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Manlio Tummolo
La descrizione dei sentimenti nei poemi omerici
(Terzo saggio per una storia delle teorie estetiche)
Sicuramente alcuni cattedratici mi rimprovereranno dall'alto dei loro scranni per non aver seguito un ordine cronologico in questo mio generico quadro per “Una Storia delle Teorie Estetiche”, facendomi notare con la loro proverbiale accademica certezza che Omero è di gran lunga anteriore a Platone e ad Aristotele.
Tralasciando la ben nota “questione omerica” (sul fatto se Omero sia esistito e tutto il resto, su cui - per semplicità, e per non essere, come un'illustre cattedratica mi rimprovera, “megalomane ed arrogante” - sorvolo), obietto dal basso dei loro scranni che quelli che noi conosciamo come “poemi omerici” non costituiscono altro che una profonda rielaborazione delle leggende e dei racconti epici che la Scuola di Alessandria, posteriore ad Aristotele e ad Alessandro Magno, fondatore di quella città d'Egitto, raccolse ed ordinò dandole quell'aspetto evoluto che, sicuramente, i poemi ciclici (le leggende che riguardano gli stessi eventi e gli stessi tempi) sulla Guerra di Troia ed i nostoi (ritorni) degli eroi micenei, non potevano avere. Infatti, già confrontando l’“Iliade” all' “Odissea”, quantunque la prima attribuita all'Omero giovane e la seconda all'Omero anziano, si dimostra che il primo poema è ben più raffinato, ricco e completo del secondo, almeno considerati nel loro complesso, soprattutto nella descrizione accurata dei sentimenti (1). Né infatti va dimenticato che, proprio ad Alessandria nacque quella corrente poetica di tipo psicologico-sentimentale rappresentata soprattutto da Callimaco, a cui si ispirarono i romani poetae novi dell'età di Cesare, quali Levio, Varrone Atacino, Valerio Catone, Elvio Cinna, Licinio Calvo, ed il celebre Catullo; nel periodo d'Augusto, seguirono pure un modello alessandrino gli elegiaci Cornelio Gallo, Tibullo e Properzio: solo una Scuola poetica evoluta poteva esprimere i sentimenti umani, nel loro realismo, nella loro veridicità e sincerità, come uomini dell'età più oscura della storia greca (il cosiddetto Medioevo ellenico, attorno al IX - VII secolo avanti Cristo) non avrebbero saputo fare.
Senza entrare nel merito di questioni filologiche della lingua greca, che io non conosco, certamente sarebbe difficile immaginare che la lingua dei poemi omerici, come noi li conosciamo, sia esattamente quella del medesimo periodo tra il IX ed il VII secolo, mentre è più probabile ritenere che, pur mantenendo arcaismi ed una grammatica meno codificata, i poemi omerici si esprimano in un linguaggio assai più vicino a quello classico, derivato dai dialetti jonici.
Ma è opportuno ora entrare nella questione che mi sono posto: lo stile espressivo dei sentimenti, a partire dall'ira, che, non solo in riferimento a quella proverbiale d'Achille, con la quale Omero inizia la sua Protasi nel Libro I, ma anche all'ira di Dèì e di altri eroi, altrettanto rilevante (2) .
Infatti, la proverbiale ira di Achille è generata da una serie di fatti, tutta retta dall'ira: in una delle molteplici incursioni che i Micenei compivano durante il vano ed estenuante assedio di Troia, essi catturano la figlia del sacerdote di Apollo Crise, detta, col patronimico, appunto Criseide. Il padre giunge all'accampamento per riscattarla con un notevole prezzo. Malgrado i capi guerrieri, un poco per compassione e molto per l'avidità dei doni offerti, sollecitassero Agamennone, loro comandante in capo, a restituire la ragazza al padre, il re di Micene si rifiuta, minacciando per giunta di infliggere al vecchio sacerdote delle pene corporali o anche di ucciderlo. Crise si impaurisce, ma rivolge al suo Dio Apollo questa preghiera:
“Dio dall'arco di argento, o tu che Crisa proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador... / Questo voto m'adempi; il pianto mio/ paghino i Greci per le tue saette”.
Apollo non si fa pregare per una seconda volta: l'offesa al proprio sacerdote non è meno grave che un'offesa diretta a Lui stesso. Del resto Apollo, come Marte e Venere, è alleato dei Troiani e, quindi, nemico dei Micenei: inizia cosi la sua azione di sterminio che, ahinoi, prima ancora che quei crudeli invasori, colpisce poveri ed innocenti animali, che proprio non c'entravano nulla con la bestialità di Agamennone :
“... indi uno strale / liberò dalla corda, ed un ronzìo/ Terribile mandò l'arco d'argento./ Prima i giumenti e i presti veltri assalse, / Poi le schiere a ferir prese, vibrando / Le mortifere punte; onde per tutto / Degli esanimi corpi ardean le pire...”.
E' lo stesso Achille che, ispirato da Giunone, fa convocare l'assemblea dei condottieri, al fine di chiedere la consulenza di un altro sacerdote per capire come mai Apollo stermini tutti i viventi del campo (che fosse Apollo il Dio sterminatore, non è stata certo la capacità intuitiva del forte Achille a farglielo sapere, ché in tal caso avrebbe cercato di evitare ogni incontro con il prepotente Agamennone: glielo avrà suggerito Giunone stessa). Interviene l'indovino Calcante, il quale però, al fine di premunirsi (a differenza del poco sveglio Achille, Calcante ha capito bene i motivi dell'ira e della vendetta di Apollo), chiede al più forte degli Achei di proteggerlo dalle punizioni dell'empio Agamennone. Achille gli promette l'impunità, ed allora Calcante, rassicurato, cosi si esprime :
“Né d'obbliati sacrifici il Dio / Né di voti si duol, ma dell'oltraggio / Che al sacerdote fe' poc'anzi Atride [Agamennone stesso, il figlio d'Atreo], / Che francargli la figlia ed accettarne / Il riscatto negò. La colpa è questa...”
Calcante avverte gli Achei che, senza la restituzione di Criseide al padre, la vendetta di Apollo continuerà, fino all'annientamento dell'armata dei condottieri micenei.
E qui scoppia l'ira di Agamennone: ora, è da notare che, per quanto possa essere antica la storia della guerra di Troia, la descrizione dei sentimenti e delle loro contraddizioni, della loro “veridicità” (fino alla malafede), è assolutamente realistica. Sapendo che Omero era un greco, si penserebbe che egli descriva i suoi Eroi e ne racconti le gesta con naturale “parzialità”: al contrario, Omero descrive quegli uomìni, pur nella fantasia mitologica sulle loro doti fisiche semidivine, in modo del tutto imparziale e realistico, cogliendone i difetti psicologici assolutamente senza vergogna e senza ipocrisia. Tutto sommato, sarà più generoso nella descrizione degli Eroi avversari (i Troiani) che non di quelli Achei. Agamennone, infatti, è preso da una rabbia feroce e solo l'impegno di Achille salverà Calcante da tale rabbia:
“Squadrò torvo Calcante, indi proruppe: / Profeta di sciagure, unqua [mai] un accento / Non uscì di tua bocca a me gradito/ Al maligno tuo cor sempre fu dolce / Predir disastri, e d'onor vote e nude / Son l'opre tue del par che le parole. / E tra gli Argivi [sempre i Micenei o Achei: si tratta di sinonimi in Monti] profetando or cianci / Che delle frecce sue Febo gl'impiaga/ Sol perch'io ricusai della fanciulla / Criseide il riscatto...”
Il prepotente Agamennone, tuttavia, ben rendendosi conto che ulteriori rifiuti alla volontà del Dio Apollo gli costerebbero l'intero esercito (e quale uomo, per quanto forte, avrebbe potuto sostenere l'assalto di un Dio ?), finisce per cedere, ma vuole un compenso. Visto che deve restituire Criseide, pretende che Achille rinunci a Briseide, altra schiava che però Achille amava riamato. Achille, per quanto di non pronto intelletto, si sdegna fieramente per la prepotenza del re, il quale - quantunque condottiero supremo (sulle cui capacità militari tuttavia Omero non sembra esprimere grande stima, visto che dopo la secessione di Achille, i Troiani passano all'attacco e cominciano ad infliggere al nemico sconfitte memorabili) - dà questi ordini assurdi sulla base di non si sa quale potere effettivo, se non una cieca obbedienza dei condottieri subordinati (sul piano più propriamente storico possiamo solo supporre che il suo esercito, essendo quello di Micene, fosse relativamente o in assoluto il più potente e numeroso tra gli alleati Achei). Achille, tuttavia, non accetta supinamente :
“Anima invereconda, anima avara, / Chi fia tra i figli degli Achei sì vile / Che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada / In agguati convegna o in ria battaglia ? / Per odio de' Troiani io qua non venni / A portar l'armi, io no: ché meco ei sono / D'ogni colpa innocenti. Essi né mandre / Né destrier mi rapiro... / Ma sol per tuo profitto, o svergognato, / E per l'onor di Menelao [fratello di Agamennone], pel tuo, / Pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia / Ti seguitammo alla vendetta...” .
Achille, insomma, gli rinfaccia in modo assai pesante (e la descrizione d'Omero è di un estremo realismo, per quanto tali discorsi appaiano in un poema che assai erroneamente si considererebbe di esaltazione nazionale (3) di averlo seguito non certo nel proprio interesse, ma per tutelare l'onore di Menelao abbandonato dalla bellissima Elena, rapita da (o fuggita con) Paride Alessandro, uno dei cinquanta figli di Priamo re di Troia. Ancora, Achille gli rinfaccia di dare il massimo sforzo per la vittoria degli Achei, ricevendone però il premio minore. Ora, il gran re gli vuole togliere l'unico dono ricevuto. Dunque, Achille lo ammonisce che abbandonerà la guerra e ritornerà in patria. Agamennone non si calma, anzi assume una maggior prepotenza: qui Omero descrive con il massimo realismo l'evolversi tipico di un litigio, quando i due litiganti passano a dirsi reciprocamente le cose più offensive e minacciose, senza tener conto della convenienza, dell'opportunità, della ragionevolezza.
“Fuggi dunque, riprese Agamennòne / Fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego / Di rimanerti. Al fianco mio si stanno / Ben altri eroi, che a mia regal persona / Onor daranno, e il giusto Giove in prima. / Di quanti ei nudre regnatori abborro / Te più ch'altri; sì, te che le contese / Sempre agogni.../ ... io non ti curo / E l'ire tue derido... / Ma nel tuo padiglione ad involarti / Verrò la figlia di Brisèo, la bella / Tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga / Quant'io t'avanzo di possanza...”
Achille è sempre più adirato, ed è preso dal desiderio di trarre la spada ed infilzare l’insolente. Qui, ed eccoci di nuovo alla fantasia, intervengono a dominarlo Giunone e Minerva, Dèe alleate degli Achei e che comprendono che un atto del genere costituirebbe la rovina dei loro protetti e la salvezza dell'odiata Troia. Minerva placa in parte Achille, avvisandolo che di lì a qualche tempo sarebbe stato ben vendicato della sua umiliazione. Ciò non toglie che l'eroe mantenga la sua aggressione verbale nei confronti del re prepotente :
“Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core! / Tu non osi giammai nelle battaglie / Dar dentro colla turba; o negli agguati / Perigliarti co' primi infra gli Achei, / Ché ogni rischio t'è morte... / Stagion verrà che negli Achei si svegli / Desiderio d'Achille, e tu salvarli / Misero! non potrai, quando la spada / Dell'omicida Ettòr farà vermigli / Di larga strage i campi: e allor di rabbia / Il cor ti roderai, ché sì villana / Al più forte de' Greci onta facesti ...”
Probabilmente, comincerebbe - e questa volta da parte di Agamennone - un tentativo di assalto fisico, se non intervenissero altri eroi, come il saggio Nestore (il più vecchio dei combattenti) ed Ulisse, ricordando che chiunque tra i due vincesse, la rovina per gli Achei sarebbe comunque certa.
Invano, tuttavia, essi cercano di convincere Agamennone a rinunciare a Briseide, per placare l'animo esacerbato di Achille; il gran re non rinuncia. Achille è costretto a lasciargli Briseide, ma si ritira dalla guerra, insieme al fidato amico Patroclo, senza però ritornare, come aveva minacciato, in patria. Questo andamento contraddittorio degli animi non è un errore di descrizione, anzi: quasi sempre, due litiganti che, pur sono legati da vari rapporti, finiscono per comportarsi incoerentemente rispetto alle offese e minacce, lanciate nel corso del litigio. Qui sta il realismo di Omero, sia pure con la fantasiosa (ma in quei tempi inevitabile) presenza degli Dèi a placare o ad eccitare i contendenti. Achille, pur furibondo e pur potendo abbandonare del tutto la zona di guerra (né sembra che il gran re avrebbe potuto impedirglielo), lascia che i messaggeri gli portino via la schiava per ordine di Agamennone: forse perché assicurato dalle Dèe di esserne presto vendicato? Questo, però, fa parte della fantasia poetica, sicuramente non del senso della realtà che si mescola ad essa. L'amarezza di Achille è inevitabile e l'eroe piange, per il dolore, per l'umiliazione, per la rabbia. La madre, la ninfa Tetide sorge dal mare e lo conforta; ma a lei Achille chiede che la sua vendetta sia adempiuta, e presto essa lo sarà: Tetide, su richiesta del figlio, si rivolge a Giove stesso, affinché chiami i Troiani alle armi, li informi dell'astensione di Achille e li incoraggi a quell'attacco che, per poco, non porterà alla distruzione del campo acheo. Un sentimento uguale e contrario Giove ispira allo stesso Agamennone, con un sogno menzognero, eccitandolo ad attaccare per primo i Troiani nell'illusione che la Città, imprendibile finora, sia pronta a cadere.
Sospendiamo ora la descrizione degli eventi successivi fino al riapparire di Achille nel Libro XVI: i Troiani, guidati da Ettore ed Enea, da assediati si sono trasformati in assedianti. Non solo l'accampamento degli Achei, ma anche le navi sono minacciate: la protervia di Agamennone sta per subire la sua più umiliante disfatta, ovviamente con l’aiuto degli Dèi. Patroclo, vedendo che la situazione precipita, ne soffre e cerca di convincere Achille a riprendere la guerra e a ricacciare i Troiani nella città, come sempre era avvenuto quando egli appariva in combattimento. Per quanto in parte soddisfatto, Achille vuol godere la rovina di Agamennone fino in fondo, e perciò rifiuta di riprendere la lotta, ma concede a Patroclo di indossare le proprie armi, in modo da incoraggiare gli Achei e terrorizzare i Troiani. Infatti, ciò accade, ma l'inganno è presto svelato: Patroclo cade in duello con Ettore, e proprio la sua morte indirizza l'ira di Achille, non più contro Agamennone e i suoi vassalli, ma contro Ettore ed i Troiani. Ricevute dalla madre Tetide le nuove armi, Achille rientra pienamente in guerra e sfoga la sua ira sul nemico (siamo al Libro XX) :
“Ma di scagliarsi fra le turbe in cerca / Del Priamìde Ettorre arde il Pelìde, / Ché innanzi a tutto gli comanda il core / Di far la rabbia marzial satolla / Di quel sangue abborrito...”
Tuttavia, il primo scontro avviene con Enea che, per forza fisica e capacità guerriera, è il secondo eroe dei Troiani (Omero ha tutta una sua graduatoria, degna quasi degli antichi nostri Provveditorati agli Studi...), come Aiace Telamonio è il secondo degli Achei, il quale però a sua volta è circa pari ad Ettore, o leggermente superiore. Il duello fra Enea ed Achille - finirebbe con la netta vittoria del secondo, se non intervenisse in battaglia Venere stessa a salvarlo per ben altri destini (come sappiamo, leggendo viceversa l' “Eneide”). Ecco come Omero descrive il micidiale Achille:
“... Ad incontrarlo / mosse il Pelìde impetuoso, e parve / Truculento lione alla cui vita / Denso stuol di garzoni, anzi l'intero / Borgo si scaglia: incede egli da prima / sprezzatamente; ma se alcun de' forti / Assalitor coll'asta il tocca, ei fiero / Spalancando le fauci si risolve / Colla schiuma alle sanne; la gagliarda / Alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi / flagella colla coda, e se medesmo / Alla battaglia irrita: indi repente / Con torvi sguardi avventasi ruggendo, / Di dar morte già fermo o di morire...”
Più avanti ancora, sfuggitagli l'ambita preda, Achille semina strage. C'è un primo scontro con Ettore, dal quale costui è salvato da Apollo (ma, ad onor del vero, Omero ricorda che Minerva ha fatto fallire l'altrimenti micidiale colpo di Ettore)
“... Ma gliel tolse Apollo, / Lieve impresa ad un Dio (4), tutto coprendo / Di folta nebbia Ettòr. Tre volte Achille / Coll'asta l'assalì, tre volte un vano / Fumo trafisse, e con furor venendo/ Il divino guerriero al quarto assalto / Minaccioso tuonò queste parole: / Cane troian, di nuovo ecco fuggisti / L’estremo fato che t'avea raggiunto, / E Febo [il Dio Apollo, sempre lui...] ti scampò, quel Febo a cui / Tra il sibilo dei dardi alzi le preci...”
Senti da che pulpito, vien voglia di dire, parla di Dèi proprio il bravo Achille che, non solo era stato reso immortale grazie al bagno nello Stige (con l'esclusione del tallone), fattogli dalla buona Tetide, ma era stato reso pressoché invincibile con le sue armi fattegli da Vulcano (una tecnologia bellica sicuramente superiore a quella che le fucine dei Troiani potevano produrre...). A rimetterci la pelle sono altri guerrieri che Achille con grande facilità massacra :
“... Tale in sembianza d'un irato iddio / D 'ogniparte si volve furibondo / Il Pelìde, ed insegue e uccide e rossa / Fa di sangue la terra... / gronda di sangue dalle zampe sparso [dai cavalli del suo cocchio] / De' cavalli a gran sprazzi e dalle rote. / Desio di gloria il cuor d'Achille infiamma, / E l’invitte sue mani tutte sozze / Son di polve, di tabe e di sudore...” .
Ma sarà proprio il massacro a suscitare l'ira di un altro Dio, il fiume Xanto o Scamandro, e per l'eroe invitto viene il momento della paura. Infatti, quando il Fiume protesta di essere insozzato dal sangue e dai cadaveri dei Troiani, Achille risponde rabbiosamente e con molta maleducazione, cosa grave verso un Dio, anche se secondario:
“Dagl’imi gorghi udì Xànto d'Achille / Le superbe parole, e d’alto sdegno /Fremendo, divisava in suo pensiero / Come alla furia dell'eroe por modo / E de' Teucri impedir l'ultimo danno.”
Mentre il Fiume tenta invano di impedirgli ulteriori stragi, facendo intervenire coraggiosi guerrieri, Achille ne approfitta per ulteriori massacri, che riempiono l'acqua di cadaveri e di sangue, ma compie un errore: per inseguire il nemico entra nel fiume, e qui mal gliene incoglie:
“... Il fiume allor si rabbuffò, gonfiossi, / Intorbidossi, e furiando sciolse / A tutte l'onde il freno: urtò la stipa / De' cadaveri opposti, e li respinse, / Mugghiando come tauro, alla pianura, /... Orrenda intorno / Al Pelìde ruggìa fa torbid’ onda...”.
Qui, provvisoriamente, mi fermo perché, trattando della paura, mostrerò più avanti come Omero, col suo realismo psicologico, attribuisca ad Achille (quell'infaticabile massacratore idiota) anche quel sentimento, proprio quando egli si trova prima nelle acque ruggenti dello Scamandro, poi inseguito dalle stesse, e solo per intervento degli Dèi benigni (nel caso specifico, Vulcano) riesce a salvarsi ed a continuare la sua battaglia. Proprio in questo episodio Omero dimostra compiutamente di saper dare il giusto peso alle sbruffonerie degli uomini, ben coraggiosi con i più deboli, ma molto meno quando si trovano davanti ai più forti, La “modernità” di Omero, pur nella magia e fantasia mitologica delle sue descrizioni, è quella di saper non perdere mai il senso della misura e di sottolineare i limiti, non solo degli uomini comuni, bensì anche dei “super-eroi”, semidei e figli meticci della divinità e degli umani .
Sempre in riferimento alla descrizione dell'ira, in particolare quella d'Achille, merita descrivere il trattamento che infligge al corpo di Ettore, ormai morto, per vendicare in modo atroce la fine di Patroclo. Eppure, anche qui Omero riesce a descrivere, con infinita sensibilità, il residuo di spiritualità e pietà anche in quella belva umana che è Achille, quando Priamo da solo viene a chiedere il corpo straziato del suo primogenito. Siamo al XXII Libro :
“... e contra l'estinto opra crudele / Meditando, de' piè gli fora i nervi / Dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio / Insertovi bovino, al cocchio il lega, / Andar lasciando strascinato a terra / Il bel capo. Sul carro indi salito / Con l'elevate gloriose spoglie, / Stimolò col flagello a tutto corso / I corridori che volar bramosi. / Lo strascinato cadavere un nembo / Sollevava di polve onde la sparta / Negra chioma agitata e in volto tutto / Bruttavasi, quel volto in pria sì bello...”
La descrizione è terribile: il vincitore mostra ai Troiani sconfitti e sconvolti tutta la sua barbarica natura. La madre di Ettore, Ecuba, deve vedere il terribile spettacolo, come il padre Priamo. L'unica ad ignorarlo provvisoriamente è la moglie Andromaca: lo scoprirà anch'essa accorrendo alla mura, spinta dalla dolorosa intuizione di moglie e di madre. Achille, dopo questa giostra mostruosa, esprime ai suoi uomini l'intenzione di lasciare il cadavere di Ettore in pasto ai cani: fortunatamente l'ultimo residuo di umanità (se di umanità si tratta (5) o, piuttosto, di pietà spirituale lo ritroverà di fronte a Priamo che rischia la propria vita per riscattare il corpo del figlio .
Se l'ira, di Achille e di altri, è il tema dominante di tutta l'Iliade, sicuramente non è il solo fra i sentimenti descritti da Omero. Saltiamo ora alla vanagloria, che egli attribuisce a due personaggi in particolare, Tersite di parte achea e Dolone di parte troiana. Il discorso su Tersite, in verità, meriterebbe un'analisi di altro genere, se noi osserviamo il personaggio in altra veste, ovvero come uno dei primi portavoce del pensiero democratico, messo in feroce burletta ed in ridicola caricatura da Omero, che certo democratico non appare, nella sua esaltazione degli eroi, greci e troiani. Ma qui il mio discorso non riguarda l'ideologia o filosofia politica presente in Omero, bensì le sue capacità di descrizione estetica dei sentimenti; perciò, per quel che riguarda la vanagloria, merita mettere in luce questi due personaggi. Tersìte è una figura comica (nelle intenzioni di Omero) di guerriero protestatario, di “soldato semplice” nella spedizione a Troia, elemento di quella “carne da macello” (più tardi detta "carne da cannone") che fu sempre la fanteria. Tersite viene rappresentato come un fanfarone, ma non solo: ha una figura ridicola, fisicamente poco adatta al servizio militare (6), ma è anche un protestatario, si arrabbia quando Agamennone mette alla prova il suo esercito, prima promettendo il ritorno in patria, poi annunciando la sua prossima offensiva (la stessa descritta dopo il ritiro di Achille). Di lui è interessante notare che fa il primo discorso “democratico” della storia, che Omero mette in burletta ma che è pure comune al cosiddetto “Anonimo di Giamblico” (7); infatti, Tersite dice ai comandanti: restatevene pure da soli a combattere i Troiani, vedremo bene che cosa sarete capaci di fare senza la forza del nostro numero, ancorché disprezzati e derisi da voi.
Ma Omero riduce tutto il discorso a pura vanteria: basta un secco intervento di Ulisse, con un buon bastone (il big stick di Theodore Roosevelt, contro i sudamericani), per ridurre Tersite ad un pianto che fa ben ridere i vari guerrieri, compresi i suoi semplici commilitoni, ma non fa ridere affatto noi (siamo al Libro II) :
“... Queto s 'asside / Ciascheduno al suo posto: il sol Tersite / Di gracchiar non si resta, e fa tumulto / Parlator petulante..../ Non venne a Troia di costui più brutto / Ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta / Gran gobba al petto: aguzzo il capo, e sparso / Di raro pelo. Capital nemico / Del Pelide e d'Ulisse.../ Colla stridula voce lacerava / Anche il duce supremo Agamennòne /...
... E di che dunque / Ti lagni, Atride ? Che ti manca ? Hai pieni / Di bronzo i padiglioni e di donzelle... /... O forse / Pur d'auro hai fame, e qualche Teucro aspetti / Che d'Ilio uscito lo ti rechi al piede / Prezzo del figlio da me preso in guerra, / Da me medesmo, o da qualche altro Acheo? ...”
Tersite, dunque, nella versione omerica è un soldato fanfarone, che si vanta di catturare vari prigionieri, col cui riscatto i re si riempiono d'oro. Mentre prosegue il suo discorso, invitando i soldati a ribellarsi, ammutinandosi o disertando, Ulisse interviene rinfacciandogli l'invidia, come causa del discorso, quindi lo percuote con lo scettro :
“Sì dicendo, le terga gli percuote / Con lo scettro e le spalle. Si contorce / E lagrima dirotto il manigoldo / Dell 'aureo scettro al tempestar, che tutta / Gli fa la schiena rubiconda; ond'egli / Di dolor macerato e di paura / S'assise, e obbliquo riguardando intorno / Col dosso della man si terse il pianto. / Rallegrò quella vista i mesti Achivi, / E surse in mezzo alla tristezza il riso...”.
Insomma, Omero vuol dire che Tersite, che pure aveva rimproverato di femminea viltà o paura i suoi commilitoni, di fronte alla buona bastonatura inflittagli da Ulisse si mette a piagnucolare e finisce per tacere, sogguardandosi intorno. Certo, qui il sarcasmo di Omero è forte, però non appare né appropriato, né divertente, spinto soltanto da un atteggiamento ideologico e fazioso.
Diverso, anche se sempre amaro nella sua conclusione, l'episodio di Dolone nel Libro X. Durante la notte, dopo una durissima battaglia, sia i comandanti Achei, sia quelli Troiani discutono sul da farsi, ma necessita, come in ogni guerra seria, un'azione di spionaggio per conoscere dislocazione, numero e condizioni del nemico dopo le perdite subite. Diomede ed Ulisse, per gli Achei, si offrono ad un giro d'ispezione nel campo avversario: sulla forza fisica del primo e sull’astuzia (ma anche sulla forza, per quanto inferiore) del secondo nessun dubbio in Omero. I due riuniti, infatti, non temono confronto. Lo stesso non può dirsi per il personaggio avversario, il solo Dolone, il quale si ritiene molto sicuro di sé e vuol muoversi isolato, pensando di poter verificare la situazione senza troppa fatica. Dolone, per così dire, è un “Tersite” peggiore, nel senso che non ne ha i difetti fisici, ma in compenso è ancora più vile e soprattutto ben più avido :
“Era un certo Dolone infra' Troiani, / Uom che di bronzo e d'oro era possente,/ Figlio d'Eumede, banditor famoso / Deforme il volto, ma veloce il piede, /... Si trasse innanzi il tristo, e così disse:/ Ettore, questo cor l'incarco assume /
D 'avvicinarsi a quelle navi, e tutto / Scoprir. Lo scettro mi solleva e giura / Che l'èneo cocchio e i corridori istessi / del gran Pelìde mi darai: né vano / Esploratore io ti sarò: né vota / Fia la tua speme...”.
Dolone promette non soltanto di girare per l'accampamento nemico, ma addirittura di entrare nella tenda o nella nave di Agamennone per ascoltare i piani di guerra dei re achei. Non sappiamo se ne sarebbe stato capace, ma è assai sfortunato: nel suo girovagare viene colto da Ulisse e Diomede, e vano è il suo tentativo di fuggire. Basta il lancio di un giavellotto che gli sfiora il piede, perché la povera spia troiana si blocchi nella speranza di salvarsi:
" Ristette il fuggitivo, e di paura / Smorto tremando, della bocca uscia / Stridor di denti che batteano insieme. /... i due guerrieri, / L'afferrano alle mani, ed ei piangendo / Grida: Salvate questa vita, ed io / Riscatterolla.../ Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse, / Nè veruno di morte abbi sospetto, / Ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine / Dal campo te ne vai verso le navi / Tutto solingo pel notturno buio / Mentre ogni altro mortal nel sonno posa /... E a lui tremante di terror Dolone: / Misero / Mi travolse Ettore il senno, / E ingran disastro mi cacciò, giurando / Che in don m'avrebbe del famoso Achille / dato il cocchio e i destrieri a questo patto, / Ch'io di notte traessi all'inimico / Ad esplorar se, come pria, guardate / Sien le navi, o se voi dal nostro ferro / Domi teniate del fuggir consiglio...”
Così Dolone, ben lungi dal raccogliere le promesse informazioni sul nemico o, almeno, di ritirarsi con dignità, spiattella tutte le intenzioni di spionaggio, ma non solo - pur di aver salva la vita - dà ai due nemici ogni utile informazione sulle forze troiane. Ciò non basta a salvarlo: viene ugualmente ucciso, senza che in noi susciti una qualche pietà (ben diversa in questo la povera figura del fanfarone Tersite, che perlomeno non era un traditore o un avido) poi i due seminano strage nell'accampamento troiano, anche se ciò non salverà gli Achei dalle prossime dure batoste inflitte loro da Ettore ed i suoi guerrieri .
Il prossimo sentimento è la paura, quale naturale istinto di conservazione, quale sentimento inevitabile per ogni uomo di fronte al pericolo, sentimento che non si può azzerare, ma solo controllare: il vero coraggio non è, ripeto, assenza di paura (il che sarebbe solo incoscienza), ma è controllo e superamento relativo della paura. La maggior prova del senso realistico di Omero, malgrado la prospettiva mitologica e leggendaria delle sue opere, è che egli non attribuì mai ai suoi eroi, greci o non greci, quell'atteggiamento di eterna incrollabile sicurezza, che invece altri poemi epici successivi o certi filmacci di matrice nordamericana attribuiscono ai protagonisti di certe imprese. Gli eroi omerici sono belli ed interessanti, proprio perché sentono in modo complesso gli eventi e reagiscono in modo diverso: non sono automi, per quanto dipendenti e subordinati al destino e alla volontà degli Dèi, che li stimolano oppure che li scoraggiano. Basti la seguente scena, non priva di ironia: come al solito Omero sta descrivendo una battaglia, alla quale talvolta partecipano, da veri tifosi ma anche spesso da arbitri ''venduti", gli Dèi. Le battaglie andrebbero sicuramente in modo ben più incerto e con perdite ben superiori, se gli Dèi non intervenissero. Nell'episodio in questione, gli Achei avrebbero la prevalenza, ma Giove pesa sulla bilancia del Fato i rispettivi destini, diremmo noi a breve termine; in questo soppesare, il Destino fa prevalere, per oscure ragioni, i Troiani: allora, proprio mentre gli Achei attaccano, Giove lancia il suo terribile fulmine sul campo. Per rendersi conto del broglio, dovremmo pensare ad un'attuale partita di calcio dove l’arbitro, invece di essere imparziale, impedisse alla squadra che sta vincendo di prevalere, lanciando un grosso petardo, quasi una bomba, in modo da terrorizzàre i giocatori della squadra vincente, mentre gli avversari riprendono il fiato e l'attacco (siamo al Libro VIII) :
“... Il fato declinò, che traboccando / Percosse in terra, e balzò l'altro al cielo/Tonò tremendo allor Giove dall’Ida, /E un infocato fulmine nel campo / Avventò degli Achei, che stupefatti/A quella vista impallidir di tema, /Né ldomeneo, né il grande Agamennòne / né gli Aiaci, ambedue lampi di Marte, / Fermi al lor posto rimaner fur osi. / Solo il Gerenio, degli Achei tutela / Nestore vi restò, ma suo malgrado /Ché un destrier l'impedìa, cui di saetta/ D'Elena bella, l'avvenente drudo / Nella fronte ferì...”
Dunque, tutti i grandi eroi fuggono per la paura del fulmine (quasi fossero donnette...): solo uno rimane, non senza ironia da parte di Omero, il vecchio re Nestore, il più saggio degli. Achei, ma “suo malgrado”. Infatti, l'abile arciere, Paride Alessandro, il rapitore di Elena, aveva colpito uno dei suoi cavalli, costringendolo a fermarsi. Sta arrivando Ettore con intenzioni non buone, e Diomede, che pur era tra i fuggitivi, decide dì salvare il vecchio re; chiede aiuto all'amico Ulisse, che però fa il finto sordo (eroico sì nell'uccidere la spia Dolone, ma con Ettore la musica è diversa, ed allora è meglio lasciare i vecchietti al loro destino:del resto non sarebbe stata per lui una morte più degna essere ucciso da Ettore che finire tremolante i suoi giorni in qualche ospizio? Cosi almeno deve aver pensato il buon Ulisse...). Il buon Nestore, evidentemente preferendo l'ospizio alla morte eroica, sale sul cocchio di Diomede, che si prepara ad affrontare Ettore, uccidendone l'auriga. Seccato Giove perché il suo fulmine non è stato preso sul serio, ne lancia un’altro. Dopo breve discussione, Nestore convince il quasi miscredente Diomede a ritirarsi, lasciando il campo ad Ettore e ai Troiani. Il principe troiano, ovviamente, non si esime dal fare ciò che Diomede aveva temuto, ovvero beffeggiarlo della sua fuga “ma deriso or n'andrai, che un cor palesi / Di femminetta. Via di qua fanciulla; / Non salirai tu, no, fin ch 'io respiro / D'Ilio le torri...”. Per tre volte, Diomede vuol far vedere di che pasta è fatto, ma Giove per tre volte tuona dall'Ida. Sappiamo che, per gli antichi, tuoni e fulmini erano segni di divinazione, modi con i quali gli Dèi, e Giove soprattutto, segnalavano le loro intenzioni; sappiamo anche che, più dei Greci, erano gli Etruschi a coltivare uno studio ben preciso di interpretazione dei fulmini, a seconda delle zone del cielo da dove apparivano.
Sicuramente un poeta dell'ottavo secolo a.C. si sarebbe ben guardato dal fare ironie, anche attraverso i suoi personaggi, sul significato dei fulmini; ben invece l'avrebbe potuto fare un poeta dell'età alessandrina, quando ormai l'aspetto scientifico, e non divinatorio, dei fulmini era stato determinato.
Nella notte che segue la battaglia, il tronfio Agamennone, che si era vantato di poter vincere anche senza Achille, ora è a sua volta afferrato dalla paura, giungendo a proporre ai re alleati, un'indecorosa ritirata :
“... S'assisero, levossi Agamennòne. / Lagrimava simile a cupo fonte / Che tenebrosi da scoscesa rupe / Versa i suoi rivi; e dal profondo seno / Messo un sospiro, cominciò: Diletti /Principi Argivi, in una ria sciagura /Giove m'avvolse. Dispietato! Ei prima /Mi promise e giurò che al suol prostrate / D'Ilio le mura, glorioso in Argo /Avrei fatto ritorno; ed or mi froda!..”.
E, sembra facile..., vuol dire Omero, cantar vittoria prima della battaglia: per quanto segnata dal destino, Troia è ancora molto forte e darà filo da torcere, pur con forze inferiori della metà, rispetto a quelle achee. Agamennone vuol ritirarsi, Diomede gli rinfaccia la sua paura. Anche Nestore, forse perché prima salvato da lui, sostiene le argomentazioni di Diomede. Dunque, la guerra continua. Dunque, la paura è la prima nemica da affrontare e battere. Gli eroi omerici non sono ottusi imbecilli o dei pitecantropi incoscienti, bensì uomini che, più o meno fisicamente forti, sanno che il coraggio non è innato, ma è una conquista.
Trattando dell'ira, avevo iniziato a descrivere la lotta fra Achille ed il fiume Scamandro, nel Libro XXI. Qui è occasione di far vedere che anche l'ottusamente feroce e sanguinario re dei Mirmidoni può soffrire la paura di fronte a chi è più forte di lui:
“... Fuor balza allor l'eroe dalla vorago, / E messe l'ali al piè, nel campo vola / Sbigottito. Né il Dio perciò si resta, / Ma colmo e negro rinforzando il flutto / Vie più gonfio l'insegue, onde di Marte / Rintuzzargli le furie, e de' Troiani/ L’eccidio allontanar. Diè un salto Achille / Quanto è il tratto d'un 'asta, ed il suo corso / Somigliava il volar di cacciatrice / Aquila... / Scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo / Con più spesse e sonanti onde l'incalza!... così sempre insegue / L'alto flutto il Pelìde, e lo raggiunge / Benché presto dipiè .../ Conturbato nell’alma egli non cessa D'espedirsi e saltar verso la riva.../ Levò lo sguardo al cielo il generoso / Ed urlò: Giove padre, adunque nullo / De' numi aita l'infelice Achille / Contro quest'onda... Oh, foss'io morto / Sotto i colpi d'Ettorre, il più gagliardo / Che qui si crebbe...”
Intervengono in soccorso Minerva e Nettuno, rafforzati dall'azione di Vulcano, proprio quando lo Scamandro si incontra col Simoenta, e i due Fiumi decidono di farla finita con le arie eccessive dell'eroe. Ma le fiamme lanciate da Vulcano riducono di gran lunga la potenza delle acque che si mettono a bollire (e il povero Achille non rischia di finire prima che annegato, lesso e bollito ? piccole licenze poetiche...) .
La paura agisce anche fra i Troiani. Vediamo qui Ettore nel suo duello finale con Achille, il terrore che lo spinge a fuggire, la vergogna come presa di coscienza che la paura va dominata. Siamo al Libro XX, dopo l'uccisione del troiano Polidoro da parte di Achille:
“Come in quell'atto miserando il vide / Il suo germano Ettorre, una profonda / Nube di duolo gl'ingombrò le luci / Né gli sofferse il cor di più ristarsi / Dentro la turba; ma crollando immensa / Una lancia, volò contro il Pelìde / Come fiamma ondeggiante. A quella vista / saltò di gioia Achille, e baldanzoso, / Ecco l'uomo, disse, che nel cor m'aperse / Sì gran piaga... / or non piùfuggiremo /.. al divino Ettor bieco guatando, / Gridò: T'accosta, ché al tuo fin se' giunto. / Non pensar, gli rispose imperturbato / L'eroe troiano, non pensar di darmi / Per minacce terror come a fanciullo , ...”
Questo primo scontro si conclude con la salvezza di Ettore, portato via da Apollo, mentre la brava Minerva agisce a favore di Achille. Ma, nel Libro XXI, ormai tutto l'esercito troiano è in rotta e cerca di ripararsi tra le mura, mentre Achille, ripresosi dallo choc fluviale, ricomincia le stragi inseguendo i Troiani; tuttavia viene distolto da Apollo che permette la loro salvezza, con l'esclusione di Ettore rimasto chiuso fuori delle mura. Vanamente il padre Priamo cerca di convincerlo a salvarsi anche lui. Anche la madre Ecuba cerca di fare lo stesso, mostrando anche il suo seno nudo. Ancora una volta, Omero dimostra di essere poeta supremo, e spiega, in tempi nei quali la psicologia era scienza tutta da inventare, con maestria, i pensieri tormentosi di Ettore, da un lato colpito dalla paura della quasi certa vittoria di Achille e delle conseguenze terribili che ciò comporterà alla sua Città; dall'altro la sua volontà di dimostrare a sé ed ai concittadini ciò che il padre stesso gli aveva detto : "Ah, bello è in campo del giovane il morir" (l'oraziano "dulce et decorum est pro patria mori'), essere ciò che Foscolo, alla fine dei "Sepolcri" ne disse:"E tu, onore di pianti Ettore avrai, finché fia santo e lacrimato il sangue per la patria versato, finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane”
Eccoci dunque al momento finale :
“Questi preghi di lagrime interrotti / Porgono al figlio i dolorosi, e nulla / Persuadon l'eroe che fermo attende / Lo smisurato già vicino Achille ... / ... sta saldo; e nel gran cor rivolge / Questi pensieri: Che farò? Se metto / Là dentro il piè, Polidamante il primo / Rampognerammi acerbo ei che la scorsa / Notte esortommi alla città ritrarre, Comparso Achille, i Teucri; e io nol feci: / E sì quest'era il meglio.../.. meglio allor mi fia / Combattere, e redir, prostrato Achille / Nella cittade, o per la patria mia / Aver qui morte gloriosa io stesso...”
Dopo aver soppesato ogni possibilità, come farebbe ogni buon comandante nel momento determinante della battaglia, Ettore attende a piè fermo l'arrivo del nemico: . .
“...A donzellette adunque ed a garzoni / Le dolci fole, ame la pugna; e tosto / Vedrassi cui darà Giove la palma. / Cosi seco ragiona, e fermo aspetta. /
Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce / Dell'elmo agitator Marte simìle. /... Il riconobbe / Ettore, e freddo corsegli per l'ossa / Un tremor, né aspettarlo ei più sostenne, /Mal lasciate le porte a fuggir diessi / Atterrito. Spiccossi ad inseguirlo /Fidato Achille ne' veloci piedi ... / ... Il fuggitivo è forte / Ma più forte e più ratto è chi l'insegue, / E d'un tauro non già, né della pelle / Si gareggia d'un bue; premio a veloce / Di corsa vincitor, ma della vita / Del grande Ettorre... / ... così tre volte / Dell'ilìaca città fer questi il giro / Velocemente...”
Vanamente Ettore tenta di infilarsi dentro una delle porte, ma Achille riesce ad impedirglielo: Giove pesa sulla sua bilancia i due destini, e quello di Ettore precipita. Mentre Apollo rinuncia ormai a difenderlo, Minerva, dopo aver incoraggiato Achille sulla vittoria finale, assume l'aspetto del troiano Deìfobo, convincendo Ettore a fermarsi e ad affrontare in due il nemico. Ettore cade nel tranello, si ferma, cerca di contrattare con Achille almeno la sorte del corpo di colui che sarà vinto, ma Achille gli risponde che tra i due non vi è alcun margine di discussione. Dopo il reciproco lancio delle armi, fallito per ambedue, Ettore chiama in aiuto Deìfobo, ormai scomparso: si accorge così della finzione di Minerva e si rende conto della fine:
“... Or mi raggiunse / La negra Parca. Ma non fia per questo / Che da codardo io cada: periremo, / Ma gloriosi, e alle future genti / Qualche bel fatto porterà il mio nome...”
E’ proprio all'umanissimo Ettore, all'eroe troiano che il greco Omero attribuisce (cosa assai strana per chi ragionasse in termini di parte nazionalistica o localistica) il massimo livello di lotta interiore tra senso dell'onore, coraggio e paura, paura che - e qui Omero molto può ancora insegnare a chi si immagina eroi “senza macchia e senza paura” - è inevitabilmente presente in ogni situazione di pericolo per ciascun uomo, perchè nessun uomo potrebbe essere talmente forte, da non trovare uomini, singolarmente o in gruppo, ben più forti di lui. Un agonismo stoltamente materialista ha diseducato, in questi ultimi decenni, i giovani, facendo credere che esistano campioni “imbattibili”: ora nessuno è imbattibile, nessuno può vantarsi di non aver motivi di paura. Ciò che conta è saper affrontare il rischio, consapevoli delle difficoltà ma anche della propria dignità da tutelare e da far rispettare .
Ed ora veniamo ad altri sentimenti, soprattutto l'amore erotico o sensuale, l’amore coniugale, l'amore dei genitori verso i figli, l’amore verso la vita normale, quotidiana, e l'amore dell'uomo verso gli animali e reciprocamente dell'animale verso l'uomo. Sul primo tipo d'amore, il modello classico in Omero è il rapporto tra Paride ed Elena, nell' “Iliade”, quello della maga Circe e della ninfa Calipso nell' “Odissea”. Paride Alessandro ("salvatore di uomini”), figlio di Priamo, il rapitore di Elena è una figura di "simpatico mascalzone".
Ben prima, e ben più simpaticamente dei celebri “figli dei fiori”degli Anni Sessanta del secolo XX, Paride è un sostenitore del motto ''fate l'amore, non fate la guerra". Tuttavia, quando entra in campo, da abilissimo arciere, riesce a compiere sul nemico danni gravissimi. A lui si dovrà, seppur tardivamente, la morte di Achille colpito da una sua freccia al tallone, l'unico punto mortale (prescindendo dalla situazione mitica, doveva trattarsi di una freccia avvelenata, per poter riuscire mortale): se vi fosse riuscito prima della morte di Ettore, per gli Achei sarebbero stati guai seri, ma allora addio leggenda! Siamo, dunque, al Libro VI, quando Ettore, rientrato provvisoriamente a Troia,prima di incontrare la moglie Andromaca ed il figlioletto Astianatte si reca da Elena (8) e Paride, rimproverandolo di non essere sul campo di battaglia:
“Cosi l'invase: Sciagurato / il core / Ira ti rode, il so: ma non è bello / Il coltivarla. Intorno all'alte mura / Cadono combattendo i cittadini / E tanta strage e tanto affar di guerra / Per te solo s'accende; e tu sei tale / Che altrui vedendo abbandonar la pugna / Rampognarlo oseresti... / Bello, siccome un Dio, Paride allora / Così rispose: Tu mi fai, fratello, / Giusti rimprocci, e giusto al par mi sembra / Ch'io ti risponda, e tu mi porga ascolto. / Né sdegno né rancor contra i Troiani / Nel talamo regal mi rattenea, / Ma desir solo di distrarre un mio / Dolor segreto. E in questo punto istesso / Con tenere parole anca la moglie / M 'esortava a tornar nella battaglia, / E il cor mio stesso mi dicea che questo / Era lo meglio: perocché nel campo / Le palme alterna la vittoria. Or dunque / Attendi che dell'armi io mi rivesta... /... e nulla gli rispose Ettorre; / A cui molli volgendo le parole / Elena soggiugnea: Dolce cognato / Cognato a me proterva, a me primiero / De' vostri mali detestando fonte, / Oh, m 'avesse il dì stesso in che la madre / Mi partoriva, un turbine divelta / Dalle sue braccia, ed alle rupi infranta, /... Stata almeno foss'io consorte ad uomo / Più valoroso, e che nel cor più addentro / I dispregi sentisse e le rampogne. / Ma di presente a costui manca il fermo / Carattere dell'alma, e non ho speme / Ch'ei lo s'acquisti in avvenir...” .
Ettore respinge l'invito di Elena a riposarsi un poco nelle sue stanze, in attesa che il fratello si armi (in realtà Paride è armato alla leggera, da arciere, e non gli serve molto tempo), perché deve recarsi dalla moglie e dal figlio:
“Cortese donna, le rispose Ettorre, / Non rattenermi. Il core, impaziente / Di dar soccorso a' miei che me lontano / Richiamano, fa vano il dolce invito. / Ma tu di cotestui sprona il coraggio, / Onde s'affretti ei pure... /... Veloce / Corro intanto a' miei lari a veder l'uopo / Di mia famiglia, e la diletta moglie / e il pargoletto mio, non mi sapendo / se alle lor braccia tornerò più mai, / O s'oggi è il dì che decretar gli Eterni / Sotto le destre achee la mia caduta... /... e giunge .../ Alla eccelsa magion; ma non vi trova / La sua dal bianco seno alma consorte; / Ch'ella col caro figlio e coll’ancella / In elegante peplo tutta chiusa / Sull'alto della torre era salita:/ e là si stava in pianti ed in sospiri. / Come deserta Ettòr vide la stanza / Arrestossi alla soglia, ed alle ancelle / Volto il parlar...Andromaca dov’è?. ...”
Saputo dalle schiave che Andromaca è andata per cercar di vederlo dalle mura, corre incontro a lei: qui, è uno dei punti sommi dove l'amore coniugale e l'amore paterno coesistono, espressi insieme con rara sensibilità:
“... Onde al campo è l'uscita, ecco d'incontro / Andromaca venirgli, illustre germe d'Eezione, abitator dell'alta Ipoplaco selvosa... / Ei ricca di gran dote al grande Ettorre / Diede a sposa costei ch'ivi allor corse / Ad incontrarlo; e seco iva l'ancella / Tra le braccia portando il pargoletto / Unico figlio dell'eroe troiano (9) , / Bambin leggiadro come stella. Il padre / Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto / Astianatte, perché il padre ei solo / Era dell’alta Troia il difensore. / Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque. / Ma di gran pianto Andromaca bagnata / Accostossi al marito, e per la mano / Strignandolo, e per nome in dolce suono / Chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito / il tuo valor ti perderà: nessuna / Pietà del figlio né di me tu senti / crudel, di me che vedova infelice/ Rimarrommi tra poco.../ Or mi resti tu solo, Ettore caro / Tu padre mio, tu madre, tu fratello/ Tu florido marito. Abbi deh dunque/ Di me pietade , e qui rimanti meco… / Dolce consorte, le rispose Ettorre/ ciò tutto che dicesti a me pur anco / Ange il pensier; ma de’ Troiani io temo / Fortemente lo spregio.../ ... non mi accora, o donna/ Sì di questi [fratelli ed amici] il dolor, quanto il crudele Tuo destino se fia che che qualche Acheo ancor de' tuoi lordo l'usbergo, / Lagrimosa ti tragga in servitude... / Ma pria morto la terra mi ricopra / Ch’io di te i lai pietosi intenda. / Così detto, distese al caro figlio L’aperte braccia. Acuto mise un grido / Il bambinello, e declinato il volto, / Tutto il nascose alla nudrice in seno, / Dalle fiere atterrito armi paterne / E dal cimiero che di chiome equine/ / Alto su l'elmo orribilmente ondeggia. /Sorrise il genitor, sorrise anch’ella/ La veneranda madre: e dalla fronte /L’intenerito eroe tosto si tolse / L'elmo, e raggiante sul terren lo pose. / Indi baciato con immenso affetto/ E dolcemente tra le mani alquanto/ Palleggiato l’infante, alzollo al cielo, / E supplice sclamò: Giove pietoso / E voi tutti o Celesti, ah concedete / Che di me degno un dì questo mio figlio / Sia splendor della patria, e de’ Troiani / Forte e possente regnator. Deh fate/ Che il veggendo tornar dalla battaglia/ Dell'armi onusto de' nemici uccisi/ Dica talun: Non fu sì forte il padre : / e il cor materno nell'udirlo esulti...”
Malgrado i nostri tempi scettici e materialistici ideati da una classe politica funesta e tristissima, possiamo noi non restare ancora commossi al rileggere questi versi che spesso imparammo a memoria, quando nelle scuole medie italiane, di stampo gentiliano, si studiavano quasi integralmente i poemi omerici ? Non so se oggi, ai ragazzini diventati provetti telefonisti e centralinisti autori di messaggini e messaggetti, sms et similia, simili parole continuano a commuovere: ma se così non fosse, sarebbe meglio per tutti tornare alle antiche letture, piuttosto che rimbecillirsi scrivendo o leggendo frasi insulse (10)! Comunque sia, la forza della classicità consiste nella sua perenne attualità: e la scena dei due giovani genitori che si incontrano giocando col loro bambino dà una sensazione di malinconia e di dolcezza inarrivabili.
L'espressione dei sentimenti assume caratteri diversi nell' ‘Odissea’ : qui non ci importa tanto sapere se questo poema fu scritto o cantato da un Omero vecchio e disilluso, o piuttosto da un'altra persona Come stile, mi sembra più probabile che l' ‘Odissea’ abbia mantenuto un maggior legame col poema originario. Trascende talvolta nella rozzezza, se non nella volgarità; sembra mancare o scarseggiare quel lavoro di cesello compiuto dai logografi di Alessandria Riguardo alla traduzione qui non mi rifarò alla classica del Pindemonte, bensi alla versione in prosa di Giuseppe Tonna (11) . A proposito dell'amore sensuale ed erotico, ecco come viene reso in tale versione (sicuramente, più corretta filologicamente, ma assai meno espressiva rispetto alla traduzione pindemontiana) l'amore della ninfa Calipso, che riesce a trattenere prigioniero Ulisse, finché gli Dèi non le ordinano di lasciarlo andare, e quello di Circe, la maga che trasforma in porci gli uomini con cui ha legami appunto di tipo fisico: la "suinità" rappresenta l'estrema decadenza morale dell'uomo che si fa manipolare dalla capacità di attrazione sessuale.
Nel Libro V viene infatti descritto l'incontro tra il messaggero degli Dèi Ermes (Mercurio) e la ninfa :
"... arrivò alla grotta dove abitava la ninfa dalle belle chiome. La trovò là, era dentro. Un granfuoco ardeva sul focolare, e si diffondeva per l'isola, lontano un odore di fragile cedro e di oleandro che bruciavano. Ella dentro cantava con bella voce e movendosi davanti al telaio verticale tesseva in piedi con la spola d 'oro..." (12)
Dopo aver ammirato l'ambiente circostante, allora incontaminato ma non selvaggio, Ermes entra nella grotta:
“... se lo vide di fronte e subito lo riconobbe Calipso, la divina tra le dee: ché non sono sconosciuti gli uni agli altri gli dei immortali...
Ma il magnanimo Odisseo, dentro non lo trovò: egli sulla spiaggia piangeva, seduto là dove era sempre, straziando il cuore con lacrime e sospiri e affanni. Guardava spesso il mare...”.
Ulisse, insomma, era ugualmente diviso tra il restare con la bella ninfa e la sempre più forte nostalgia della terra natale e della famiglia. In quanto alla ninfa Calipso, essa accoglie con simpatia Mercurio e gli offre l'ambrosia, il cibo degli Dèi; poi egli le spiega il motivo della sua venuta, ovvero che lasciasse che Ulisse ritorni in patria. Calipso risponde che gli Dèi sono crudeli, perché, dopo averlo perseguitato, mentre ella lo aveva accolto e ristorato e voleva renderlo immortale come gli stessi Dèi, ora vogliono rimandarlo a casa. Mercurio ribadisce l'ordine e la minaccia in caso di disobbedienza:
“... Cosi diceva, e se ne andò il forte Argicida. E lei si recava dal magnanimo Odisseo...
Lo trovò seduto sulla riva del mare: i suoi occhi non erano mai asciutti di lacrime. Gli si consumava la dolce vita così, nel sospirare il ritorno, giacché la ninfa non gli piaceva più [detto di passaggio, un bell'egoista, tipico marinaio...]. Di notte soleva dormire sia pure per forza nella grotta profonda accanto a lei innamorata, e non aveva voglia: ma di giorno sedeva sugli scogli e sul lido straziando il cuore con lacrime e sospiri e affanni, e guardava spesso sullo sterile mare e piangeva...” .
Secondo l’ordine di Zeus, Calipso lo conforta dicendogli di partire dopo aver costruito una zattera abbastanza solida; Ulisse teme un qualche inganno, ma la ninfa gli giura che non gli creerà nessun impedimento:
“E a lei rispose il saggio Odisseo: 'Dea sovrana, non irritarti con me per questo: lo so anch'io, e bene, che la mia sposa Penelope è da meno di te per aspetto e statura. Lei è donna mortale, tu invece immortale ed esente da vecchiaia. Ma anche così desidero e sospiro tutti i giorni di andare a casa e vedere il dì del ritorno...”.
Eppure, malgrado tanta ‘sincera’ nostalgia per la sua vecchia Penelope, il furbacchione non si impedisce di godere ancora delle grazie della ninfa Calipso :
“... E intanto il sole andò giù e venne buio. Entravano essi nella parte più interna della caverna profonda, e godevano del loro amore stando vicini l'uno all'altra...”
Dopo cinque giorni di lavoro per costruire la zattera e munirla di vettovaglie, dopo essersi - per giunta ! - fatto lavare e vestire (i signori del tempo consideravano faticoso o poco onorevole farlo da soli), sentite le ultime raccomandazioni di Calipso, Ulisse parte, dopo quasi otto anni di permanenza (per un prode marinaio, un po' troppo, povero infelice maltrattato dalla sorte !).
Giunto all'isola dei Feaci, dove cade sotto le cure di una fanciulla, Nausicaa egli racconta ai suoi ospiti le disavventure nelle quali era incorso: parla anche dei Lestrigoni, dei Ciclopi e di Polifemo, che vedremo tra poco; ma qui ci interessa, sempre relativamente all’amore sensuale, Circe, la maga figlia del Sole :
“... Arrivammo all’isola di Ea. Qui abitava Circe riccioluta, la tremenda dea che ha voce umana...
Ma quando Aurora dalle belle chiome portò il terzo giorno, io presi la mia lancia e la spada acuta... Salii in vetta a un monte sassoso e mi fermai: e mi apparve fumo su da terra - era della casa di Circe - attraverso le fitte boscaglie...
Trovarono nelle valli il palazzo di Circe... E intorno ad esso c'erano lupi di montagna e leoni che lei aveva stregato, dando loro droghe maligne...
Si fermarono nell'atrio della dea dalle belle chiome. Sentivano Circe cantare dentro con voce soave, mentre tesseva una tela grande immortale...
Ella ben presto uscì aprendo i lucidi battenti della porta, e li invitava dentro… Li faceva entrare. Li mise a sedere sulle sedie e sugli alti seggi. E per loro mescolava formaggio e farina d'orzo e miele verde con vino di Pramno, e univa a quel cibo droghe malefiche...
E dopo che glielo diede ed essi l'ebbero bevuto, subito poi li colpiva con la sua verga e li chiudeva nei porcili. Ed essi avevano, dei maiali, le teste e la voce, le setole e l'aspetto, ma la mente era immutata... Così stavano rinchiusi e piangevano. A loro Circe gettò innanzi ghianda di leccio e ghianda di quercia...”
Euriloco, il capo di quel gruppo finito nella trappola di Circe, era però riuscito a sfuggirle e, terrorizzato e quasi ammutolito, era rientrato nel campo, narrando a fatica il triste evento. Ulisse decide di avviarsi dalla maga, ed avrebbe fatto la medesima fine degli altri, se Ermes non gli si fosse fatto incontro e non gli avesse dato modo di vincere le magie di Circe. Come al solito l’eroe astuto era anche fortunato, potendo poi, anche in questo caso, godersi le grazie della strega:
“... [Ermes gli dice] Io ti voglio liberar dai guai... con questo farmaco benigno vai dentro il palazzo di Circe... Ti preparerà un beveraggio, ci metterà dentro delle droghe: ma neppure così riuscirà a stregarti. Non lo permetterà il farmaco ... Quando ti percuoterà con la sua lunghissima verga, tu traiti dal fianco la spada..., come se volessi ucciderla. Ella t'inviterà, spaurita, a giacere, con lei. Allora tu non rifiutare il letto della dea... imponile di giurare il solenne giuramento degli dei beati... Eviterai che, una volta spogliato, ti renda vile e imbelle...”
Ciò infatti avviene; Circe lo riconosce come Ulisse proprio perchè ha saputo sfuggire i suoi trucchi, e lo invita ad un rapporto sessuale: “... e noi due poi saliamo sul nostro letto!Uniti in amor, avremo fiducia l’uno dell'altra”.
L'astuto Ulisse subodora, come preavvisatogli da Ermes, qualche altro inganno e le rinfaccia di aver trasformato i suoi guerrieri in porci; perciò, prima di lasciarsi andare tra gli amplessi, le impone il giuramento sacro. Tanto per cambiare, si fa lavare e pulire da Circe e dalle sue ancelle; ma siccome l'eroe è ancora pensoso e preoccupato per i suoi compagni, glieli fa vedere, belli e grassi, e li ritrasforma in uomini con un unguento, addirittura più belli di prima. E, malgrado tutte le nostalgie, i bravi ragazzoni se ne stettero un anno come ospiti di Circe: Ulisse, il favorito, dormiva con lei, gli altri - possiamo supporlo - con le sue ancelle (insomma, non sempre l’ “odissea” ha aspetti negativi...) .
Per sapere poi il proprio futuro, Ulisse, su consiglio di Circe, si reca nell'Oltretomba, dove tra i vari personaggi incontra un Achille ben diverso dallo sterminatore impietoso dell' “Iliade”: è proprio da lui che viene un rabbioso ed esasperato elogio della vita normale, pacifica, lontana da ogni eroismo (siamo al Libro XI) :
“... Prima, da vivo, ti onoravamo come un dio, noi Argivi: ed ora che sei qui, hai un grande potere sopra i defunti. Perciò non rattristarti di essere morto, o Achille”.
Così parlavo. Ed egli subito mi disse: “Non volermi consolare della morte, glorioso Odisseo. Preferirei da vivo e sulla terra essere servo di un altro, stare presso un uomo povero e che non avesse molti mezzi, piuttosto che dominare su tutti i defunti...”(13) .
Achille poi chiede di suo figlio, Pirro-Neottolemo, altro massacratore, anche di bambini (è colui che scaglia dalle mura il figlio di Ettore Scamandrio-Astianatte) e del padre Peleo, ma poco su quest'ultimo poteva dire Ulisse.
Ed ora, andando alla conclusione, esaminiamo ancora due episodi, uno dell'amore dell'uomo (nel caso specifico il pur mostruoso Polifemo) verso gli animali e quello, commoventissimo, dell'amore di un animale (il cane Argo) verso il suo padrone Ulisse.
Come ben sappiamo, l'incontro di Ulisse e dei suoi guerrieri con i Lestrigoni e i Ciclopi non è certo allegro, né con piacevoli aspetti come quello con Circe, Calipso o Nausicaa. Infatti, sia i primi che i secondi (ambedue dalla corporatura gigantesca) hanno il vezzo di nutrirsi di quegli omiciattoli (e che fossero stati valorosi combattenti sulla pianura di Troia ad essi non interessa, preferendo sgranocchiarli come biscotti o come antipasti). Trovandosi, Ulisse ed i suoi, rinchiusi nella caverna di Polifemo, Ulisse medita uno stratagemma: prima lo ubriaca, quindi con un tronco infiammato ed appuntito lo acceca. Rimane tuttavia il problema di spostare il macigno che, a mo' di porta blindata, serve a Polifemo per chiudersi in casa senza essere disturbato: l'unico modo è quello di sfuggire alle mani di Polifemo aggrappandosi al vello della pancia dei caproni, mentre Polifemo li conta prima di farli uscire. Poiché il gigante monocolo li accarezza sul dorso, Ulisse riesce a sfuggire con gli ormai pochi sopravvissuti con quel sistema:
“... Il loro padrone, tormentato da spasimi atroci, tastava con le mani la schiena di tutte le bestie che si arrestavano davanti a lui, diritte...
Ultimo dell’intera mandra s'avviava fuori l’ariete, gravato com'era dal pelame e più ancora da me che le pensavo tutte [sempre modesto...]. E a lui, palpandolo, diceva il gagliardo Polifemo: “Ariete caro; perché ti sei mosso attraverso la caverna così per ultimo? Di solito non mi esci restando indietro dalle altre bestie, ma il primo sei sempre a pascolare i teneri germogli dell'erba, camminando a gran passi, il primo a giungere alle correnti dei fiumi, il primo ad aver voglia di tornare alla stalla verso sera. Ora invece l'ultimo dì tutti! Tu certo rimpiangi l'occhio del padrone. Glielo rese cieco un uomo dappoco, insieme a miserabili compagni, domandogli il cuore con del vino. Nessuno fu [va ricordato che Ulisse, meditando le sue solite furbesche mascalzonate gli aveva detto di chiamarsi “Nessuno”]. Ma io dico che non è sfuggito ancora alla morte! Oh, se tu avessi il mio sentimento, se non ti mancasse la parola, così da dirmi dove costui cerca di evitarmi la collera...”.
Una volta in salvo, Ulisse gli si rivela e lo deride, ma poco manca che i macigni, scagliati dal pur cieco Polifemo, non gli colassero a picco la nave.
Sappiamo che, una volta arrivato in incognito ad Itaca, Ulisse non è riconosciuto da alcuno: solo l'antica nutrice, lavandogli i piedi, lo riconosce da una vecchia cicatrice: l'eroe tuttavia la obbliga con minacce a stare zitta. La stessa Penelope, con tutto il suo amore per Ulisse, che dimostra facendo e disfacendo una tela (promette ai Proci, i suoi pretendenti, che ne avrebbe scelto uno come marito solo dopo aver finito una tela mortuaria per il vecchio Laerte), dimostra una certa meschinità: non ha il coraggio di allontanare quei signorotti incapaci e parassiti che si stanno divorando il patrimonio del marito, ma non vuole neppure prendersene uno, perché teme, nell'eventuale ritorno del marito, che costui la punisca, come infatti punì tutti gli infedeli. Ma vi è qualcuno che, senza alcun interesse, senza alcun timore, senza curarsi di alcun beneficio, perché ormai vecchio nessuno si cura di lui, per quel puro “altruismo” che solo gli animali sanno donare, attendeva il padrone, e lo riconosce prima dell'ultimo respiro, ed è il cane Argo. Qui è il punto più alto, sul piano etico ed estetico, dell'intera “Odissea”, per il resto un cumulo di episodi incredibili e non sempre forniti di quell'ironia, quasi socratica, spesso presente nell' “Iliade” :
“... Così essi parlavano tra loro. E un cane levò in su la testa e le orecchie, pur rimanendo sdraiato. Era Argo, il cane del paziente Odisseo, che un giorno egli si era allevato, ma non se lo potè godere: partiva prima per la sacra Ilio. In un altro tempo se lo menavano i giovani a caccia... Allora giaceva abbandonato, poiché era lontano il suo padrone, su di un mucchio di letame...; davanti alla porta del cortile esso stava raccolto in abbondanza, fino a quando i servi di Odisseo lo portavano via...
Là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, appena sentì che gli era vicino Odisseo, prese a dimenare la coda e lasciò cadere tutte due le orecchie: ma andargli più da presso, al suo padrone non potè. E lui si volse a guardare da un'altra parte: si asciugò le lacrime senza farsi scorgere da Eumeo. E subito gli chiedeva: 'Eumeo è una meraviglia questo cane che giace sul letamaio. Bello è di corpo, ma non so bene se era anche veloce a correre, oltre ad avere questa sua bellezza, oppure se era cosi come i cani da mensa... '.
E a lui rispondevi, Eumeo porcaro. “Oh, sì, è il cane questo di un uomo morto lontano. Se fosse ancora, nel corpo e nella bravura, quale lo lasciava Odisseo partendo per Troia, subito lo ammireresti... Ora è oppresso dalla miseria: il suo padrone morì lontano, le ancelle negligenti non lo curano...”'. Così parlava ... Ed Argo lo colse il destino della nera morte, non appena ebbe veduto Odisseo dopo venti anni...”
Quanto sarebbe opportuno che molti individui, quelli che abbandonano cani, quelli che li torturano, quelli che li trascinano per la strada come se dovessero strozzarli dimostrando un amore veramente appassionato per il loro animale, non lasciando che essi svolgano le loro funzioni fisiologiche (vorrei vederli loro, invece di poter recarsi al gabinetto, quando è necessario, essere trascinati con forza rabbiosa per la strada...), rileggessero questi versi d'Omero e li meditassero, riconoscendo finalmente che il peggiore dei cani è migliore di loro. Quanti scrivono il classico “cave canem” (e frasi analoghe) dovrebbero piuttosto scrivere la frase “Non canem, sed dominum suum cave” (per chi non conoscesse il latino, traduco: “Non dal cane, ma dal suo padrone, guàrdati!”) .
Che ci resta da dire ? Omero, anche se non fu un poeta unico o se fu la voce collettiva dell'antica Grecia, come ritenne Vico, è comunque splendido Poeta, che ha saputo descrivere i sentimenti dell'uomo, belli o brutti che fossero, con una tale efficacia da essere forse imitabile, ma difficilmente superabile, sia per la ricchezza di dettagli, pur espressa in modo semplice, sia per la profondità e realtà di questi sentimenti. Malgrado volesse descrivere Dèi, Semidei ed Eroi, egli colse sempre in ogni essere, perfino in taluni animali, l'umanità o spiritualità, nei suoi limiti e nel suo realismo: realismo che non è adeguamento a volgari bassezze, ma intuizione della Realtà più grande alla base della vera Arte e della vera Poesia.
NOTE
(1) Relativamente ai confronti, pur dovendosi considerare pressoché contemporanei Omero ed Esiodo, non vi è dubbio, almeno per me, che il prino presenti ricchezza di stili ben superiore al secondo, sebbene Esiodo venga considerato. quasi l'iniziatore di forme “filosofiche” (che meglio sarebbe dire “pre-filosofiche”), ma che in fatto di arte poetica, di estetica, di varietà nell'esposizione, è largamente superato da Omero, non tanto dall'Omero forse effettivamente esistito, quanto dall'Omero cosi come ci appare dalle rielaborazioni subìte nel periodo alessandrino.
(2) Mi riferisco alla classica traduzione di Vincenzo Monti, riportata nell'edizione Newton-Compton (Roma, 2000). Se, per dirla con la illustre cattedratica di cui sopra si è accennato, la traduzione montiana è alquanto “datata”, sicuramente se viene ancora pubblicata, letta e venduta, significa che i traduttori moderni, almeno in poesia, non hanno saputo fare nulla di meglio. Del resto, alla stessa cattedratica a cui si è accennato e che non nomino, sia per cavalleria, sia per non svelare gli attuali bassifondi della cultura universitaria oggi vigente in certe Facoltà, rispondo con un certo sarcasmo che, poiché tutte le pubblicazioni obbligatoriamente devono riportare una data, sono necessariamente “datate”: ciò non significa che siano necessariamente obsolete.
Tra l'altro, una delle caratteristiche di una cultura veramente classica è quella di non tramontare mai, di non perdere mai la propria validità.
(3) Non solo nella descrizione dell'ira, ma per ogni altro sentimento, Omero evita ogni esaltazione “nazionalistica”. Basterebbe confrontare l’ “lliade” all’ “Eneide” ed ai poemi cavallereschi del Medioevo per capire l'enorme differenza di atteggiamento e, diciamolo pure, la "modernità" d'Omero rispetto ad altri poemi epici. Se non fosse per la lingua, i contenuti espressi dal cantore esulano completamente da ogni tipo di esaltazione nazionale: si potrebbe dire che, al di là del bellissimo stile, egli sia un cronista imparziale di una guerra lontana. Anche sul tema della paura, vedremo che i suoi Eroi semidivini e gli stessi Dèi non sono affatto esenti dalla paura. Omero ci insegna che l'apparente coraggio è spesso dato solo dalla consapevolezza di una superiorità fisica o militare, mentre al contrario la paura appare quando tale superiorità cessa. Il vero coraggio, che è quello di affrontare il nemico in condizione di consapevole inferiorità, non è che il saper vincere o controllare il proprio timore, l'istinto inevitabile alla fuga.
(4) C'è un che di lievemente comico, una sottile ironia in questi interventi dei “tifosi” divini: con i loro “superpoteri”, si divertono a far dispetti ai mortali: immaginiamoci come potevano restar male questi prodi, ma un po' tonti e rozzi, guerrieri a vedersi togliere di mano la preda che essi ritenevano scontata e ormai presa!
(5) Il mio dubbio sul fatto che “umanità”, “umano”, ecc... siano termini con valenza positiva, piuttosto che negativa, deriva dal fatto che, storicamente ed attualmente (anzi, oggi ben più di un tempo), il comportamento dell'uomo si sia dimostrato assai poco positivo, per episodi quanto mai frequenti di stoltezza, di crudeltà, di abuso del proprio potere, di pessimo uso della razionalità, e così via. Per cui, al termine “umanità”, forse sarebbe meglio sostituire quello di “spiritualità”. Tuttavia, il male nell'uomo non è dato dalla sua materialità o fisicità, quanto proprio dalla pessima applicazione dei principi datigli dalla sua stessa spiritualità. L'uomo, dunque, rimane un enigma, in cui convivono insieme, in lotta perpetua (zoroastriana), la volontà del Bene e la cupidigia del Male.
(6) Tersite è gobbo e calvo, segno che non solo alla visita sarebbe stato scartato in tempi di leva obbligatoria, ma ha anche sicuramente una certa età. Non ha alcuna forza fisica e poi alla fine, di fronte a ben assestate legnate, si dimostra pure piagnucoloso, facendo ridere tutta l'armata. achea: viene dunque spontaneo chiedersi che ci facesse alla guerra di Troia insieme ai suoi ben più muscolosi compagni. Qui è il segno importante del carattere derisorio che tale figura ha nel poema omerico. Dopo l'episodio di cui è protagonista, di lui non si parlerà più. Ma è interessante notare che, mentre a un re, sia pure in subordine come Achille, era permesso ammutinarsi o disertare, a semplici soldati ciò non veniva concesso.
(7) L' “Anonimo di Giamblico” è un frammento notevole (per qualità, più che per quantità), riportato dal neoplatonico e neopitagorico Giamblico, di età sofistica o socratica, nel quale viene riportata una celebre argomentazione a favore della democrazia: l'Autore, ignoto, sostiene in contrapposizione a Crizia ed altri aristocratici del tempo che, se pure esistesse un uomo fisicamente invincibile rispetto a ciascun altro, egli non potrebbe mai esserlo se dovesse affrontare gli altri uniti insieme contro di lui: in sostanza, la maggioranza, con la forza del numero e consapevole di tale forza, prevarrebbe sempre contro colui che, convinto della propria invincibilità, volesse affrontare tale maggioranza per soggiogarla .
(8) Su Elena il filosofo Gorgia (il secondo grande sofista, oratore facondo) pronunciò un discorso di encomio, che è una vera apologia - in una società considerata antifemminista come quella greca - non solo di Elena, quale personaggio, comunque giustificata nelle sue scelte, ma della donna in generale, là dove Gorgia esaminando la possibilità che il suo rapimento fosse dovuto a pura violenza, ne trova motivo di comprensione per lei e di disprezzo per l'uomo che l'avesse sottoposta a tale violenza: questo, va ricordato, in tempi ed in un tipo di società, dove la violenza fisica a fini sessuali era considerato il premio dei vincitori, come già largamente appare nell' “Iliade” stessa. Tanto più questo riconoscimento ci può far sottolineare la finezza di pensiero dei cosiddetti sofisti, pensatori che, per tradizione platonica, vengono spesso sottovalutati, se non disprezzati.
(9) Astianatte, ancora piccolo - come raccontano i poemi ciclici e l’ “Eneide” - verrà scagliato dalle mura dal figlio di Achille, Pirro. Può sembrare strano in un poeta greco, ma l'umanità è quasi sempre da lui attribuita ai Troiani, quasi mai ai Greci. ciò si riflette anche in questi poemi minori, non a lui attribuiti.
(10) Oggi il massimo parto poetico d'amore, che colpisce i ragazzi i quali lo trascrivono sui cavalcavi con totale sprezzo del pericolo, è il titolo del film “Io e te tre metri sopra il cielo”, frase sgrammaticata e senza senso, che dovrebbe semmai scriversi : “Tu ed io...”; ma che vuol dire “tre metri sopra il cielo” ? e perché non un metro o cinque metri? Considerato che il cielo viene sentito come infinito, che senso può esservi nello stare sopra per soli tre metri? Sarebbe stato più semplice e bello dire “Tu ed io oltre o al di là del cielo”, ecc. La miseria poetica del nostro secolo, questa si, non ha limiti né di tre metri, né di tre chilometri!
(11) La traduzione del Tonna appartiene all'edizione economica Garzanti (Milano, 1981).
(12) Si osservi quanto più poeticamente traduca il Pindemonte: pensiamo alla ripetizione del Tonna “granfuoco - focolare”,segno che i moderni traduttori fanno fatica a trovare sinonimi o ad usare circonlocuzioni. Ecco il Pindemonte :
“Ma tosto che fu all’'isola remota, / salendo allor dagli azzurrini flutti, / lungo il lido egli sen gìa, finché vicina /s'offerse a lui la spaziosa grotta, / soggiorno della Ninfa il crin ricciuta, / cui trovò il Nume alla sua grotta in seno. / Grande vi splendea foco, e la fragranza / del cedro ardente e dell'ardente tio / per tutta si spargea l'isola intorno...”.
Il lettore si chiederà dunque perché io non utilizzi la traduzione del Pindemonte: per un motivo d'antica data. La traduzione del Pindemonte, in mio possesso, è quella scolastica della Casa Editrice D'Anna, dei bei tempi quando Omero lo si studiava quasi interamente alle Scuole Medie, non ancora unificate (Firenze, 1960), a cura di Athos Sivieri. Ottimamente commentata, l'edizione dei poemi omerici era incompleta, anche per ragioni di una certa pruderie: ai preadolescenti d'allora era vietato leggere episodi spesso crudi, come sono presenti nei due poemi.
(13) A conferma della nota precedente, si veda con quanta maggiore efficacia il Pindemonte esprima lo stesso concetto ed il sentimento di nostalgia verso la vita terrena, anche se “modesta”: “... Non consolarmi della morte, o Ulisse / replicava il Pelìde. lo prima torrei / servir bifolco per mercede, a cui / scarso e vil cibo difendesse i giorni / che del mondo defunto aver l'impero...” Per tradurre poeti e grandi scrittori, bisogna di necessità essere a propria volta grandi poeti o grandi scrittori. La traduzione artistica non può essere fatta rispettando semplicemente regole sintattiche o rendendone il senso letterale .