figure in ogni posizione e situazione, talvolta con particolari espressioni (ferocia, paura). Riguardo al lessico, esso deve essere superbo, inusitato, con uso di metafore, ma senza eccessi, oppure di similitudini. Talvolta però le metafore, se non idonee, possono esprimere un'idea inferiore a quella desiderata, e quindi occorre fare attenzione, anche per il semplice motivo che il linguaggio comune è assai ricco di metafore. La similitudine dev'essere concisa almeno nella prosa, ché altrimenti otterremmo una poesia senza metrica Nell'uso di neologismi occorre mantenere naturalezza e chiarezza, in modo che siano comunque comprensibili: 

" ... (97) Si devono di certo creare parole che designino cose che non hanno ancora un nome... oppure si dovrebbero creare parole facendole derivare da ciò che è già esistente..."(27) .

L'Autore consiglia anche l'uso di allegorie, e riferisce quale esempio, citato anche più avanti, una frase di Dionigi con senso minaccioso: "Le loro cicale friniranno da terra" (28), ovvero tutte le piante saranno abbattute, sarà creato il deserto. Un'iperbole, non dissimile, venne usata dai Persiani alle Termopili per spaventare Leonida: "Le nostre frecce oscureranno il sole", al che però il comandante spartano, non privo di ironia e di spirito, rispose: "Tanto meglio, combatteremo all'ombra!" Le frasi minacciose cosi espresse hanno perciò sicuramente un valore letterario, ma scarsa efficacia nella realtà, o addirittura possono essere motivo di scherno.

Demetrio conclude il capitolo sullo stile grandioso affrontandone una deformazione o il contrario, ovvero lo stile "frigido" che deriva sia dal concetto non idoneo al significato che si vuol dare, sia dal lessico con uso di termini superflui oppure di composti eccessivi che trasudano pomposità invece che grandezza; sia ancora dall'assenza di un buon ritmo e dal voler descrivere cose banali o quotidiane in modo grandioso (il che produce un effetto sarcastico, invece che grandioso), Come figura retorica "frigida", Demetrio indica l'iperbole, il cui risultato è la comicità o il sarcasmo: ad esempio, riferendosi alla voracità dei Persiani si dice: "Vuotavano intere pianure - Tenevano buoi tra le mandibole"(29)

Ed ora, lo "stile elegante" considerato da Demetrio come l'espressione di uno spirito aggraziato, che riguarda tuttavia forme ben diverse, come quelle nobili dei poeti e quelle dolcemente ironiche o scherzose, in quanto non offensive (30). Spesso l'eleganza, secondo il rètore, è data dalla concisione, e cita a questo proposito una frase di Senofonte:

"... 'Quest'uomo non ha proprio niente a che fare con la Grecia, perché l'ho visto io stesso, come fosse un lido [nel senso di abitante della Lidia, in Anatolia], portare tutte due le orecchie forate '... La clausola 'ed era così' crea fascino grazie alla sua concisione... (138) Spesso due idee sono espresse in una sola frase al fine di creare un effetto piacevole. Per esempio, uno scrittore disse di un'Amazzone addormentata: 'Il suo arco giaceva ben teso e la sua faretra piena, lo scudo accanto alla testa; esse non sciolgono le cinture'. In quest'ultima frase si fa riferimento tanto al costume concernente la cintura, quanto la sua stessa nel caso presente: due concetti in una sola espressione. E' da questa concisione che deriva una certa eleganza..."(31)

Demetrio ritiene che, per l'eleganza, sia rilevante la disposizione della frase: non è lo stesso scriverla all'inizio o alla fine del kolon, e cita a tale proposito un'altra frase di Senofonte relativamente ad alcuni doni di Ciro: il breve elenco si conclude con la promessa di non compiere più saccheggi: Demetrio sostiene che se tale promessa fosse stata posta all'inizio o nel mezzo tutta la frase non avrebbe avuto la stessa efficacia. Ritiene esempio di eleganza Saffo, che sa dare grazia anche a momenti di veemenza, o nell'uso dell'anafora. Qui cita un verso destinato ad Espero:

" ...' O Espero, tu riporti ogni cosa, riporti la pecora, riporti la capra, riporti il bambino alla madre'..."

Ma per il nostro Autore, Saffo è maestra di eleganza anche nelle comparazioni, e fra le altre cose ricorda un paragone tra uno sposo, che appare grande come Ares, ovvero molto più grande di un uomo grande. Probabilmente la traduzione non rende bene l'idea e la ripetizione oggi può apparire noiosa; sarebbe stato più efficace forse dire: 'Ecco lo sposo: egli è grande come Ares, molto più grande di un comune uomo, sebbene forte "?

Sebbene l'eleganza possa essere seria o scherzosa, Demetrio assimila in uno stesso tipo queste due forme, ma le distingue :

... (164)... L'aggraziato si realizza insieme all'ornamento stilistico e attraverso le belle parole, le quali più di tutto creano fascino; ne è un esempio l'espressione: 'E' variopinta la terra, tutta coperta di fiori'... Il faceto, invece, utilizza parole comuni e ordinarie... perde il suo carattere se stilisticamente ornato...,, (32)

Qui Demetrio non pare considerare che la grazia è data sì dalle parole, ma in quanto si riferiscono a cose che consideriamo graziose: il prato fiorito, l'usignolo, ecc. Se il faceto utilizzasse termini graziosi, esso non perderebbe il proprio significato, ma tenderebbe ad essere umoristico o dolcemente ironico, come ad esempio se dicessi che un oratore ha una soave voce di fanciulla. Non è dunque semplicemente usando parole graziose che si ottiene uno stile aggraziato, bensì riferendosi a concetti di cose che suscitano il senso della grazia. Può anche darsi che Demetrio alludesse al suono nella pronuncia greca, ma in tal caso il ragionamento non funzionerebbe per altre lingue. Secondo Demetrio, "...proferire in bello stile una battuta di spirito è come abbellire una scimmia " (32) .

Evidentemente, per la mentalità classica, l'ironia ed anche il solo umorismo non hanno un carattere estetico, ma vanno considerati come stonatura: se così fosse però, tutto lo stile socratico dovrebbe essere considerato brutto: umorismo ed ironia sono certo belli proprio perché non eccedono nel sottolineare, sotto apparente forma positiva, un difetto di qualcosa o di qualcuno. Ma Demetrio pretende, in tale ambito, assoluta serietà e coerenza stilistica (e qui vediamo quell'irrigidimento che era tipico dell'aristotelismo in campo estetico: ad es. nella tragedia). Nei paragrafi successivi, infatti l'Autore critica con una certa severità ogni deviazione dai canoni prestabiliti per lo stile elegante. Riguardo alle parole (ma qui ovviamente siamo nell'ambito della sola lingua greca) proprio in quanto suono e rifacendosi alle valutazioni dei musici, le parole si distinguono in lisce, scabre, ben proporzionate e pesanti: la parola liscia si pronuncia prevalentemente con vocali, ed è ovviamente più adatta al canto, mentre la scabra presenta più consonanti ed è quasi onomatopeica. La parola proporzionata presenta vocali e consonanti nello stesso numero e quella pesante lo è per ampiezza, lunghezza e timbro. Demetrio sostiene che il dialetto attico è quello più adatto alle commedie, per il suo carattere più compatto: è ovvio qui che, solo conoscendo i dialetti greci antichi, si potrebbero capire meglio le allusioni del rètore .

Importante è pure il ritmo della frase, e qui ricorda Platone la cui eleganza (per un greco antico, lo ripetiamo) è data dal ritmo. Erroneamente, a mio parere, Demetrio ribadisce :

"... se capovolgi l'ordine... rovinerai il fascino del discorso che riposa nel ritmo stesso. Certamente non va cercato nel concetto o nella scelta lessicale..." (33) .

Oggi non possiamo non obiettare che l'eleganza è data in primo luogo dalla cosa in sé, quindi dal concetto che ne abbiamo, poi dalle parole migliori per esprimerla, ed infine dal nostro modo scritto ed orale di asserire tale concetto, proprio in correlazione con quanto sostenuto dallo stesso Demetrio relativamente allo stile grandioso, né si potrebbe capire perché una regola generale non debba valere per ciascuno stile.

Infine, tratta dello stile "affettato", quale deformazione dell'elegante: l'affettazione è data dall'artefatto, ovvero un modo espressivo che vorrebbe essere ricercato e metaforico, ma in sostanza appesantisce la frase, la rende poco comprensibile e noiosa; secondo Demetrio l'affettazione viene data dal concetto, oppure dal tipo di parole, o ancora da un ritmo slegato: insomma, non rende la sincerità dei sentimenti, anzi ne manifesta l'insincerità

Demetrio procede poi, nel successivo capitolo, allo stile "piano" : "… I termini scelti devono essere usati sempre in senso proprio ed usuale..." (34). Vanno dunque evitate le metafore, così come i composti; lo stile piano richiede una certa compattezza del discorso, evitare le ambiguità e le oscurità, usare largamente delle congiunzioni, non utilizzare kola troppo lunghi, più adatti allo stile grandioso: si deve mantenere un'andatura stabile ed evitare casi troppo singolari o eccezionali. Descrivendo un avvenimento, occorre rivelarlo gradualmente analogamente a quella che viene chiamata oggi "suspense", ma non nel senso di suscitare aspettative ansiose, bensì in quello di descrivere tutti i fatti secondo un ordine cronologico. Ancora, lo stile piano mira ad essere persuasivo, ovvero chiaro, naturale, lasciando all'uditore la conclusione inevitabile dei fatti narrati.

Entro questo modello di stile rientra, a parere di Artemone editore delle lettere di Aristotele, lo stile epistolare, ma Demetrio aggiunge che lo stile epistolare è qualcosa di più elaborato del dialogo, come avrebbe sostenuto questo Artemone: aggiungo io che molto dipende dal contenuto della lettera, perché, se ci si limita a parlare del tempo e di piccoli fatti quotidiani, la differenza tra dialogo e lettera non sarà poi molta; mentre, se nella lettera affrontiamo argomenti gravi o complessi, lo stile sarà necessariamente ben più elaborato. Sempre secondo Demetrio, le lettere devono essere brevi e non sono adatte ad argomenti di natura scientifica o filosofica, ma riguardare l'espressione dei sentimenti o citare proverbi (!)

La deformazione dello stile ''piano" produce uno stile "arido", caratterizzato dall'uso di un lessico povero, mentre si dovrebbe adoperare uno stile grandioso per un grande soggetto. Infine, l'aridità può unirsi anche all'affettazione, rendendo la descrizione ancora più brutta ed inefficace .

Conclude il trattato lo stile "veemente", che deve realizzarsi non tanto nei kola quanto nei kòmmata: ovvero, lo stile veemente richiede frasi brevi, secche, come si usa per i comandi; il linguaggio laconico ne è un chiaro esempio. Questo stile richiede anche asprezza di suono (anche qui va tuttavia ricordato che gli esempi dati dal nostro rètore riguardano soprattutto la pronuncia in greco, non sempre traducibile nell'italiano moderno). Si devono evitare antitesi ed assonanze più adatte ad esprimere pomposità e frigidezza, mentre la frase più incisiva va posta alla fine, e non all'inizio o nel mezzo. Anche la cacofonia può rendere l'impressione di veemenza, ma su ciò vale quanto detto sull'antica pronuncia greca; può valere anche per la nostra lingua la seguente asserzione di Demetrio :

"lo stile veemente... richiede un che di violento e di rapido, quale conviene a chi colpisce da vicino..."(35) .

Lo stile veemente deve esprimere l'esaltazione e la concitazione di chi parla, anche levando il tono della voce (senza però renderlo stridulo o troppo acuto, il che crea fastidio). Qualche volta sono necessarie allegorie ed iperboli, per dare maggiore enfasi al discorso, oppure nei casi in cui può essere pericoloso criticare apertamente qualcuno, è preferibile un discorso figurato, lodando ad esempio determinate qualità che, invece, nella persona di cui si parla sono manifestamente assenti. Infine, la deformazione dello stile veemente è quella dello stile "sgraziato", caratterizzato dall'uso di fatti e di termini disgustosi, troppo volgari, scendendo magari in ulteriori dettagli: in certo modo lo stile sgraziato è la sintesi delle deformazioni dei quattro stili, sia per i concetti espressi, sia per i termini, sia per i toni.

Senza ulteriori considerazioni Demetrio conclude il suo trattato, di cui va detto, riprendendo la questione su quanti siano gli stili, che il rètore ha ben esaminato i primi due, ed in parte anche il terzo, ma non certo l'ultimo che sembra essere semplicemente un sottotipo dello stile grandioso, fatta salva la questione della brevità delle frasi. Sembra così che egli si sia attenuto alla quadruplicazione dei tipi, senza tutto sommato condividerla nei fatti. Riguardo alle deformazioni o deviazioni nello stile, sembra piuttosto trattarsi di assenza d'ogni stile, piuttosto che un sottotipo: chi infatti non sa scrivere o parlare bene, finisce per imitare un certo stile in modo artificioso, non sentito, senza neppure capacità tecnica, per cui ottiene solo un'assenza di stile piuttosto che un'artificiosità in senso proprio.

Comunque sia, il lavoro di Demetrio conferma quanto da me anticipato nel precedente saggio, ovvero la significativa consapevolezza estetica nella retorica classica, particolarmente ellenica ed ellenistica.

NOTE

  1. Su Isocrate ho esaminato il saggio Moses I. Finley, "L'Eredità di Isocrate "(1972), tradotto dall'Editrice Einaudi a cura di Barbara Mac Leod (Torino, 1981) nella silloge "Uso e Abuso della Storia" , pagg. 290 - 324, nonché il saggio di Silvia Gastaldi "La Retorica del IV secolo tra oralità e scrittura" e le Introduzioni e note a cura di Chiara Ghirga e Roberta Mussi, anche traduttrici del testo, premesse alle "Orazioni" di" Isocrate, ed BUR (Milano, 2006), pagg. 7 - 93, 199 - 201, 246 - 251, 324 - 327, 411 - 415 .

  2. "Panegirico", "Areopagitico", "Sulla Pace", "Filippo" (il padre di Alessandro Magno) e "Panatenaico" .

  1. Perfino il menu, in un ristorante, viene letto e commentato con molte esclamazioni, spesso di giubilo e talvolta di disgusto, fra due avventori. Perché mai una poesia o un bel brano in prosa dovrebbero essere letti con un tono uniforme, più adatto a voci elettroniche che ad una voce umana ?

Basti qui citare l'etologia, della quale uno degli scopi è di riuscire a comprendere il linguaggio fonico e pantomimico degli animali. Anche le piante, come qualcuno sta comprendendo, hanno un loro "linguaggio", sicuramente non di tipo fonico, ma forse pantomimico o, piuttosto, di colori (la presenza di clorofilla, in quantità maggiore o minore, è probabilmente un piccolo - per noi - segnale della salute di una pianta) .

5) Da qualcuno ricordato come "Perelà, l'uomo di fumo".

6) Va ricordato che questa era anche la posizione di Socrate, che non ha mai lasciato nulla di scritto, per non parlare di Gesù Cristo, secondo quanto riportato dalle rispettive testimonianze, pur non essendo affatto degli analfabeti .

7) Riportato nell'edizione BUR delle Orazioni di Isocrate, sopra citata, a pag. 34. L'intero testo di Alcidamante arriva fino a pag. 40, ed è scritto in caratteri minimi _

8) Il brano è all'inizio del discorso "Panegirico"ed. cit. pag. 95 .

9) ibidem, pag. 97

10)ibidem, pagg. 97 - 99 .

11) A questo punto, con termine assai poco retorico, la traduttrice scrive "si arruffianano": non conoscendo il greco non posso certopermettermi di contestare una simile traduzione (se il termine italiano renda lo spirito del termine greco), ma non mi pare che corrisponda allo stile di Isocrate che non vuol utilizzare espressioni popolari o volgari. Cfr. pag. 99 ultima riga ed il testo in greco alla pag. 98, soprattutto pensando at precedente §· 11: "Eppure certe persone criticano i discorsi inaccessibili agli incolti e troppo elaborati, commettendo il grosso sbaglio di giudicare i discorsi destinati alla perfezione con gli stessi criteri che si usano per quelli deiprocessi per cause civili... 12.... questa gente loda chi è simile a lei... mi rivolgo a chi non è disposto ad accettare neanche una parola detta a caso..." (ibidem). Ancor più improbabile (mi sembra ovvio...) che un antico Greco abbia usato anglicismi come leader o gallicismi come casinò: è prova di una certa faciloneria oggi usata dai traduttori che, premuti dalla fretta, traducono con troppa discrezionalità termini e frasi che, viceversa, debbono mantenere una struttura e nobiltà classica

12) ibidem, pag. 123 .

13) Potremmo dire, con più chiarezza: i discorsi per essere pubblicamente letti, a voce alta, differiscono necessariamente da quelli nati per una lettura privata, fatta da singoli. Tuttavia, ogni discorso - una volta scritto - può essere letto, sia a voce alta e pubblicamente, sia in sede privata: non è tanto l'occasione esteriore dello scritto a determinare il suo stile, quanto l'intenzione di chi lo ha predisposto.

14) Orazione dedicata a Filippo, re di Macedonia e padre di Alessandro Magno; ibidem pagg.341 - 343

15) Pensiamo a Gaio Giulio Cesare, che scrisse di sé in terza persona: questo vezzo retorico poteva essere molto diffuso .

16) Anche per tale opera mi riferisco all'edizione BUR (Milano, 2002), con traduzione e note di Alessia Ascani e la notevole Introduzione di Dirk M. Schenkeveld, autore di un'opera su questo Demetrio (Groningen, 2000) .

17) Come ricordano I commentatori della sopraccitata edizione, il trattato di Demetrio è rivolto ad uditori ed alunni di un corso superiore di retorica, il che è confermato dal suo dare per conosciuti alcuni principi e regole basilari .

18) op cit, pag.69 .

19) ibidem, pag. 71.

20) ibidem,pag. 71 .

21) ibidem, pagg. 75 - 77 .

22) E' evidente che tale spiegazione si riferisce alla lingua greca ed alla sua pronuncia, come eventualmente in latino. In italiano non ha alcun significato .

23) ibidem, pag. 85

24) ibidem, pag. 97

25) Nella nostra epoca, esteticamente e stilisticamente povera, la ripetizione di un termine è fatta per incapacità e povertà linguistica, non per ragioni retoriche: spesso sembra che le persone non conoscano più l'uso dei pronomi, o di sinonimi, sicché il risultato è quello di una rozza chiacchiera, estremamente noiosa .

26) ibidem, pag. 105

27) ibidem, pag.117. Questo rigore, a mio parere, dovrebbe essere usato anche per i barbarismi, ovvero la manìa di adoperare parole straniere anche quando esistono già di corrispondenti in italiano. Oggi la moda riguarda soprattutto l'inglese, in campo scientifico e tecnologico (e fin qui può andar bene, trattandosi spesso di scoperte ed invenzioni compiute da anglosassoni) ma l'uso diventa vizio quando si estende al campo politico, dove termini italiani esistono già, ma si predilige per servilismo adoperare termini angloamericani, ritenendosi così moderni, all'altezza dei tempi e particolarmente progrediti...

28) ibidem pag. 117

29) ibidem pag.131 Se il povero Demetrio potesse sentire certo linguaggio pubblicitario, che cosa direbbe nel bel mezzo delle più assurde e grossolane iperboli fatte sugli oggetti più comuni e su quelli intimi, ad es. sulla carta igienica, sui pannolini, sulle mutande e simili, su merendine, saponi, detersivi e dentifrici, sulle automobili vantate come strumenti o espressioni della volontà di potenza e di sopraffazione sempre più diffusa, e cosi via? Il linguaggio pubblicitario oggi, invece d'essere - come dovrebbe - puramente informativo sulle caratteristiche reali di ciascun prodotto, diventa invece qualcosa di grottescamente esaltatorio delle cose più banali. La propaganda più efficace è quella o puramente informativa o, se si vuol arricchirla in qualche modo, un po' autoironica. Certe iperboli, viceversa, risultano addirittura controproducenti e spesso diseducative .

30) Lo scherzo, l'umorismo e l'ironia fanno sorridere anche chi li subisce; il sarcasmo e lo scherno sono invece cattivi e non divertono affatto chi ne è l'oggetto.

  1. 31) ibidem pagg. 137 - 139

  2. 32) ibidem pag. 151

33) ibidem, pag. 159

  1. 34) ibidem, pag. 165

  2. 35) ibidem, pag. 203

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