
Questo è un paragrafo. Fai clic qui per modificarlo e aggiungere il tuo testo.
MANLIO TUMMOLO
LENIN, L’USURPATORE DELLA RIVOLUZIONE RUSSA
ovvero, I Dieci Giorni che avvelenarono il mondo
(Pozzecco di Bertiolo, UD – marzo - aprile 2018)
4. PARTE
NOTE
-
Comprendo in questo sia la Russia asiatica (Siberia, ecc.), sia la Cina il cui governo, comunista di nome, è di fatto trasformato in una tirannia personale e di partito che, rinnegando il socialismo e il comunismo, è divenuto pro-capitalista come nei regimi occidentali. La storia della Cina dimostra come il comunismo, nelle sue giravolte marxiste, nella sua dialettica applicata alla realtà umana e politica, può come Proteo trasformarsi in tutto e nel contrario di tutto (fuorché in una democrazia formale e sostanziale, consapevole e progressiva), adattandosi ai tempi e soprattutto agli sporchi interessi di gruppi e di individui .
-
Anche se non rientra nel tema specifico, va accennato il concetto mazziniano di Repubblica, regime politico-sociale in senso forte, e nella contrapposizione, tipicamente mazziniana, tra repubblicanesimo e socialismo: due concezioni, per certi versi analoghe, ma rovesciate come si può fare per un guanto. Mazzini infatti, intendeva la “Repubblica” in senso proprio e forte come l’Istituzione, il Regime politico e giuridico caratterizzato da tre princìpi: libertà (condizione di responsabilità, in senso sia morale che politico-giuridico), eguaglianza (libertà non solo individuale ma di tutti verso tutti, davanti alla legge ma anche proporzionalità ragionevole tra un minimo ed un massimo nelle condizioni sociali), associazione (in luogo del generico “fratellanza”, come solidarietà tra individui e gruppi), quale garanzia non casuale e contingente per la soluzione del problema sociale, per cui solo tale istituzione del popolo e per il popolo, consapevole dei propri doveri e dei propri diritti, in un universale rispetto dei princìpi morali, può dare valore definitivo alle riforme sociali per il miglioramento spirituale e materiale dell’intera società, piuttosto che una fragile concessione esterna di vantaggi dovuta soltanto a contingenze momentanee. L’istituzione repubblicana, quindi, precede logicamente e cronologicamente la questione sociale, risolvendola in modo certo e definitivo, sia pure in fasi graduali. Res Publica, ossia Cosa Pubblica, Cosa a cui tutti partecipano e devono partecipare, il che coincide con Democrazia, quale governo di popolo consapevole di sé.Viceversa il socialismo, nella sua caratterizzazione generale, è costituito dall’illusione di risolvere la questione sociale anteriormente a quella politica, o addirittura non curandosi delle istituzioni politiche, come se queste fossero del tutto irrilevanti, o ritenendole successive e secondarie all’azione sociale economica. Storicamente, ciò non si è poi realizzato, dimostrando così l’infondatezza logica e pratica di tale assunto, causa non lieve del fallimento di tutti i vari socialismi che si è tentato di instaurare nel pianeta. Sarebbe quindi necessario riesaminare a fondo l’intera tematica, sulla base della logica e dello studio storico, per riuscire veramente a riprendere la marcia del progresso sociale nel mondo, che il capitalismo, in tutte le sue parassitarie forme, ha bloccato o addirittura fatto retrocedere, a partire dalla crisi dell’URSS (il celebre marxiano spettro del Comunismo), che data dagli anni ’80 del XX secolo. Ma, ahimé, ne siamo ben lontani…
-
Andrej Amal’rik non ebbe la fortuna di vedere la fine dell’URSS, perché morì in un incidente automobilistico, non so quanto normale, o provocato o simulato. Egli, in un’opera su Rasputin, si vanta di proprie capacità di previsione. Personalmente, ancor giovane, auspicai più volte il crollo dell’URSS (in quanto universalistico, o tale preteso, sistema comunista) senza fissare date o periodi, ma sulla base di una legge storica, valevole tanto più per le dittature fondate su individui o su partiti, ed espressi in alcuni articoli e recensioni tale previsione negli anni ’70.
-
Il metodo scientifico autentico esige non solo libertà formale, dai divieti di natura politica o religiosa, ma anche sostanziale dalle sollecitazioni, non meno pericolose e forse più, degli interessi tutt’altro che umanitari, dei grandi gruppi finanziari, miranti a convincere su questa o quella tesi, e sui conseguenti investimenti da fare in quei determinati settori. Lo scienziato non deve essere condizionato né dalla violenza politica o religiosa, né dal denaro offertogli per scopi tutt’altro che disinteressati, ovvero economici: deve essere libero con la sola condizione della celebre seconda formula dell’imperativo categorico kantiano: considera l’umanità in te come negli altri sempre come fine, e mai come mezzo; ed altrettanto dicasi per l’intero mondo fisico: agisci sempre per l’autentico bene dell’ambiente, e mai nell’interesse egoistico tuo o di finanziatori ricchi .
-
L’essere umano dipinge se stesso sempre come buono e attribuisce la colpa agli altri in qualunque occasione. Giovanni Pico della Mirandola, ma già prima di lui l’idea era espressa nel Talmùd, sostenne nella sua riformulazione del “Genesi” che Dio creò l’uomo come essere meraviglioso, rispetto agli esseri viventi e anche agli animali a lui più simili, capace di agire e di essere sia nell’estremo limite del Bene, sia nell’estremo limite del male. Così, lo stesso individuo può essere capace delle cose più alte e delle cose più basse, avvicinarsi all’angelo oppure abbassarsi alla pietra. Victor Hugo, nel suo”Notre Dame de Paris”, citò il detto: homo homini monstrum, l’uomo è meraviglia per l’uomo, ma è anche orrore per l’uomo stesso. Non occorre fantasticare l’esistenza di Satana, del Diavolo, o di Ahriman: tutto ciò è già presente nell’essere umano, quando non voglia elevarsi al bene. Secondo molti teorici, rimasti fermi ad un’ideologia pacifista e neutralista a scoppio ritardato per quanto riguarda la Prima Guerra Mondiale, attribuiscono alla formazione degli Stati nazionali in Europa la colpa di varie guerre e guerrette, ma, come si è detto, le guerre esistevano tra Regni e Imperi ben prima che si concepisse lo Stato nazionale e che poi si attuasse in Europa nel corso tra i secoli XVIII e XX. L’idea-base dello Stato nazionale deriva dall’umano principio del limite tra il “mio” (di popolo) e il “tuo” o “vostro” (di altri popoli). Secondo tale dottrina, che le varie utopie e cacotopie clericali, marxiste e anarchiche considerano violente e ”borghesi”, si sostiene che ogni popolo, come ogni persona e famiglia ad un proprio intimo spazio giuridicamente inviolabile, ha diritto ad un proprio territorio delimitato da confini naturali, ovvero geografici, storici e linguistico-culturali: confini, è vero, certo non sempre facili da stabilire, ma comunque garanzia di scurezza per ciascuno dei popoli, quantunque relativa e non assoluta, come ben si sa. Chi attribuisce allo Stato nazionale la colpa delle guerre, dimentica che queste avvengono da millenni e più per pretese universalistiche, che non nazionali. Anzi, è proprio dal progressivo affermarsi di Stati nazionali tra XVIII e XX secolo in Europa, che le guerre, per quanto micidiali per tecnologia della distruzione, si sono ridotte, e non sono aumentate. Le guerre, tendenziali o effettive, a cavallo del secolo XX in Europa sono dovute alla deviazione imperialista sovrannazionale, e non allo spirito nazionale: basti pensare ai lunghi periodi di pace in Europa nell’ultimo trentennio dell’800, ai vent’anni tra le due guerre mondiali, al quasi intero cinquantennio del XX secolo (1945 – 1990). Non è un caso che le prime organizzazioni con fine pacifico, per quanto limitato, si siano chiamate Società delle Nazioni e Organizzazione delle Nazioni Unite, oppure quando si parla di “internazionalismo”, proprio perché il principio nazionale, nella pienezza di sé, è garanzia di pace e non di guerra, senso del limite, e non sopraffazione tra Stati e fra Governi a spese dei popoli. Il concetto nazionale presuppone il concetto democratico, l’autogoverno di un popolo, il rispetto di sé e degli altri, la ricerca della soluzione di problemi socio-economici, non con i neo-nomadismi e le Voelkerwanderungen, ma in se stessi in primo luogo e con gli scambi commerciali in secondo. Certo, anche questo può sembrare, e spesso è, una “foglia di fico”, ma pure è un’esigenza di cui tutti devono tenere conto. Dove manchi il senso nazionale, si ha sempre la tendenza alla sopraffazione, alla volontà di dominio dell’intero universo.
-
Secondo lo storico, già menscevico, Katkov, la Rivoluzione di febbraio, che è poi l’autentica Rivoluzione Russa, dopo quella parziale del 1905, fu forse dovuta alla cospirazione massonica e forse anche ad opera dei servizi segreti degli Imperi Centrali, che ripeterono il colpo, più efficace, nell’ottobre/novembre 1917 .
-
Il film di Fritz Lang “Metropolis” esemplifica bene il concetto di lavoratore- automa, ideale per il capitalismo, uno che agisce senza discussione agli ordini che esegue meccanicamente: meccanicamente entra, meccanicamente esce, meccanicamente si fa assumere, meccanicamente si fa licenziare, ideale tornato di moda dopo il crollo dell’URSS e la retrocessione sociale avvenuta con la sedicente “globalizzazione” . E’ così evidente che un tale concetto di economia sociale è reazionario, controrivoluzionario, e per nulla riformistico o, tanto meno, rivoluzionario.
-
Karl Marx, deluso nelle sue ambizioni di docente in una qualche Università tedesca, pieno di livore verso tutto e verso tutti, presumeva di essere una sorta di genio assoluto nella questione economica e sociale. In realtà, egli non faceva che analizzare situazioni già largamente analizzate e ripetere in forma ossessiva determinati princìpi: vediamo ad esempio che egli si riempì la bocca nei suoi scritti dello slogan “lotta di classe”, come se ne fosse l’inventore (invece tale concetto si ritrova già nei progetti di Catilina, come Cicerone e Sallustio hanno sottolineato); ne fa il motore della storia, ma pensa che il motore “lotta di classe” si esaurirà dialetticamente nell’abrogazione delle classi. Solo alla fine de “Il Capitale” egli si sforza di chiarire che cosa sia una “classe”, ma la definizione gli rimane del tutto incompleta: arriva, in sostanza, al luogo da cui sarebbe dovuto partire. Così sproloquia sul proletariato, del quale non dà una definizione etimologica (ovvero, che sia un termine di ascendenza romana che indicava il cittadino ricco solo di prole, occupato o disoccupato che fosse), lo intende come l’operaio delle grandi fabbriche, neppure il semplice artigiano dipendente o autonomo, o il contadino, o l’impiegato in lavori d’ufficio. Talvolta accenna al Lumpenproletariat (proletariato cencioso, straccione; mendicante ecc.), ma ne nega qualunque valore politicamente attivo, per non dire rivoluzionario. Beffeggia la borghesia, di cui si proclama acerrimo nemico, ma pare non accorgersi che egli stesso, per non dire del suo mecenate Engels, era un borghese, e per di più piccolo e “Lump” (ein Lumpenbuerger). Uomo sicuramente di grande erudizione, tuttavia incapace di ogni lavoro di sintesi, tanto da non finire nulla senza che poi l’amico e succube Engels non dovesse mettere ordine nei suoi lavori, dar loro una parvenza sistematica e, quindi, venderli sul mercato degli intellettuali. A questo ideologo con poche idee, molti slogans, e tantissime chiacchiere e statistiche incontrollabili, il tutto espresso in forma corrosiva, sarcastica, dispersiva, seguì una caterva dialettica di interpretazioni “rivoluzionarie”, ma più spesso moderatamente “riformiste”, in grande lotta interna fin dalla fine del XIX secolo, con estensione nel XX, e forse XXI secolo, lotta che traboccò anche nel sangue. Vi sono tanti “marxismi” quanti sono i marxisti, polemizzanti fra loro, non tanto sui pochi concetti e termini di base, quanto sui tempi e le condizioni politico-culturali per raggiungere l’agognato fine della società senza classi, una sorta di paradiso terrestre, da Apocalisse giovanneo (capp. 21 – 22) . A questa schizofrenica e paranoica ideologia si affidarono le sorti dell’Europa e del mondo, con enorme spreco di tempo e di azione, con i risultati che ben conosciamo, e che esamineremo alla fine .
-
La figura del commissario civile nelle Forze Armate, sotto il Governo Provvisorio, aveva sostanzialmente funzione di propaganda bellica e di convinzione dei soldati, era un modo per mantenere il contatto tra il potere politico e i soldati al fronte; con Lenin e Stalin, i commissari politici appartenevano tutto al Partito comunista e miravano al controllo politico dei comandanti militari, onde spedirli al creatore se erano sospetti di infedeltà al regime. Quello dei commissari era un modello ispirato alla Rivoluzione Francese e alla guerra nel 1792/ 95:si trattava di speciali inviati dalla Convenzione a verificare il comportamento militare e politico dei comandanti. Come fu notato in una biografia su Sun Yat Sen, anche quella sorta di divisa paramilitare che Kerenskij indossava da ministro della guerra, e poi da capo del governo, servì da modello agli stessi comunisti, da Lenin fino a Mao Ze Dong (già Mao Tse Tung) e Ho Chi Min, il che è pur curioso anche se puramente simbolico. Anche la bandiera rossa non fu farina del sacco leninista, ma credo risalente almeno al 1848, e adottata dalla Russia pre-repubblicana e repubblicana del 1917 .
-
Kerenskij fu sempre accusato dai bolscevichi, sulla scìa di cicli ispirati alla Rivoluzione Francese, di voler essere un Bonaparte, anche per l’atteggiamento che assumeva nella sua divisa di tenersi la mano sui bottoni. Kerenskij fu pure accusato per un certo istrionismo, ma a quei tempi l’istrionismo rituale e politico era molto comune (basti pensare ai nostri D’Annunzio e Mussolini, o ai comunisti russi stessi): era un po’ la moda, dovuta all’inconscia o conscia influenza del superuomo nietzscheano, o prima ancora degli Eroi alla Thomas Carlyle). La posa oratoria richiedeva, presso il pubblico, quegli atteggiamenti teatrali o istrionici, che oggi assumono forme ben più rozze, grottesche e volgari .
-
Questo appoggio verso la destra militarista da parte di tutte le Potenze dell’Intesa, Italia compresa, lo si vide bene in occasione della guerra civile sostenendo dittatorelli vari (Kolchak, che aveva abbattuto la ricostituita Assemblea Costituente a Samara; Denikin, Judenic ed, infine, Wrangel), che poi si fecero battere uno alla volta dall’Armata Rossa di Trotzkij, a causa della loro totale incapacità di attrarre la simpatia popolare .
-
Il marxismo, proprio per la sua pretesa di “scientificità” e di “antiutopia”, che poi si tradusse invece in una “cacotopia assoluta”, non aveva progetti di natura generale, oltre a pochi slogans, quali la dittatura del proletariato (termine senza senso: su chi si eserciterebbe la dittatura, se il proletariato, almeno come maggioranza relativa, si impadronisce del potere, eliminando così le fonti dello sfruttamento di classe ?), da presentare nel futuro, come sistema istituzionale. Quindi, a Lenin & Company toccò l’arduo compito di nefasti empirismi, che ressero solo ed esclusivamente col terrore e la violenza, o per la stoltezza di coloro che tentarono tardivamente e disordinatamente di abbatterlo, o ancora per la credulità popolare fiduciosa nei gloriosi destini del socialismo, malgrado i lunghi decenni di povertà quando non di miseria .
-
Non va dimenticato che quell’anima bieca che fu Lenin, da bravo agente provocatore dell’Impero Germanico, propagandava tra i suoi compagni e nel “proletariato”, l’idea che sarebbe stato Kerenskij, se fosse rimasto al potere, che avrebbe eliminato l’Assemblea. In effetti, egli proiettava sul nemico quello che era un progetto suo, salvo che i bolscevichi non avessero raggiunto una maggioranza assoluta. Cfr. “I Protocolli del Comitato Centrale bolscevico del 1917 – 18”, pubblicati in parte da La Nuova Italia (Firenze, 1974), pag. 10.
-
Fu l’URSS che, semmai, intervenne appena nel 1945 contro il Giappone, quando questo non era più in condizioni di resistere.
-
Emilio Gentile, nel suo recente libro “Mussolini contro Lenin” (ed. Laterza, Bari, 2017), sostiene che l’opera di Mussolini, per instaurare il suo regime, non seguì affatto il modello leninista. Ovviamente, non avrebbe potuto farlo, visto che il suo regime era sostenuto da ben altre forze economiche e sociali, e in una situazione politica del tutto diversa (non durante una guerra, ma nel dopoguerra e in tempi di “rivolta”), ma fu certo una reazione, una resistenza preventiva ad eventuali colpi di mano comunisti in Italia, come allora progettati (e i testi disponibili lo dimostrano, anche se tali progetti furono del tutto inefficienti per svariate pratiche motivazioni), il che fu riconosciuto anche prima di Nolte, da Churchill. Una reazione uguale e contraria che usò la violenza, il colpo di mano, non meno del comunismo russo, anche se con fini opposti. Né va dimenticato che le radici di Mussolini, in una delle tante giravolte dialettiche, erano state marxiste estremiste, non certo il riformismo marxista .
-
Marx riteneva, illudendosi, di utilizzare ne “Il Capitale” un metodo dimostrativo induttivo;ma il suo tentativo è puramente transduttivo, ovvero da particolare a particolare, dispersivo per definizione. Fu Engels a giungere ad una sintesi conclusiva, per quanto relativamente e provvisoriamente, dando una parvenza di scheletro alla faticosa ricerca dell’amico di un filo conduttore, floscio appunto come un filo, senza un guscio esterno come negli invertebrati, e senza un sistema osseo come nei vertebrati.Pensiero elastico, malleabile, cera molle, che solo nella critica verbale (e non concettuale) verso gli altri si mostrava rigido, acido, insolente .Tutti gli studiosi, in effetti, fanno fatica a delineare la “demarcazione” (per usare un termine neo-positivista) fra pensiero di Marx e pensiero di Engels, se non per gli scritti anteriori o posteriori (per la morte di Marx) alla loro collaborazione. Per quanto si può capire, Engels fu più vicino al positivismo ottocentesco, rispetto a Marx, ma questo è determinabile solo dopo la morte di Marx, quando il positivismo predominò in Europa ed America. Durante la loro comune attività, tutti gli scritti di Marx, almeno dal citato Manifesto in poi, sono anche rimaneggiati e commentati da Engels: sarebbe quindi più corretto, a mio avviso, parlare di marx-engelsismo piuttosto che di solo marxismo. Va riconosciuto che, per capacità di sintesi e lealtà verso il precedente patrimonio di proposte socialiste, utopiste o meno che fossero, Engels fu ben più apprezzabile: eppure, per questo suo spirito di lealtà, non certo per ipocrisia, Engels attribuì all’amico, non sempre gratissimo, tutti i meriti teoretici del “socialismo scientifico”. Amico o psicologicamente succube ? Poco fortunate le associazioni e i gruppi diretti da Marx, probabilmente anche a causa del suo temperamento nervoso, intollerante, ipercritico, ma anche alle condizioni assai sfortunate in cui visse a livello personale e familiare: dopo il celebre “Manifesto”, che pretendeva di spezzare le catene dei proletari di tutto il mondo, nel 1848, già nel 1851 si scioglieva la Lega dei Comunisti, ex-Giusti. La cosa potrebbe meravigliare oggi, vedendo l’enorme spropositato successo nominale del marxismo tra la fine dell’Ottocento e quasi l’intero Novecento, eppure non fu così nel corso della sua vita. Dovette anche qui il solito fedelmente paziente Engels, suo amico anche ben oltre la morte, impegnarsi ad esaltare le disordinate dottrine ed opere di Marx, per fare di lui il “gigante” post mortem che oggi conosciamo. Il disprezzo di ambedue per l’ideologia, da intendersi allora come studio della formazione delle idee (in Destutt de Tracy) ovvero gnoseologia, e da intendersi oggi come sistema di pensiero, soprattutto politico e socioeconomico, rivolto all’azione, denota appunto disprezzo per il pensiero premessa di azione; senza pensiero, non vi è azione (efficace), bensì pura dispersione di forze. Uno dei motivi che spiegano il disastro storico del marxismo .
17. Il celeberrimo “Manifesto del Partito Comunista”, programma della Lega dei Comunisti fondata da Weitling e affondata dal solito duo Marx-Engels, comincia con l’affermazione che uno spettro si aggiri per l’Europa, volendo satireggiare dichiarazioni comuni nell’alto potere politico del tempo che sembra averne avuto terrore (ne dubito, sia per il 1848, sia fino alla morte di Marx: il comunismo cominciò veramente a far paura solo con l’assunzione del potere in Russia e la creazione dell’URSS). Ebbene, questo spettro ebbe funzione di spaventapasseri del capitalismo internazionale fino al 1990, quando si dissolse in modo umiliante. Sempre il “Manifesto”, col suo superficiale ottimismo irrealistico, minaccia in conclusione i poteri dominanti di una rivoluzione comunista, limitata ai proletari, che nulla hanno da perdere, se non le proprie catene. La storia, tragicomicamente, ha dimostrato che il comunismo cominciava proprio con i proletari, mai ben intesi, a imporre catene almeno altrettanto pesanti ed oppressive, e concludeva nel suo totale fallimento. “Il Capitale”, sorta di enciclopedia economico-finanziaria estremamente analitica, non conclusa e inconcludente, comincia il suo I Libro dalla merce e dal denaro; finisce il Libro III, VII sezione, Capitolo 55°, con le classi sociali, da cui sarebbe dovuto partire se avesse voluto dimostrare storicamente e socialmente la necessità della lotta di classe: si confronti Mazzini ne “La Questione Sociale” del 1871, definita come “la più santa e pericolosa del periodo in cui viviamo”: già qui come alla fine del “Capitale”, la società è ripartita in tre classi essenziali, ma i due differiscono nel concetto generale di “classe”, che per Marx appare piuttosto casta, come gruppo sociale chiuso, quasi geneticamente determinato (o si è “proletari” o si è “borghesi”, come si nasce aristocratici, feudatari o re); per Mazzini come un’entità collettiva di individui, elastica e mutevole. Marx finisce l’opera, curata da Engels, lasciandola in sospeso, non dico per colpa sua, ma anche per l’incapacità di sintesi, per il suo ricorrere disperatamente a dati, se non insignificanti certo non dimostrabili o verificabili, per questo culto ossessivo dell’analisi puntuale e pedantesca fraintesa per scientifica, alla fin fine indeterminata ed aperta ad ogni convinzione anche se opposta.
La piaggeria storiografica, confondendo gli sviluppi successivi non dovuti a lui con i meriti di quest’uomo, certo sventurato ed infelice, ma anche drasticamente incapace di fissare con precisione i punti, i princìpi su cui la sua proposta, dichiarata “scientifica”, doveva reggersi, lo esalta come se fosse nato grandioso già nel ventre materno: non vi è in lui una metodologia teoretica esplicita, non vi è in lui un’ontologia dell’essere e dell’uomo che vada oltre le attività economiche o materiali. Vi è un’ansia di emergere, una sconfinata ambizione ed una conseguente ira per il proprio insuccesso, per essere costretto quasi alla mendicità, certamente non meritata, ma al tempo stesso per la sua incapacità pratica perfino di trarre un minimo guadagno dai propri stessi libri ed articoli, tanto da non poter mantenere decorosamente la sua “borghese” famiglia: eccolo il grande economista (dulcis in fundo, ovvero in cauda venenum !) .
Che il capitalismo, nato per liberare l’economia dalle vecchie, superate restrizioni del corporativismo medioevale e post-rinascimentale (“moderno”, nel senso storiografico del termine), dovesse avere una durata transitoria, era convinzione di larga parte dei teorici dell’economia sociale, o socioeconomia, già nel tardo Settecento e nell’Ottocento. Addirittura sappiamo che, in merito a tale valutazione, il pensiero sociale del primo Ottocento era molto più avanzato del compromissorio pensiero del Novecento (per non dire di questi primi due decenni del XXI secolo !): Marx in questo, malgrado tutte le sue pedanti ricerche, non disse nulla di nuovo, ma solo ingarbugliò terribilmente il problema. Il capitalismo, scatenando la belva dell’egoismo umano, individuale o di gruppo, l’idolatria del lucro ad ogni costo, della crescita senza limiti o altro, malgrado le risorse del pianeta su cui viviamo siano limitate per quanto grandissime o indeterminate nel loro esatto ammontare, si è tradotto in puro sfruttamento parassitario di pochissimi individui su tantissimi individui, e come succede ad ogni parassita che non riesca poi a trovare altro essere nel quale sopravvivere, è destinato ad uccidere l’organismo succube, morendo esso stesso. Non occorrono infatti grandi studi analitici e statistici per capirlo. Quindi, come evitare il rischio della morte dell’umanità a causa di un tale parassitismo ? Intanto, qualificare gli aspetti giuridici del problema: ovvero, la ricchezza è data dal lavoro, è frutto del lavoro. Essa appartiene quindi al lavoratore stesso. Il lavoro pertanto deve sempre essere attività autonoma, libera o indipendente che dir si voglia. Quando il lavoro è associato fra più individui, questi devono essere posti su un medesimo piano, quindi coordinati, e non subordinati, in modo che i guadagni ricavati con un necessario e proporzionato profitto, siano distribuiti fra gli associati in modo proporzionale alla quantità, qualità e rischio del lavoro, alla responsabilità, al merito del singolo lavoratore, alla sua inventività, a tutto ciò che, oltre ad essere bene ed utile propri, sia bene ed utile per tutti. Infine, le deliberazioni sui programmi di lavoro e di produzione devono essere assunte con voto uguale dei singoli, e non per un numero di azioni o di beni, o di stipendi posseduti.
Questo procedimento si chiama cooperativismo, che non deve confondere il lavoro associato, paritario, col lavoro dipendente. Lo aveva ben delineato già William Thompson nel lontano secolo XVIII. Non è la mancanza del cosiddetto “lucro” (scambiato confusamente col profitto, ovvero con quel margine di guadagno tra valore finale - o costo di un prodotto o di un’attività - e valore di vendita del prodotto o attività, ossia ricavo: senza un attivo, necessario ed adeguato, il lavoro non sarebbe remunerativo e neppure sufficiente alla vita) a determinare la natura della cooperativa, ma appunto la non dipendenza giuridica all’interno della cooperativa: una cooperativa con dipendenti è una società capitalistica con altro nome, né più né meno; nella migliore delle ipotesi una società a regime misto o spurio .
Anche qui, il marxismo ha sfiorato il tema, a volte apprezzandolo, a volte rinnegandolo come “borghese”, e non ha mai capito che solo quando i lavoratori, con aiuto o no della Repubblica socialmente intesa, potranno associarsi in autentiche cooperative, politicamente e giuridicamente fondate, il problema sociale, come equa distribuzione della ricchezza e conseguente abolizione della povertà e della dipendenza economica dai “padroni”, sarà risolto in via definitiva .
Né, come taluni pretenderebbero, si tratta di sostituire al mito di una crescita economica infinita (di fatto applicata come arricchimento continuo alle spalle di lavoratori, consumatori e contribuenti, non pagando adeguatamente il lavoro in diretta proporzione del valore del prodotto finale, facendo pagare al consumatore prezzi ben superiori al necessario, al contribuente gli interessi esosi di un debito pubblico non causato dal contribuente, ma da una procedura di derivazione feudale), quello di una “decrescita felice” (frase insensata: “decrescita” vuol dire diminuzione, ovvero generale impoverimento), ma l’economia in generale deve essere stabilizzata, consolidata, se e quando non siano disponibili nuove risorse naturali o nuove invenzioni tecnologiche. L’economia politica di impostazione plutocratica chiama la stabilizzazione “stagnazione”, dando a questa un significato negativo: per il plutocrate la linea orizzontale del suo grafico rappresenta una sofferenza maggiore che quella obliqua in discesa. Ne soffre, per lui è già “crisi” !
Per la disgrazia dell’umanità, la disfatta ideologica e pratica del marxismo, dopo il monopolio o predominio assunti da questo in sede di azione sociale in tutto il pianeta, ha di fatto comportato anche la crisi della più che legittima e doverosa aspirazione a risolvere in via definitiva la questione sociale, almeno tra i popoli civili: ciò non deve, né può essere ammesso; occorre non solo rendersene conto, bensì anche operare per mantenere l’antico obiettivo: abrogare il capitalismo e il proletariato (analogamente alle condizioni di schiavismo e schiavitù), il secondo inteso come condizione di lavoro subordinato a beneplacito, interesse ed arbitrio del capitalista, condizione che rinuncia all’integrale godimento dei propri frutti del lavoro a vantaggio di un sistema parassitario.
Storicamente, il capitalismo perse ogni funzione positiva e produttiva a partire dal 1929, e riuscì a sopravvivere, e sopravvive, parassitariamente, grazie a sistemi di politica economica mista con forte intervento dello Stato, strutturalmente organizzato a questo scopo, attraverso finanziamenti e leggi favorevoli a mantenere il capitalismo stesso. Questa economia mista, che doveva costituire solo una fase intermedia tra il capitalismo e il cooperativismo, finì poi per essere pagata, come sempre, dai più deboli, ovvero dai lavoratori dipendenti soprattutto attraverso le imposte e le rapine sui sistemi previdenziali .
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI COMMENTATI
Specifico che la bibliografia, da me qui citata ed effettivamente consultata, è assai scarsa rispetto a quella che si usa dire “sterminata” bibliografia sulle due Rivoluzioni russe (1905 e febbraio–ottobre 1917), sulla ribellione leninista-trotzkista dell’Ottobre e conseguente guerra civile (1918–1921). Specifico pure che gran parte di quel materiale, sempre e comunque interessantissimo, è assai fazioso ed in gran parte costituito da Memorie personalistiche, piuttosto che da studi storici obiettivi ed imparziali. Ciò che manca, almeno in Italia, è la reperibilità di complete raccolte di documenti relative al Governo Provvisorio, agli ultimi atti della IV Duma, e del Soviet prima e durante il monopolio bolscevico, che preluse al colpo di stato. Credo che tali raccolte complete manchino sia in russo (da noi poco conosciuto), sia in inglese o altra lingua occidentale europea largamente conosciuta, sia in assoluto in italiano. Manca altresì in Italia una serie di Istituti di studio storico e storico- giuridico sulle grandi Rivoluzioni, europee e mondiali dei secoli XVII – XX, analoghi ai nostri sul Risorgimento oppure alle Deputazioni Storiche regionali: una rete di simili organizzazioni, anche di tipo accademico, faciliterebbe grandemente uno studio scientifico e non fazioso su questi fenomeni, che hanno spesso rimesso in moto la civiltà e la cultura politico-sociale dell’umanità . In Italia, sappiamo, è più facile ottenere palazzetti dello sport, campi di calcio e discoteche che non centri di studi. Sul mazzinianesimo, tanto per citarne tre, sono stati fatti chiudere il Centro Napoletano di Studi Mazziniani di Napoli, l’Istituto Mazziniano di Genova e per ultima la “Domus Mazziniana” di Pisa: e ben che siamo in una tanto declamata “repubblica” (che dire delle banane, è offendere le banane) !
Gli unici Atti da me reperiti sono costituiti, salvo pochi inseriti nelle opere di seguito citate, “I Protocolli del Comitato Centrale Bolscevico del 1917 – 1918” pubblicati a cura de La Nuova Italia (Firenze, 1974), con presentazione di Francesco Benvenuti, pagg. complessive 111: i testi qui disponibili dimostrano ad abundantiam il folle pregiudizio distruttivo dei capi del bolscevismo, ma anche una certa resistenza interna, costituita soprattutto da Zinoviev, Kamenev e perfino (!!!) da Stalin, sebbene solo provvisoriamente .
-
Anin David, “La Rivoluzione Russa del 1917 – vista dai suoi protagonisti”, ed. it. Paoline (Roma, 1980,), trad. di Irina Ilovajskaja Alberti, della collana URSS senza maschere, pagg. complessive 407. Anin fu un menscevico anti-leninista, descrive con ampia obiettività le varie posizioni, soprattutto delle forze non bolsceviche (fa eccezione Trotzkij). Interessante la sua considerazione finale, critica nei confronti proprio di Trotzkij che negava la derisibilità dell’operato contro il Governo Provvisorio e il riferimento ai “giacobini” (meglio robespierristi) :
“… No, Trockij si sbagliava e riguardo ai giacobini e riguardo ai bolscevichi… anche l’ironia si addice ai bolscevichi. Il destino dei rivoluzionari bolscevichi nonché il destino delle idee… non possono non suscitare, oltre ai sentimento di odio e di scherno, anche ironia, cioè quel sentimento che, secondo il detto francese, uccide l’avversario nel modo più sicuro” (pag. 399). Non so quanto poi sia vissuto Anin, e se abbia visto più che confermata la propria tesi qui riportata. E, riguardo all’ironia, che diventa perfino sarcasmo, “La Fattoria degli Animali” di Orwell ne fu un quasi inimitabile esempio .
2. Autori Vari, “Riforme e Rivoluzione nella Storia Contemporanea”, a cura di Guido Quazza, ed. Einaudi (Torino, 1975); pagg. complessive 342: apologia delle varie forme di socialismo marxista, particolarmente rilevanti i saggi, sul nostro argomento, di Aldo Zanardo, Rita Di Leo, Aldo Agosti, Riccardo Lombardi.
3. Autori Vari, Antologia “Cronache e Dispacci della Rivoluzione d’Ottobre”, ed. PANTAREI (Milano, 2007), Scritti, commentati dal curatore, di Morgan Philips Price, Arthur Ransome, John Reed, Albert Rhys Williams; pagg. complessive 553. Opera di chiaro orientamento filo-leninista.
4. Bordiga Amadeo, “Lenin” , ed. PARTISAN (Roma, 1970), conferenza del 1924 in commemorazione di Vladimir Ulianov (lì soprannominato Nicola, forse in inconscio riferimento agli zar Nicola I e Nicola II Romanov: ma è più probabile trattarsi di uno pseudonimo adottato da Lenin stesso, come d’uso nella clandestinità; si vedano anche Trotzkij, Stalin, Sukhanov, ecc.), con saggio di Antonio Gramsci “Capo” (contro Mussolini), introduzione di Alfonso Leonetti, pagg. complessive 76: testo essenzialmente apologetico come tutte le “laudationes defuncti”.
5. Chamberlin William Henry, “Storia della Rivoluzione Russa, 1917 - 1921”, prima edizione del 1935, ed. it. EINAUDI (Torino 1966), trad. Mario Vinciguerra, pagg. complessive 909. Testo tra i fondamentali, partendo dai prodromi storici, sembra orientato a favore del bolscevismo, piuttosto critico verso Kerenskij e il Governo Provvisorio, dai quali, chissà perché, si pretendeva un successo immediato nel giro di soli otto mesi, mentre era in corso la guerra e il vile, subdolo, sabotaggio sistematico, operato dalle estreme frange politiche di destra e di “sinistra”. A questo proposito, oggi, dopo la triste conclusione della fiaba comunista, gli storici potrebbero avere la tentazione di paragonare Kerenskij a Gorbacev: ignoro se qualcuno l’abbia tentato, ma va premesso che Kerenskij ebbe solo otto mesi per operare e in condizioni belliche molto gravi; Gorbacev, che aveva la simpatia di larga parte del mondo occidentale, come innovatore e liberatore dell’URSS, durò tra il 1985 e il 1990 in tempi di pace e di osanna. Il tempo quindi per lui disponibile era stato ben più lungo che per Kerenskij e, nondimeno, la sua caduta fu inesorabile e più ingloriosa .
6. De Risio Carlo, “Pagine Scelte della Rivoluzione marzo – ottobre 1917”, IBN ed. (Roma, 2016), pagg. complessive 123: lavoro sintetico, abbastanza interessante, ma senza chiare indicazioni degli autori riportati.
7. Furet François, “Il Passato di una illusione – L’idea comunista nel XX secolo”(1995), ed. it. A. MONDADORI (Milano, 1995), a cura di Marina Valensise; pagg. complessive 640: il grande storico della Rivoluzione Francese, confutatore di Mathiez, Lefebvre ed altri filorobespierristi, già marxista, spiega le motivazioni, lontane e prossime del misero crollo dell’URSS: lavoro apprezzabilissimo .
8. Gentile Emilio, “Mussolini contro Lenin”, ed. LATERZA (Bari, 2017), pagg. complessive 263. Sostiene la tesi che Mussolini non si ispirò affatto a Lenin per il suo colpo di stato, ed in effetti alla lettera non ha per nulla torto, ma dimentica che il Mussolini “fascista” (e già marxista estremista fino al 1914 !) si mise a capo della reazione contro il bolscevismo che mantenne fino alla morte, sebbene, secondo testimonianze non si sa quanto credibili, alla fine della Repubblica Sociale diceva di preferire un’Italia sotto l’URSS che sotto gli angloamericani. Il rapporto quindi con Lenin fu stretto, ma di reazione e non di imitazione. Per me più interessante è l’importanza e la fiducia che il Mussolini del 1917, su “Il Popolo d’Italia”, diede a Kerenskij, per la fondazione di una repubblica democratico-sociale non marxista o antimarxista: fiducia sfumata quindi a causa della sconfitta di tale tentativo: non è improbabile, anzi, che l’insuccesso di Kerenskij contro il bolscevismo lo convinse che solo con le maniere forti questo poteva essere battuto .
9. Katkov George, “Russia 1917 - La Rivoluzione di Febbraio” (1967), ed. it. RIZZOLI (Milano, 1969), trad. Lydia Magliano, pagg. complessive 571. L’autore è uno dei tanti menscevichi (marxisti democratici e riformisti), costretti all’esilio. Il titolo è un po’ fuorviante perché analizza la storia della Russia zarista negli anni di guerra, e il 1917 è prevalentemente narrato nella sua conclusione. In realtà, il suo progetto doveva essere quello di continuare il lavoro, ma non mi risulta che ciò sia avvenuto, forse per decesso o altra impossibilità di compierlo. Il Katkov attribuisce almeno una parte della Rivoluzione di Febbraio alla massoneria, una tesi che non mi pare adeguatamente dimostrata. Più documentata è l’altra tesi è quella dei rapporti di Lenin, tramite Hel’fand (Parvus) se non direttamente, col servizio segreto del Kaiser, a scopo di sabotaggio, provocazione, crisi interna irreparabile, come per svariate ragioni del resto riuscirono ad ottenere .
10.Kerenskij Aleksandr Fiodorovic, “Memorie - La Russia alla svolta della Storia” (1965), ed. it. GARZANTI (Milano, 1967), trad. Maria Eugenia Zuppelli Morin, pagg. complessive 514. E’ una lunga narrazione autobiografica, limitata tuttavia al periodo della vita, dalla nascita alla guerra civile russa; si spiegano anche i difficili rapporti e l’incomprensione, la cecità occidentale nel non avergli dato fiducia e aiuto adeguato sia nella fase tra il luglio e l’ottobre, sia poi per tentare di organizzare qualcosa contro i bolscevichi. Si preferì sostenere le forze militariste (Kolchak, Denikin, Judenic, Wrangel), le quali non potevano suscitare alcuna fiducia popolare o nelle forze politiche democratiche, ma anche avere una sufficiente coordinazione fra le rispettive azioni militari, che quindi risultavano dispersive anche nelle vittorie, ed alla fine furono battute dall’Armata Rossa. Dai fatti anteriori e contestuali si deduce che proprio Kerenskij, con la sua elasticità politica, l’apertura e tolleranza verso tutte le forze sociali che aveva dimostrato nei mesi più caldi, avrebbe potuto fare da contraltare a Lenin e coagulare le forze antibolsceviche (come testimoniano gli stessi Sukhanov e Trotzkij, egli avrebbe voluto anche incontrare Lenin per tentare di fargli capire la vera problematica della Russia in rivoluzione: ciò gli fu impossibile prima per ragioni di tempo, poi quando furono evidenti i reali motivi dell’azione leninista), ma ciò avrebbe richiesto da parte occidentale non l’aspirazione ad affermare la propria supremazia su una Russia indebolita e divisa, ma quella a cooperare - senza preventive diffidenze - alla nascita e consolidamento di una Russia fortemente democratica e socialmente avanzata. Non so se esista in inglese una qualche opera su Kerenskij, per la sua azione politico-culturale in America, che vada oltre le lezioni e le conferenze di storia russa. Ignoro se siano mai stati raccolti in russo o in inglese tutti i suoi discorsi da deputato, da avvocato difensore nei processi politici, e neppure se abbia scritto una qualche opera teorica sulla forma e sostanza del governo a cui aspirava per la Russia. Mancherebbe, a quanto so, un suo qualche lavoro teoretico di filosofia politica e sociale, i programmi specifici del suo partito trudoviko (laburista). Tramite INTERNET, poco di nuovo si conosce, salvo che, ad esempio, la Chiesa ortodossa russa non volle farlo seppellire negli USA, di cui pur divenne cittadino e docente, ma si fu costretti a seppellirlo in Gran Bretagna. Tuttavia, il fatto era forse piuttosto dovuto al domicilio dei figli Gleb ed Oleg in Gran Bretagna.
Personalità energica e convinta, sostenne sempre appassionatamente e con ragionevoli argomentazioni l’azione personale e del Governo Provvisorio. Del suo animo buono ed aperto fa testimonianza una sua finale citazione di Tolstoi, dopo aver criticato il machiavellismo di separare la morale dalla politica (ciò lo rende affine a Mazzini), in cui si dice (pag. 502): “Quanto è moralmente cieco e spiritualmente sordo colui che, dopo il terribile crollo culturale e spirituale del mondo contemporaneo, continua a credere che la vita dell’uomo nella società umana possa essere nobilitata dal progresso materiale. Giacché per superare l’attuale barbarie, è essenziale che l’uomo si trasfiguri”. Va infine rilevato che molte furono le sue pubblicazioni, ma sempre vertenti la giustificazione che fece, e a mio avviso valida, degli eventi in cui fu protagonista, mentre sarebbe anche utile agli studiosi sapere come agisse poi (sembra che addirittura, in occasione dell’attacco tedesco del 1941, proponesse la propria collaborazione a favore di Stalin e dell’URSS, ma venne del tutto ignorata da Stalin…), anche negli ultimi decenni di vita. Credo che fu forse premiato dalla provvidenza divina, con la sua lunga vita (quasi 90 anni) e che nessuno avesse tentato di rompergli la testa a picconate, quando fu in America.
11.Kerenskij (Kerenskaja: in russo, i cognomi al femminile si declinano) L’vovna Olga (moglie, poi divorziata, di Aleksandr), “I Morti non parlano - Le rivoluzioni non si fanno con le mani pulite, Lenin”, ed. it. Paoline (Roma, 1977), Collana “URSS senza maschere”, Introduzione di Gleb Kerenskij (il figlio), trad. Carlo Dema, pagg. complessive 207. Si tratta della narrazione autobiografica della vita di questa donna che, sola con due figli per l’abbandono e l’esilio del marito, vive una fase iniziale molto emozionante e per lei positiva, poi con l’avvento bolscevico diviene durissima. Questa donna, che deve pur aver sofferto moltissimo a causa dell’attività del marito e poi per la solitudine, non ha mai una parola di condanna per il coniuge, malgrado anche il non fedelissimo temperamento maschile nei suoi confronti (causa presumibile del loro divorzio), anzi ne elogia l’azione, mentre è critica durissima di Lenin. Riesce a fuggire con i figli nel 1921, lasciando però lì la vecchia madre e specifica che la cognata e un cognato muoiono nel periodo staliniano, così pure un suo fratello, prima sostenuto da Trotzkij tra i comandanti dell’Armata Rossa, a cui aveva dovuto aderire . Fu anch’essa molto longeva come il marito, quasi un premio della provvidenza per le loro sofferenze e delusioni .
12.Lenin (Ulianov) Vladimir, “Carlo Marx – La dottrina filosofica ed economica del marxismo”, ed. it. GIULIA (Trieste, 1945), trad. ignoto, pagg. complessive 53. Si tratta di un opuscolo, diffuso alla fine della guerra per indottrinare i triestini, e far loro digerire l’annessione alla Jugoslavia titoista .
13. Marie Jean-Jacques, “Kronstadt 1921” (titolo non particolarmente originale e, tra l’altro non corrispondente alla lettera, perché l’Autore parla anche dei prodromi dei marinai del Baltico, che ebbero un ruolo notevole tra il febbraio e l’ottobre 1917 a Pietrogrado, e che furono anche i vincitori dei cosacchi di Krasnov, a Pull’kovo, nel tentativo di riscossa di Kerenskij), 2005, ed. it. UTET (Torino, 2007), trad. di Anna Pia Filotico, pagg. complessive 346. Lavoro dettagliato, talvolta con stile giornalistico .
14. Nolte Ernst, “Nazionalsocialismo e Bolscevismo - La guerra civile europea, 1917 – 1945”(1987), ed. it. SANSONI (Firenze, 1988), presentazione di Gian Enrico Rusconi, trad. Francesco Cappellotti, Vera Bertoino, Giovanni Russo, pagg. complessive 505. Lavoro complesso, vasto, articolato e dettagliato, ben argomentato, che utilizza un metodo comparato per dimostrare la propria tesi dell’effetto azione-reazione tra bolscevismo internazionalista e nazionalsocialismo (come anche il fascismo stesso) .
15. Reed John, “I Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, ed. it. LONGANESI (Milano, 1996): un lavoro che, in verità, ebbe molte edizioni anche in italiano. Opera di esaltazione della rivolta leninista, che non ebbe modo di confermarsi poi perché il giovane incauto simpatizzante bolscevico, di nazionalità USA, morì di tifo. Spiegando gli eventi che portarono alla vittoria bolscevica, annota però anche i timori dei suoi “compagni”, quando le forze di Krasnov, ancorché scarse, si avvicinavano a Pietrogrado, e la difesa della città non era poi così sicura come si narrò poi. Ebbe l’onore di essere sepolto nella Piazza Rossa, ma non so se lo sia ancora .
16.Risoluti Piero, “I Vinti che avevano ragione”, ed. ARMANDO (Roma, 2011), pagg. complessive 212: è un lavoro originale e coraggioso, nel senso che accorre in difesa di cinque personaggi, considerati “sconfitti”. Tralascio gli altri quattro, legati esclusivamente dal rapporto ragione-sconfitta, e segnalo il quarto saggio su Kerenskij. L’Autore merita elogio perché ammette la validità dell’operato e dei fini di Kerenskij, nella quasi impossibile “partita” che dovette giocare in otto mesi, una tesi coraggiosa in tempi nei quali solo ai vincitori, veri o presunti, si fa apprezzamento (pagg. 93 – 137).
17. Sayers Michael e Kahn E. Albert, “La Grande Congiura” (1947 ?), ed. it. EINAUDI (1948), traduttore anonimo, prefazione del senatore americano della Florida Claude Pepper, pagg. complessive 223. Vi si sostiene apertamente che la povera URSS era, fin dall’inizio, oggetto di complotti internazionali, di cui fecero parte ovviamente molti tra i fondatori della medesima URSS con l’aiuto straniero. Spesso i “giudici” deliberano col metro da essi adoperato quando sono dalla parte reciproca. Meraviglia che, a “guerra fredda” iniziata e col “maccartismo” in corso, venisse pubblicato negli USA e poi in Italia questo lavoro che è, nulla di meno, la versione staliniana di tutti gli eventi dal 1917 al secondo dopoguerra in un’opera certamente sintetica, nella quale, tra altre giustificazioni delle “purghe” si legge che l’assassino di Trotzkij lo uccise, non per ordine di Stalin, ma perché Trotzkij non voleva che Jacson-Mercader ecc. si sposasse con la segretaria Sylvia Ageloff (pag. 169). Chissà che cosa poteva interessare a Trotzkij un matrimonio del genere, tanto da impedirlo! Bisogna dire che le tante amenità di questo libro, scritto anche in modi quasi piacevoli e “credibili”, sono espresse in forma sintetica e divulgativa. Ma ripeto, stupisce che di questo lavoro, a doppia mano, si sia parlato perfino in alte sedi americane. E dimostra pure le tendenze d’allora della Casa Editrice Einaudi!
18.Schumpeter Joseph A., “Capitalismo, Socialismo, Democrazia” (1954), ed. it. ETAS KOMPASS (Milano, 1973), trad. Emilio Zuffi, pagg. complessive 396. L’Autore ripercorre la storia del socialismo in chiave marxista ovviamente , e dà per scontato il “prossimo” crollo del capitalismo, oltre 60 anni fa: una visione profetica, non dissimile dall’Apocalisse di Giovanni l’Evangelista, che vede la fine del mondo di lì a poco tempo.
19.Stalin Josip Vissarionovic, “Questioni del Leninismo - Princìpi”, opuscolo (di corto formato, ha tuttavia 119 pagine, una specie di dispensa) pubblicato a Trieste dall’Editoriale Libraria Giulia senza data, ma dal tipo di formato potrebbe essere anch’esso, come il precedente di Lenin, del 1945, diffuso per convincere i Triestini a passare sotto Tito: raccoglie presunte lezioni di Stalin del 1924 agli studenti dell’Università “Sverdlov” sulla storia e la teoria della “rivoluzione” leniniana. Se le lezioni in questione non furono opera di qualche “portaborse”, dimostrerebbero che il sanguinario dittatore non era privo del tutto, come segnalava invece il rivale Trotzkij, di capacità teoretiche, almeno a livello didattico, sebbene si abbia un po’ di difficoltà a vedere nel baffuto Baffone, già monaco fallito, un accademico d’alto livello, una sorta di S. Alberto o S. Tommaso del leninismo…
20.Sukhanov (Gimmel o Himmel) Nicolaj Nikolajevic, “Cronache [variamente tradotte in”Taccuini o Note”] della Rivoluzione Russa” (1919/ 22), in 7 volumi; ed. it. EDITORI RIUNITI (Roma, 1967), voll. 2, Introduzione di Bernardino Farolfi, pagg. complessive del I volume 767, del II 1022. Si tratta di un lavoro molto consistente e molto dettagliato, che dovrebbe essere il punto essenziale di riferimento per gli studiosi della Rivoluzione Russa. La versione qui citata riguarda i soli otto mesi del Governo Provvisorio: ignoro se la versione russa vada oltre, oppure se anch’essa si limiti a questa fase. Sukhanov (nome di battaglia come quelli di tanti socialcomunisti che vissero in esilio o clandestinamente: il suo cognome fu Gimmel o Himmel, grafie diverse per modi diversi di traslitterazione dei caratteri nell’alfabeto cirillico) fu menscevico di sinistra, vicino quindi alle posizioni di Trotzkij. Fu anche amico di Kerenskij che lo ospitava in casa nella fase finale del regime zarista e nei primi giorni di febbraio: ciò malgrado, non gli fu molto grato, dando di Kerenskij quell’immagine di uomo entusiasta, verboso, apparentemente energico, ma in realtà debole, un po’ “isterico”, che domina tuttora nella storiografia internazionale con rare eccezioni. Visione tutto sommato faziosa, che non tiene conto degli enormi ostacoli che Kerenskij dovette sostenere e che resse con metodi sostanzialmente democratici (ragionevolezza, comprensione, volontà di dialogo, e uso proporzionale della forza, ove necessaria: mai col Terrore). Simpatizza quindi con i bolscevichi e la loro rivolta. Ne fu premiato finendo con Stalin nel gulag per probabile trotzkismo o bucharinismo,
21.Trotzkij (Bronstein) Lev Davidovic, “I Nostri Compiti Politici” (1904), ed. it. LA NUOVA SINISTRA, SAMONA’ & SAVELLI (Roma, 1972), trad. Giorgio Meucci, pagg. complessive 148. E’ il Trotzkij che “preferiamo”, quando era ancora semplice menscevico, benché di estrema sinistra, ma critico forte ed efficace del “Che fare” di Lenin, nel periodo antecedente la Rivoluzione del 1905 (che portò ad una prima e modesta liberalizzazione dello zarismo). In esso il giovane Trotzkij critica a fondo le pretese “giacobine” (meglio, robespierriste) di Lenin. Trotzkij, indubbiamente pensatore qualitativamente superiore a Lenin, sostiene le tesi più gradualiste (ma non moderate) della minoranza del Partito Socialdemocratico Operaio Russo (menscevikj, in russo). Critica ed idee che Trotzkij tradì, con suo danno finale, nel 1917, e che lo condusse dopo una gran carriera di bolscevico all’espulsione, all’esilio ed infine alla morte con un colpo di piccone sulla testa: nulla di strano per chi riteneva che rivoluzione e guerra civile, repressione delle opposizioni, ecc., coincidessero .
22. Trotzkij L. D., “Stalin – Valutazione dell’uomo e della sua influenza” (1941, ed. postuma), ed. it. GARZANTI (Milano, 1947), a cura di Charles Malamuth, pagg. complessive 639. Opera postuma, perché lo stava completando e rivedendo quando l’agente staliniano Mercader lo colpì alla testa: il curatore dice che il manoscritto era macchiato dal sangue dell’autore. Non si tratta soltanto di una biografia, ancorché denigratoria e certo faziosa sul suo nemico personale e politico, ma anche una narrazione storica della Russia dalla nascita del tiranno georgiano fino agli anni ’30. C’è un alto grado di faziosità nella narrazione, che però risulta controproducente in quanto, attribuendosi tutte le virtù di uomo di pensiero e d’azione, descrivendo l’avversario come un ignorante, povero di intelletto, rapinatore, forse addirittura l’assassino di Lenin, e un subdolo burocrate, finisce per svalutare se stesso e gli altri oppositori comunisti di Stalin, che si sono fatti eliminare da questo “burocrate” senza troppe difficoltà. Secondo Trotzkij, Stalin fu “difensista” prima del ritorno di Lenin, poi non ebbe un ruolo effettivo nella rivolta dell’ottobre 1917 (mentre i verbali, sopra citati, del Comitato Centrale del Partito bolscevico dimostrano, se non corretti a posteriori, che Stalin si schierò presto a favore di Lenin). In effetti, chi legge quel libro si chiede se i nemici di Stalin fossero stati granché capaci di qualcosa, se eliminati così ingloriosamente da un grossolano, quasi sciocco e ignorante ex- monaco. La conduzione dell’URSS, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, la vittoria ottenuta nel 1939 contro il Giappone che minacciava la Mongolia, e malgrado il parziale insuccesso contro la Finlandia nel medesimo anno, la ricostruzione industriale con i Piani Quinquennali ecc., dimostrano che fu un buon calcolatore, che rese l’URSS una potenza temibile e comprese una strategia fondamentale: il comunismo non poteva reggersi senza il Terrore, e la stessa azione trotzkiana lo dimostrò ampiamente, sebbene Trotzkij avesse tentato poi di contrabbandarsi per democratico (il profeta disarmato, come lo chiamò Isaac Deutscher). Facile spacciarsi per “buoni” quando non si hanno più poteri !
23. Trotzkij L. D., “Opere”, Antologia di vari scritti a cura di Livio Maitan, ed. Mondadori (Milano, 1972), pagg. complessive 419. Comprende oltre a brani della sua “Storia della Rivoluzione Russa”, saggi sulla Guerra Civile Spagnola del 1936 /39, ed alcuni scritti di filosofia politica, dove si constata una certa parentela del suo pensiero con il deprecato (dai marxisti) utopismo dei premarxisti. Certamente la sua rovina, prima intellettuale che pratica, fu l’acquiescenza alle dottrine di Lenin avvenuta nel 1917, mentre sarebbe stato opportuno che o superasse i limiti del marxismo, o che almeno conservasse lo spirito critico del 1905 .
Al termine, per la diversa natura, ricordo il romanzo autobiografico (o quasi) di Boris Pasternak “Il Dottor Zivago”, che analizza gran parte di questo periodo storico e che il governo sovietico a suo tempo condannò, impedendogli perfino di ritirare il premio Nobel per la letteratura, e i vari scritti di Solgenitzin, tra cui il celeberrimo “Arcipelago Gulag” : non possono essere considerati romanzi storici (perché il romanzo propriamente storico esige una certa distanza temporale tra fatti descritti e vita dell’autore, ma pure anche queste narrazioni biografiche hanno un certo valore di testimonianza). Di tutt’altro genere, ed esilarante, è l’apologo favolistico di George Orwell “La Fattoria degli Animali”, in cui si satireggia spietatamente la sedicente Rivoluzione d’Ottobre, che si conclude con l’accordo affaristico con la plutocrazia, accordo nel quale gli animali vedono confondersi il muso di porco con il viso dell’uomo .