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L’ ESTETICA MORALE DI SENECA NELLE “LETTERE A LUCILIO”
Settimo Saggio per una Storia delle Teorie Estetiche
di Manlio Tummolo
( Bertiolo - UD - ottobre 2019 )
Al Prezioso Cantante Lirico
e Amico Carissimo,
Sergio Del Bianco,
che sa affrontare con stoica fermezza
i mali fisici della vita,
l'antica, ma sempre attuale voce di
Lucio Anneo Seneca,
DEDICO
con salda, fraterna amicizia .
“NON MULTA, SED MULTUM”
“REM TENE, VERBA SEQUENTUR”
I
PREMESSA
A scopo di premessa, desidero raccontare un episodio della mia vita studentesca abbastanza curioso e che poi ho narrato anche ai concorrenti magistrali, in occasione di due corsi di Scienza dell’Educazione, rispettivamente sostenuti nel 1995 e nel 2000 organizzati dal SAM – Gilda a Trieste, e per i quali preparai anche dei saggi specifici [1]: avevo studiato, col prof. Nicolò Nichea dell’Istituto Magistrale Statale “Amedeo Duca d’Aosta” di Trieste, alcune lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca, per cui, quando pervenni alla Facoltà di Magistero e, per una prova scritta dal latino all’italiano, nella sessione del giugno 1971, c’era da tradurre proprio una di quelle lettere, presi la cosa con molta lietezza, mi accinsi alla traduzione (che già avevo fatto anni prima) e completai il tutto con una certa rapidità (fui il primo a consegnarla). Ebbi tuttavia qualche giorno dopo l’amarissima sorpresa di aver ricevuto una valutazione insufficiente. Mi recai dunque dal prof. Paolo Tremoli, severo latinista, che mi mostrò la mia povera elaborazione tutta segnata da righe blu e rosse. Ritengo che non una parola fosse rimasta intonsa. A quanto mi disse, avevo tradotto assai male il tutto a suo parere, ma poi una sua domanda mi illuminò sulle ragioni di tanta severità (stoica, dovremmo dire ?): “Perché ha consegnato l’elaborato così presto?” . Evidentemente, il prof. Tremoli si era offeso perché la rapida consegna era, a suo avviso, una sottovalutazione dell’impegno, e quindi meritava una sanzione negativa. In effetti, più che di errori sintattici o grammaticali o di travisamenti nel contenuto, si trattava di modi d’interpretazione differenti, o più semplicemente di una valutazione condizionata da un pregiudizio. Comunque, feci tesoro della magra esperienza e, nella sessione d’ottobre, ripresentatomi alla prova scritta [2], ricevemmo come testo un racconto, più complesso e anche un po’ più lungo rispetto alla lettera di Seneca, di Tito Livio, su non ricordo che evento o che battaglia. Fatto sta che procedetti con calma, guardai e riguardai (nemmeno quello era un testo particolarmente difficile), e lo consegnai dopo altri. Stavolta il prof. Paolo Tremoli non ebbe difficoltà a darmi un voto adeguato, ma si fece perdonare del tutto, due anni dopo, solo all’esame (sempre scritto, ma conclusivo) di cultura generale [3], dove ottenni il voto più alto. Spiegai questa tattica del non consegnare troppo presto il tema svolto, per non offendere la suscettibilità di alcuni docenti, anche alle concorrenti magistrali, e spero che questo consiglio fu loro utile, anche se potevano essere sicure della qualità del loro lavoro .
II
CONSIDERAZIONI GENERALI SU SENECA
L’episodio, che ho narrato, serve anche a chiarire a chi mi legge qui, che la mia conoscenza di Seneca è ormai di antica data, e risale agli anni scolastici ed universitari.
Lucio Anneo Seneca può considerarsi il pensatore e scrittore romano più maggiormente aderente all’ideale stoico, ma - come tutti i Romani – non senza tendenze eclettiche, ovvero non escludente l’accettazione e il paragone con altre correnti filosofiche di derivazione ellenica, soprattutto l’epicureismo [4], il neopitagorismo e il platonismo (meno invece lo spirito aristotelico, a cui mancava quella tendenza religiosa fortemente presente nella mentalità romana e di derivazione notoriamente etrusca). Ciò che caratterizza lo stoicismo, pur nella sua complessità e varietà del tempo, è l’intuizione ben sviluppata di quel primato della Ragion pratica, formulato da Kant e da Fichte, e proseguito in termini di attività politica da Mazzini. Vi è espressa la netta connessione, nella Ragione umana, tra coscienza logica (come principio di non-contraddizione) e coscienza morale (coerenza del Bene, in quanto azione cosciente e voluta): per nulla dunque una contrapposizione tra logica ed etica, ma sostanziale identificazione della prima nella seconda. A nulla servirebbe l’incontraddittorietà del Pensiero se ad essa non corrispondesse la coerenza del Bene nell’azione, la Verità del Pensiero coincidente con la Verità dell’Azione. Un’azione incoerente in se stessa o, forse peggio, coerente nel male non può mai essere logica, non può mai essere vera e giusta . Chi, parlando di Kant, ha accennato ad “abissi” tra logica ed etica, tra Ragion Pura e Ragion Pratica, non si è mai reso conto (sia per pregiudizi manualistici, sia per cattiva lettura) che in Kant le tre Critiche sono in realtà un’analisi gnoseologica ed epistemologica di tre aspetti, fra loro connessi, di una sola Ragione, che si distingue per gli usi, i metodi, non per differenze ontologiche e definitive tra oggetti di studio. Ora agli Stoici, sulla base dell’esempio socratico, si deve il primo sviluppo di questo principio: la preminenza dell’aspetto etico come giustificazione di ogni ricerca di pensiero e di ogni realizzazione concreta. Seneca, in questo senso, è forse colui che più spinge avanti la tematica morale a guida di ogni altro problema conoscitivo [5] .
Se, tuttavia, esaminiamo la vita di Seneca, non possiamo certo asserire che la sua fosse stata il massimo della coerenza nel Bene, la sua fu un’esigenza ideale e, come detto, soprattutto logica: per quanto riguarda la sua esistenza reale, alcuni anzi lo rimproverarono di incoerenza, se non di ipocrisia, e – va detto - non tanto per l’aver scritto ad un ministro di Claudio una lettera elogiativa dell’imperatore che poi beffeggiò nell’ Apokolokynthosis (zucchificazione) [6], nella speranza di ottenere la liberazione dall’esilio, quanto per l’essere stato complice perlomeno passivo sia per l’assassinio di Britannico, fratellastro di Nerone, sia per quello di Agrippina, madre dello stesso Nerone (e si era ancora nella fase migliore del periodo neroniano !). Anche al momento della morte, egli - che pur declamava che ogni morte anche con la peggior sofferenza era degna di attenzione, pur di sfuggire a condizioni di schiavitù
e di sofferenza morale - preferì darsi la morte svenandosi e utilizzando la cicuta (per quei tempi un suicidio “eutanasico”), piuttosto che rischiare le torture di Tigellino su ordine di Nerone. Più coerente in questo fu certo il “cirenaico” arbiter elegantiarum Gaio Petronio [7] che, dopo un’apparente vita da cinico gaudente, amante della Bellezza e dell’Amore, si uccise, sempre per ordine di Nerone, ma inviandogli prima uno scritto satirico per beffarsi di lui (forse lo stesso Satyricon, rimastoci in frammenti), poi svenandosi nell’acqua calda con una morte ancora più “a-patica”. A dire il vero, umanamente parlando, Petronio appare più psicologicamente simpatico a noi moderni dei troppo rigidi e declamatori Stoici.
Tuttavia, sebbene non pienamente coerente tra il suo pensare e scrivere e il suo agire, Seneca non si vantò mai d’essere veramente coerente. Nel “De Vita Beata”, ad un detrattore che lo accusava d’ipocrisia, rispose : “De virtute, non de me loquor”: “Parlo della virtù, non di me stesso”: poteva essere una giustificazione ? Come quei celebri sacerdoti che asseriscono dal pulpito “Fate quel che dico, non quel che faccio” ? Direi di no: la parola è veramente efficace se è accompagnata da un esempio ad essa coerente, altrimenti risulta controproducente, ma d’altronde non è sempre umanamente possibile, per le più varie e difficili condizioni esterne ed intime esistenti, dare esempi perfettamente coerenti con quanto si afferma: se avvenisse, ci si avvicinerebbe alla santità, e pochi uomini lo sono stati veramente. Non tutti poterono essere come Catone l’Uticense che si uccise in modo truculento, dopo essersi tagliato il ventre, strappandosi nuovamente le cuciture fattegli per salvarlo. Per quei tempi, in una situazione terribilmente corrotta come quella dell’Impero Romano [8], anche la sola voce, ancorché non sempre corredata dall’esempio assolutamente coerente, serviva di stimolo a non lasciarsi trascinare dal disfacimento, e molti furono gli anti-neroniani che pagarono con la vita in modo, se non eroico, certamente dignitoso. E noi, uomini del XX e XXI secolo, che giudichiamo questi antichi, sapremmo in caso analogo seguirne le orme ? Come uomo d’azione, dunque, Seneca fu certo migliore da vecchio che non da giovane, malgrado la maggior debolezza e le sue croniche malattie: ritiratosi da ogni carica pubblica o semipubblica, visse nello studio e nell’opera scientifico-letteraria sempre affermando il suo Ideale etico .
III . SULLO STILE DI SENECA
Ora, se - come si è detto – si ritiene che tutto il pensiero e tutta la ricerca debba orientarsi sulla base del criterio morale, anche l’estetica deve obbedire alla legge etica: tutto il pensiero estetico di Seneca potrebbe quindi sintetizzarsi nei due motti che ho posto in testa allo scritto: “Non molte cose, ma molto (ovvero: non studiare e scrivere su tantissimi argomenti, ma approfondiscine pochi)”; “Abbi chiaro l’oggetto (il concetto dello stesso), le parole seguiranno (naturalmente, senza sforzo)”. Già il fatto di dover esplicitare questi due motti dimostra la capacità di sintesi del modo di esprimersi di Seneca, che non cura affatto la concinnitas (ovvero, l’arte di ornare armonicamente il discorso con aggettivazioni e frasi secondarie, perifrasi ecc., secondo l’esempio ciceroniano), ma va immediatamente alla sostanza delle cose: il suo modo di esprimersi è conciso e concettuale, senza mai essere confuso. Si capisce subito ciò che intende. Uno stile espressivo che ricorda molto quello cesariano, prescindendo dai contenuti assolutamente diversi, anch’esso caratterizzato da forza sintetica, ma che tuttavia non venne molto apprezzato da Quintiliano (I sec. d. C - che preferiva lo stile ciceroniano), meno ancora dal rètore Frontone (II sec. d. C - che paragonò queste sue frasi a prugnette flaccide) . Un po’ meglio, ma sempre negativamente il più tardo Aulo Gellio (II sec. d. C ). A mia personale opinione, già in altre occasioni espressa, può essere bello qualunque stile che, per prima cosa, corrisponda alla personalità dell’autore, secondo i suoi fini e l’oggetto che tratta. Non si tratta di essere “originali” in assoluto, cosa impossibile (perché c’è sempre un autore o uno stile a cui ci ispiriamo), ma di seguire - come dice Dante - “ciò che ci ditta dentro”. Quindi, né pretesa di originalità assoluta, né copiatura pedissequa e passiva di altri .
Seneca quindi è forte e convinto scrittore, anche vario se si vuole, perché, oltre alle “prediche”, scrisse un’opera satirica vicina a quella di Petronio (l’ “Apokolokynthosis, sopra ricordata), e tragedie anche truculente come il “Tieste”, una vera storia di orrore, ed altre, tutte impressionanti, basate su miti greci. L’unica legata alla recente storia romana, è l’ “Ottavia”, prima moglie di Nerone cacciata in esilio e poi fatta uccidere con la calunnia di relazioni adulterine. Figlio dell’omonimo rètore (Seneca il vecchio), egli probabilmente non ritenne il caso di scrivere un’altra opera di retorica (non ne mancavano, infatti…), ma di esprimere nel vivo delle sue opere stesse, sinteticamente i princìpi, e diffusamente la loro applicazione, trattando i più svariati argomenti, fossero letterari o filosofico- scientifici.
IV
ANALISI DELLE LETTERE
Procedo ora all’esame sistematico dei punti, siano cenni oppure trattazioni più ampie, del tema estetico, in prospettiva etica, seguendo l’ordine delle lettere a Lucilio, un suo giovane amico ed allievo, di cui non si sa molto, e che cadde poi vittima delle vendette neroniane. Mi si osserverà molto giustamente che non ne uscirà un’ordinata visione di questa estetica, tuttavia sarebbe molto difficile dare ad essi un ordine logico-sistematico (che non c’è), senza rischi di travisamento involontario. In tutti i casi, ciò che si sottolinea in questi punti, esaminati o discussi da Seneca, non è una bellezza a se stante, autonoma, ma una coincidenza con la Verità e la Giustizia, col suo contenuto educativo .
Lettera 2: Esorta Lucilio a letture, non molte e disordinate, ma ben scelte qualitativamente: “… Bada inoltre che, in codesta lettura di molti autori e di libri di ogni genere, tu non vada vagando dall’uno all’altro. Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell’animo… Troppi libri producono dissipazione: … Perciò leggi sempre i migliori autori e, se talvolta vuoi passare ad altri, torna poi ai primi… Dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch’io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa…” [9] .
Lettera 5. Seneca invita il suo amico alla semplicità, senza estremismi o stranezze, dal modo di esprimersi a quello di vestirsi, curando la dignità, non l’eleganza. Curare igiene e pulizia del corpo, senza idolatrarlo. L’obiettivo generale per ciascuno di noi è migliorarci ogni giorno [10].
Lettera 7. E’ essenziale evitare la folla e, soprattutto, gli spettacoli indecorosi e crudeli, tanto amati dai Romani nella tarda Repubblica e sotto l’Impero. Ciò che è immorale è anche, dal punto di vista estetico, repellente :
“Mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Rispondo: la folla… Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo. Nulla è tanto nocivo ai buoni costumi quanto assistere oziosi a certi spettacoli. Allora, infatti, mediante le attrattive del piacere [piacere non autentico, ma pessimo gusto, pessima abitudine nel valutare le cose], i vizi si insinuano più facilmente…
… L’ambizione di mettere in mostra il tuo ingegno non ti spinga in mezzo alla folla a fare pubbliche letture o conferenze… fra questa moltitudine nessuno ti comprenderebbe. Te ne capiterà forse qualcuno, uno o due, e tu dovrai prima formarlo ed educarlo, perché possa comprenderti…” [11] . Lo scopo, dunque, del dialogo con altri non dev’essere mai il mettere in mostra se stessi, ma il rapporto reciprocamente educativo, spirituale .
Lettera 8. Parlando di sé, Seneca dice di essersi isolato il più possibile. Dedica allo studio il suo tempo prevalente. Per chi opera, si chiede: per i posteri. L’età in cui vive non consente altro, e qui ricorda il troppo spesso frainteso Guicciardini quando parlava del suo “particulare”: in tempi di corruzione e decadenza, in tempi di tirannide e di violenza, non resta che isolarsi, lavorando per il futuro: i tempi negativi fortunatamente non sono eterni, e deve sempre restare viva la speranza che il futuro sarà migliore. E, a consolazione, cita non qualche stoico, ma proprio Epicuro, di cui si è detto, e definisce “belli” i suoi concetti. “Se vuoi avere la vera libertà, devi farti servo della filosofia”. E nota ancora Seneca: cita spesso Epicuro, ma anche perché la qualità e la forza che vi si trovano sono presenti pure in altri, non solo filosofi, ma poeti e tragediografi, e perfino mimi, come Publilio [12].
Nella Lettera 9, Seneca sottolinea, tra i diversi valori dell’amicizia e dell’amore, quello di suscitare la brama di bellezza, che non è solo quella verso il corpo fisico, ma soprattutto verso il mondo interiore della persona amata [13].
Lettera 11. A Lucilio sottolinea l’importanza e l’istintività del pudore, specie quando si esprime nel rossore del viso: Seneca, parlando delle capacità di imitazione degli attori riguardo all’espressione dei sentimenti, ne ammette l’abilità, ma ne esclude quella di saper provocare il rossore del viso:
“… esso non può essere né dominato, né provocato. Sono fenomeni indipendenti dalla volontà, che si manifestano da sé e da sé scompaiono; e nessuna umana saggezza può impedirli o favorirli…” [14] .
Lettera 14. Vi invita Lucilio ad evitare la schiavitù verso il proprio corpo, non seguendo né l’audacia eccessiva, né l’eccessiva prudenza, mantenendo l’atteggiamento equilibrato del filosofo. Accenna anche all’eloquenza forense che può suscitare inimicizia [15]. A questo proposito, nella Lettera 15, dà consigli all’amico sul come pronunciare discorsi forensi. Come ho già segnalato più volte, l’arte oratoria forense, che poteva anche essere politica, ha molta importanza nella vita quotidiana dei Romani, come del resto fu ed era tra i Greci. Oratore a sua volta, Seneca scrive :
“… Cerca anche di irrobustire la voce; ma non devi alzarla e abbassarla, studiatamente, a intervalli calcolati… Dovrai, forse, iniziare un discorso gridando ed elevando al massimo il volume della voce ? E’ più naturale che la voce acquisti a poco a poco, come avviene in tribunale: i litiganti cominciano a parlare con tono… pacato, poi passano a gridare concitatamente: nessuno alza subito la voce per la perorazione finale. Perciò, secondo l’impulso, parla con veemenza quando devi rimproverare i vizi, sii più moderato in altri casi, usando quel tono che la voce ti porta… E, quando avrai riportato la voce a un tono normale, bada che essa non cada, ma scenda moderatamente… Noi non dobbiamo avere come scopo che la voce sia educata, ma che educhi…” [16]: ecco, dunque, lo scopo vero per Seneca riguardo all’abilità oratoria, essa deve avere forza educativa, non badare tanto ad uno stile formalisticamente bello, quanto alla bellezza, ovvero verità e giustizia, dei contenuti .
Lettera 21. Vi tratta dell’argomento della vera gloria. Qui cita a proposito il poeta che egli, almeno in queste Lettere, dimostra di prediligere, perché è il più citato: ovvero Virgilio, sia per l’ “Eneide” (soprattutto), sia per le “Georgiche”, meno per le “Bucoliche”. Qui ricorda l’episodio di Eurialo e Niso che, catturati in una loro spedizione notturna, vengono uccisi dai Rutuli. Anche la gloria e il valore militare suscitano, per Seneca come per una lunga tradizione, non solo romana, un’idea di bellezza [17].
Lettera 25. Trattando di differenti modi di educazione, egli spiega come la bellezza della vita è quella di una vita virtuosa :
“… E’ più bello vivere come se si fosse alla continua presenza di un uomo virtuoso; ma io mi accontento che tu faccia tutto quello che devi fare come se fossi sotto lo sguardo di un uomo qualunque. Infatti la solitudine consiglia sempre il male…” [18].
Tuttavia, questo “come se” significa un fatto interiore, non necessariamente che si debba stare materialmente con altri (virtuosi o comuni che siano), ma mettendosi idealmente sotto il giudizio altrui. Ne approfitta per citare ancora Epicuro (a dimostrazione del suo eclettismo e non-esclusivismo), incitando ad isolarsi proprio quando si è circondati da una folla, magari spinta da fanatismo collettivo .
Lettera 27. Qui Seneca sa dimostrare di essere stato anche uno spirito ironico ed umoristico, ricorda un certo Calvisio Sabino, una sorta di Trimalchione (a quel tempo dovevano esservene parecchi…) ricco, ma ignorante e per giunta di scarsa memoria. Costui non ricordava nemmeno i grandi nomi di Omero, Esiodo e dei loro personaggi, ma amava anche far sfoggio di cultura: compra quindi alcuni schiavi che gli facciano da suggeritori, ma la sua memoria era così breve che doveva interrompersi prima di ripetere pochi versi. Per giunta vi è anche una specie di barzelletta, segno che pure un moralista come Seneca sapesse bene essere spiritoso. Un tale Satellio Quadrato, suo ospite e parassita, consiglia a Sabino di dedicarsi al pugilato : “… ‘Ma come potrei ?’ rispose Sabino ‘ Sto in piedi per miracolo !’ ‘Non dire così, te ne prego’ replicò Satellio; ‘non vedi quanti servi robusti hai ?’…”. Mi pare di leggervi una critica implicita a quei cultori, anche modernissimi, che credono di fare dello sport guardando gli altri farlo, e sembrano ritenere di irrobustirsi osservando gli esercizi altrui… [19].
Lettera 32. Vi esprime la bellezza del progresso spirituale dell’animo :
“… considera quanto sia bello portare a compimento la vita prima della morte, e poi aspettare sereno il resto dei propri giorni, senza niente attendere per sé, godendo il possesso della felicità… Oh, quando perverrai al momento in cui sentirai che il tempo non conta più per te, in cui sarai tranquillo…, incurante del domani e pienamente soddisfatto di te stesso !... ti auguro il possesso di te, perché il tuo spirito, tanto agitato da vani pensieri, finalmente stia saldo, sicuro e contento di sé… Chi vive dopo aver portato a compimento l’opera della sua vita è fuori di ogni necessità…” [20].
Lettera 33. Vi esprime ulteriori considerazioni sul rapporto tra verità e bellezza dei concetti. Esalta i filosofi stoici, a cui si ispira, ma dice a Lucilio che cita tanto spesso Epicuro proprio in quanto, esaltando egli il piacere (come assenza di dolore), esalta maggiormente quei concetti etici e comportamentali comuni tra gli Stoici, ed in essi del tutto usuali, come se acquistassero una forza maggiore. In sostanza, è il vero che dona bellezza, non l’opposto. E cita un esempio curioso col corpo femminile :
“… Una bella donna non è colei di cui si lodano le gambe o le braccia, ma quella il cui aspetto complessivo è di tale bellezza da togliere la possibilità di ammirare le singole parti…” [21] .
Invita inoltre Lucilio a formulare un pensiero proprio, non adeguandosi sempre acriticamente al pensiero altrui: come non ci si deve vantare di un’assoluta originalità, così non bisogna essere imitatori pedissequi .
Lettera 39. Su richiesta di Lucilio, Seneca gli presenta un compendio, un breviario o sommario, e ribadisce questo concetto del legame tra virtù (verità e giustizia) e bellezza : “… Un uomo di nobili sentimenti non può trovare piacere nelle cose basse e ignobili: la bellezza delle cose grandi, invece, lo attira e lo esalta. La fiamma si solleva diritta…; allo stesso modo il nostro animo è in continuo movimento… Ma felice colui che rivolge questo slancio verso nobili scopi: si sottrarrà così all’arbitrio della fortuna…. E’ proprio di un animo grande disprezzare il desiderio di grandezza [ambizioni materiali, politiche, economiche o di celebrità, che siano] e preferire la moderazione agli eccessi… “ [22] .
Lettera 40. Qui Seneca esprime la sua convinzione in merito al linguaggio e allo stile del “sapiente”, ovvero filosofo, criticando un tal Serapione che, a quanto narrava lo stesso Lucilio, parlava in modo impetuoso restando perfino senza fiato: ora - sostiene il filosofo romano - la filosofia deve essere espressa in modo ordinato e corretto. Aggiunge poi : “Sappi, perciò, che codesta foga oratoria… è più adatta a un ciarlatano che a chi tratta e insegna argomenti seri e importanti. Condanno ugualmente sia chi fa cadere le parole a goccia a goccia, sia chi parla di corsa. L’oratore non deve né costringere l’uditorio a tendere le orecchie, né stordirlo. Anche la povertà e la magrezza dello stile tengono l’ascoltatore meno attento, per il fastidio di un discorso lento e con frequenti interruzioni; tuttavia quell’oratoria che si fa attendere s’imprime nella memoria più facilmente di quella che passa via di volo… un discorso, per tendere alla verità, dev’essere privo di artifizi e semplice. Non ha nulla di vero l’eloquenza che cerca il favore popolare… commuovere la folla e trascinare… ascoltatori impreparati… Una tale oratoria è del tutto inefficace e vacua…” [23] .
Quanta attualità in queste considerazioni, per il modo in cui si parla al pubblico specialmente su argomenti politici e sociali!: parlare a mitraglia, e uno sopra l’altro, è una prassi tipicamente televisiva, ma anche radiofonica. In più la qualità contenutistica è di livelli miserabili. Riguardo ai tempi di Seneca (e non dimentichiamo mai che, fino al XIX secolo e inizio XX, si doveva parlare senza altoparlanti e tutt’al più con le mani alla bocca o qualcosa di simile al megafono), andrebbe considerato che due sono i fattori prevalenti nel discorso pubblico, ovvero le aspettative e i sentimenti degli ascoltatori (se siamo in sede politica oppure di conferenze o lezioni pubbliche), e l’argomento che affrontiamo. Ciò che è scientifico deve essere affrontato con calma e ordine logico; ciò che è politico, economico-sociale, attuale, e suscita emozioni e forte interesse, esige un certo impeto, entusiasmo, capacità di trasmetterlo. In ogni caso tuttavia, la dizione dev’essere chiara di contenuto e chiaramente udibile, se si vuol suscitare, mantenere e, perfino, accrescere l’interesse, quasi sollecitando una com-partecipazione dell’uditorio. Infatti lo stesso Seneca, quasi contraddicendosi, ma solo apparentemente, davanti ad una possibile obiezione di Lucilio, spiega ulteriormente : “… ‘Dunque l’oratore non potrà talvolta innalzare il tono ?’. E perché no ? Purché salvi la sua dignità morale, che è incompatibile con codesta foga violenta ed eccessiva. Ci sia nello stile filosofico un grande vigore, ma anche moderazione: sia un fluire abbondante… non un torrente impetuoso. Tale velocità oratoria, che procede senza soste…, si potrebbe appena tollerare in un oratore [forense o politico]. Infatti come potrebbe tenergli dietro il giudice, che talvolta è anche inesperto… l’oratore non deve affrettarsi troppo, né accumulare più parole di quante gli … ascoltatori possano ricevere…” [24].
Sempre nella medesima lettera, Seneca fa anche un paragone tra oratoria greca ed oratoria romana, la prima più impetuosa, la seconda più ponderata e circospetta, e a questo proposito ricorda uno dei suoi maestri di filosofia, Papirio Fabiano. Rimane comunque una certa ambiguità nel chiarimento di Seneca, perché - ripeto - la lezione accademica (scientifica o filosofica che sia) richiede uno stile pacato e ordinato; la situazione politica o, eventualmente, il dibattito forense ne pretendono uno più vivace, più portato alla polemica (sebbene sempre in limiti di correttezza formale: ma pensiamo un momento alle “Filippiche” ciceroniane contro Antonio, che furono estremamente offensive nei suoi confronti, dandogli ripetutamente dell’ubriacone…) .
Lettera 45. Qui Seneca parla di sé e dei propri sforzi intellettuali. Prende spunto dal lamento di Lucilio, che gli scriveva da Siracusa, di cui critica la scarsità di libri. Il maestro gli osserva che, come aveva già scritto in precedente lettera, non conta la quantità dei libri, ma la loro qualità: osservazione che, a maggior ragione, potremmo ripetere noi con tante pubblicazioni a stampa, in cui caterve di volumi vengono poste in vendita, ma con storielle di amorazzi o di disavventure ripetitive, noiose e volgari, pretese storie di fatti o biografie mal scritte e sommarie, senza alcun valore né scientifico né morale, ma che vendono tanto (criterio assai apprezzato dagli editori e dai librai…). Di sé, il filosofo dice :
“… non mi considero un grande scrittore per il fatto che tu desideri che ti mandi i libri scritti da me… Ma, qualunque sia il valore dei miei libri, leggili con la persuasione che in essi cerco ancora la verità: non l’ho trovata, ma la cerco ostinatamente. Non mi sono venduto a nessuno, non porto il nome di nessuno. Tengo gran conto del pensiero di nostri maestri, ma rivendico qualche diritto anche al mio pensiero. I nostri maestri ci hanno lasciato non verità già definite, ma problemi da risolvere [il problematicismo ben più antico di quello tra XIX e XX secolo]… Abbiamo già imparato a vivere e a morire ? Questa è la scienza a cui dobbiamo tendere con tutte le nostre forze spirituali…” [25]. E qui facile constatare il passaggio immediato, tra stile estetico e questione morale e il resto della lettera, riguarda appunto questioni morali in relazione alle attività pubbliche .
Lettera 46. Prosegue il tema della precedente, ma trattando di un altro autore proposto da Lucilio al maestro, che questo elogia fortemente, ma senza nominarlo. Rinvia il giudizio, tuttavia, al completamento della lettura .
Nella Lettera 52 , richiamando il maestro Papirio Fabiano, Seneca riprende il tema dell’oratoria filosofica (noi diremmo piuttosto della conferenza), con grande interesse ancora per i nostri costumi del XX – XXI secolo :
“ E’ davvero pazzo l’oratore che lascia la sala soddisfatto per gli applausi di un uditorio ignorante. Come puoi rallegrarti di sentirti lodato da persone che tu non sapresti lodare ? Fabiano parlava in pubblico, ma tutti lo ascoltavano tranquilli. Talora scoppiava un grande applauso, ma questo era provocato dall’elevatezza dei concetti… e non dalla sonorità di un’eloquenza vacua… Fra l’applauso del teatro e quello della scuola ci sia qualche differenza: anche nell’approvare si abbia il senso della discrezione…” [26] .
Ciò che deve commuovere, insiste Seneca più avanti, sia il contenuto, il fine, e non la fraseologia o la declamazione, tanto più ove si trattino argomenti filosofici .
La Lettera 58 tratta un argomento assai interessante per la filosofia greca, che è prevalentemente metafisica od ontologica, perlomeno dalla polemica tra Eraclito e Parmenide (e sua scuola), beffeggiata poi dal raffinatissimo Gorgia. Il curioso, per lo studioso di filosofia, è che nella lingua greca classica il verbo “essere” è un ausiliare e non pare avere l’importanza presente nelle lingue moderne. Mi sono stupito un po’, recentemente, che nelle grammatiche italiane viene dichiarato inesistente il participio presente del verbo “essere”, che pure risulta presente nel linguaggio filosofico, come “Ente” o “ente”, oppure - ricalcato sul tedesco seiend - “essente”, il che sinceramente mi sembra eccessivo. Eppure, in italiano si usa il participio passato “stato”, comune al verbo “stare”: dunque, “essere” al participio passato deriva da “stare” o è vero l’opposto ? Mi pare che i nostri grammatici non ce lo spieghino: infatti, lo “stato” dell’ ”essere” è ciò che non è più, lo “stato” di “stare” è ciò che è ancora (“stare” ha, tuttavia, anche il participio presente “stante”). Gli etimologi ci spiegano che il termine latino “Ens” è un prodotto del linguaggio filosofico medioevale (ricavato forse dalla desinenza di “praes-ens” o “prae-sens”, il che darebbe “sens” e non “ens” [27]), non un termine classico, e lo stesso Seneca, infatti, usa i termini ellenici : ousia oppure to oen [28], traducendoli in latino con la perifrasi “quod est”, ovvero “ciò che è”. Il mio dubbio è che i classici non abbiano saputo inventare o individuare il participio presente (sens o ens), ciò che i filosofi medioevali invece hanno fatto con intelligenza. Mi si obietterà che queste mie osservazioni esulano da una questione estetica ed è piuttosto grammaticale, linguistica, e ciò è assolutamente vero, ma nondimeno mi pare una carenza un po’ assurda, che ha colpito la mia attenzione, e che qui offro alle osservazioni dei grammatici italiani .
Nella Lettera 65, a proposito delle cause, come concetto filosofico, tratta anche della causa che infuisce sull’attività artistica. Dibatte la questione con Lucilio :
“… Ma noi ora cerchiamo la causa prima e generale: essa è necessariamente semplice, poiché anche la materia è semplice. Vogliamo, dunque, conoscere l’essenza di questa causa ? E’ la ragione creatrice, cioè dio… Dici che la forma è una causa ? Ma è l’artista che impone all’opera una forma [qui si presenta una certa ambiguità tra il concetto di forma come esteriorità, come aspetto geometrico della figura, e il concetto di forma, in senso aristotelico, come modo d’essere di quel determinato oggetto o ente]; essa è parte della causa, non la causa stessa. E neppure il modello è la causa, ma uno strumento necessario alla causa. Il modello è necessario all’artista, come lo scalpello e la lima. Senza questi strumenti non si può esercitare un’arte; tuttavia non sono parti dell’arte, né causa. ‘Il fine’ si dirà ‘per cui l’artista si accinge a fare qualcosa, è la causa’. Anche ammettendo che sia la causa, non è causa efficiente, ma accessoria. Ora, le cause accessorie sono innumerevoli, ma noi cerchiamo la causa generale…” [29] .
Con un salto logico, si passa poi alla questione ontologica della natura divina: resta così in sospeso sul che cosa sia la “causa generale” dell’artista, oppure se ne deve concludere che anche l’artista non faccia altro se non esprimere una causa assoluta che è la divinità, fonte quindi anche della creazione artistica, che potrebbe quindi essere considerata di ispirazione divina. E infatti :
“… Tutto, in verità, deriva dalla materia e da Dio. Dio, al centro dell’universo, governa tutti gli esseri, che lo seguono come loro rettore e loro guida. Il principio attivo, cioè dio, supera per potenza e per valore la materia, che riceve l’impronta di dio. Orbene, quel posto che dio ha nel mondo, lo ha l’anima nell’uomo: quello che è nel mondo la materia, è in noi il corpo…” [30].
Siamo ora alla Lettera 75, dove Seneca parla a Lucilio del proprio stile :
“ Ti lagni per lo stile poco elaborato delle mie lettere. Ma chi parla con ricercatezza, se non colui che ama le vuote forme esteriori ? Come userei un linguaggio semplice e chiaro se stessimo insieme, seduti o a passeggio, così nelle mie lettere desidero evitare ogni forma ricercata… Se fosse possibile, ti metterei a nudo il mio animo senza bisogno di parole. E anche se tenessi una conferenza, non batterei i piedi, né agiterei le mani, né alzerei la voce; ma lascerei questi espedienti agli oratori, contento di esporti il mio pensiero senza inutili ornamenti e senza sciatteria…” [31].
Questo, dunque, l’ideale espressivo del nostro filosofo, perlomeno trattando di argomenti scientifici o metafisico-etici, anche se sappiamo che ben diverse furono le sue opere propriamente letterarie. Ritengo sempre che, in ogni caso, chi scrive per sé come per altri, debba esprimersi secondo quanto si sente, senza condizionamenti esterni, né pregiudiziali propri, né men che meno mode vigenti. Ancora:
“… Le nostre parole non devono piacere, ma recare giovamento [32]. Se, tuttavia, uno riesce ad esprimersi in forma elegante spontaneamente e senza fatica, ben venga l’eloquenza con la bellezza delle sue espressioni; ma sia tale da mettere in vista il contenuto più che se stessa. Ci sono altre parti che perseguono interessi esclusivamente estetici; qui sono in giuoco gl’interessi dell’anima…” [33] .
Seneca, dunque, non condanna un “bello stile” formale e verbale, ma lo relega in sedi puramente estetiche, letterarie, a-morali (come del resto egli stesso fece nelle tragedie o nell’ “Apokolokynthosis”) .
Nella Lettera 79, affronta la questione della poesia e della vera gloria. Attende da Lucilio una descrizione dell’Etna, invitandolo perfino a scalare il vulcano, per poi ispirarsene per un poema : “… c’è da scommettere che ti accingi a descrivere nel tuo poema l’Etna e a toccare un tema che attira tutti i poeti. Il fatto che lo avesse già svolto Virgilio non impedì che lo trattasse Ovidio, e poi anche Cornelio Severo. Inoltre, quest’argomento ha portato fortuna a tutti, e quelli che l’hanno trattato per primi, a mio avviso, non si sono accaparrate le cose da dire in proposito… C’è molta differenza fra un soggetto ormai esaurito e un soggetto che altri hanno preparato; quest’ultimo si arricchisce col passar del tempo… la condizione migliore è quella dello scrittore ultimo arrivato: trova già pronte quelle espressioni fondamentali dell’argomento che, disposte diversamente, acquistano un nuovo aspetto… O io non ti conosco, o l’Etna ti fa già venire l’acquolina …: tu desideri scrivere qualche grande opera uguale alle precedenti…
E’ questo, o carissimo Lucilio, il nostro dovere: tendere col massimo slancio alla meta, anche se sarà raggiunta da pochi o da nessuno [34]. La gloria è l’ombra della virtù, l’accompagnerà sempre…” [35] .
Come sempre in queste lettere, anche la narrazione letteraria deve, in sostanza, mirare al perfezionamento dell’animo e del comportamento umani. Interessante pure la Lettera successiva, la 80, dove la vita umana viene indicata come la recitazione di una pessima commedia, in cui gente incapace ma tracotante si copre di una maschera per stare sulla scena: anche questo giudizio ha un evidente fine morale. Occorre essere se stessi, non recitare: principio quanto mai valido allora come oggi, in cui si presentano forti analogie con la Roma di 2000 anni fa .
Nella Lettera 84, si torna ad argomentare sulle letture: il leggere buoni libri viene paragonato da Seneca all’opera delle api che, dal nettare dei fiori, ricavano il miele ancora più dolce : “… non ho sospeso le mie letture. Credo che la lettura mi sia necessaria, anzitutto perché m’impedisce di essere pago delle mie meditazioni, poi perché mi fa conoscere le indagini altrui, permettendomi di valutarne i risultati e di integrarli… La lettura alimenta l’ingegno e lo ristora… non dobbiamo limitare la nostra attività né esclusivamente allo scrivere, né alla sola lettura… Dobbiamo, invece, alternare le due occupazioni e integrarle scambievolmente, in modo che le cognizioni acquisite leggendo,… formino un tutto organico. Imitiamo, come si dice, le api,… e, come dice il nostro Virgilio: ‘Accumulano il limpido miele e riempiono le cellette del dolce nettare’…
… anche noi dobbiamo imitare le api: cominciando col distinguere… quanto abbiamo raccolto dalle diverse letture; poi, col diligente lavoro dell’ingegno, dobbiamo fondere in un pensiero coerente il frutto delle diverse letture, in modo che, quand’anche non si possano nascondere le fonti…, appaia… un’impronta personale…” [36] .
Le opere altrui sono per noi gli elementi da cui trarre, per contenuto e forma estetica, una nostra sintesi: caratterizzazione personale sì, ma non pretese di assoluta originalità: così in sede di ricerca scientifica, come di creazione estetica . Più avanti, paragona questo lavoro di sintesi al canto corale, in cui voci più acute e voci più gravi, infantili, femminili e virili, si fondono in un unico canto, in cui quasi non si distinguono.
Lettera 87. Qui affronta un tema abbastanza nuovo rispetto a quelli esaminati finora che vertevano soprattutto su letteratura e oratori: vi si accenna all’arte musicale e al suo possibile valore estetico-etico, contrapponendo una concezione stoica a quella aristotelica. Gli stoici vedono positivamente l’arte musicale, sia sotto l’aspetto etico che estetico, e perciò la qualificano buona, gli aristotelici – invece – vedono la “bontà” solo nell’aspetto tecnico. Cosi si chiarisce il concetto di bontà dell’arte musicale Seneca : “… non vogliamo dire gli strumenti del musicista, ma quello che lo rende musicista… Voglio spiegarmi meglio: nella musica la parola ‘buono’ può avere due significati, secondo che uno giovi all’esecuzione musicale, o giovi all’arte. I mezzi meccanici, il flauto, la lira ed altri strumenti, si riferiscono all’esecuzione, ma non riguardano l’arte in se stessa. Infatti l’artista è tale anche senza gli strumenti, sebbene non possa forse esercitare la sua arte…” [37].
Si precisa anche che tale contrapposizione con i peripatetici rientra in sillogismi sulla natura morale dell’uomo (qui adotta una definizione divenuta celebre, e usata pure da Petronio nel suo “Satyricon”: “su tali uomini il denaro cade, come in una cloaca”[38]. Feroce, vero ? Ma realistico ed efficace !) .
La Lettera 88 riguarda la valutazione, non granché positiva, di Seneca verso le arti liberali, che preparano ad una formazione completa, ma non costituiscono da se stesse tale formazione : “ Tu vuoi sapere la mia opinione sulle arti liberali. Non apprezzo né annovero fra i veri beni questi studi che fanno arricchire. Sono arti venali, utili in quanto preparano l’ingegno, purché non lo trattengano oltre il necessario. Bisogna attendere ad esse solo finché l’animo non sia capace di fare qualcosa di più importante… Tu sai perché si chiamano studi liberali: perché sono degni di un uomo libero. Ma un solo studio è davvero liberale e fa veramente l’uomo libero: lo studio della sapienza [ovvero, la filosofia, così come viene resa quale termine latino], che è sublime, forte e generoso; gli altri sono sciocchezze puerili… Secondo alcuni ci si deve porre il problema se gli studi liberali siano adatti a formare il saggio; ma tali studi non hanno né la pretesa né l’aspirazione di darci questa scienza…” [39]
Secondo il nostro filosofo, la grammatica si occupa di lingua e talvolta di storia del linguaggio (etimologia, filologia), talvolta di critica poetica. Neppure geometria e musica gli sembrano adeguate al fine della formazione dell’uomo libero. Parla poi di Omero e di Esiodo, come saggi: ma la loro saggezza è più che altro mitologia, come descrizione, narrazione, non tanto analisi dei miti. E trae ad esempio certe questioni, da certi trattate, sul come mai Ecuba, più giovane di Elena, fosse presto invecchiata, o determinare l’età di Patroclo ed Achille (come si sa, personaggi mitici non hanno età, sono fuori dal tempo: lo vediamo anche oggi in certi romanzi di serie e films, diventati noiosissimi, perché ripetitivi: cito ad esempio James Bond, il commissario Montalbano, o don Matteo, ecc., e che pure piacciono, appunto perché mitici, a bambini e adulti rimbambiti…).
Della musica (ecco che qui torna sull’argomento) scrive :
“…. Passiamo al campo musicale: tu mi insegni come voci acute e gravi si armonizzino, e come corde che rendono un suono diverso producano un accordo perfetto: fa’ piuttosto in modo che il mio animo sia in armonia con se stesso e i miei propositi siano in perfetto accordo fra di loro. Tu mi insegni quali sono i suoni lamentosi: insegnami piuttosto a non lamentarmi nelle avversità…” [40] .
Qui, a dire il vero, sentiamo una certa a-criticità (in parte tipica dello stoicismo) nei confronti di ciò che non si condivide: la musica, se parliamo di musica e non della rumorica dominante nel secolo XX e primo ventennio del XXI (frastuono ritmato, accompagnato da urli e stridii da tregenda infernale…: il massimo della confusione estetico-cerebrale si nota in quei conduttori di Radio RAI, che pongono sullo stesso piano la musica sinfonica dell’Ottocento e la sedicente musica jazz, rock o metal, o altre brutture del genere; addirittura sentir vantare certe dissonanze di certa anti-sinfonia novecentesca che si illude di rendere “bella” la rumorosità industriale o stradale !), è una grande educatrice, stimolatrice di sentimenti e di educazione molto elevati. Lo seppero già gli antichi citando Tirteo, che incoraggia gli Spartani alla battaglia con i suoi canti bellici. Pensiamo, noi Italiani d’oggi, all’enorme importanza che poesia, musica e canto ebbero, nel nostro Risorgimento, nello stimolare alla lotta ed incoraggiare i nostri non lontani antenati. Qui, in sostanza, Seneca è in una vena polemica (forse pensava ai canti di Nerone ? Chissà…), che ovviamente fu ricambiata dai suoi detrattori. Così, a nulla serve la matematica per l’educazione morale, perché è semplicemente strumentale (qui in evidente critica con il pitagorismo originario, il neopitagorismo romano e lo stesso platonismo). Se la prende pure con il Diritto civile e l’astronomia, estesa alle interpretazioni astrologiche e alla meteorologia. Esclude altresì altre arti, specie figurative, da quelle liberali. Non nega la loro utilità pratica quotidiana, ma per l’acquisizione della virtù. Approfondisce ulteriormente il tema, ma in certo modo non fa che ripetersi: l’unica vera arte liberale è, quindi, l’etica, che insegna come acquisire ed applicare la virtù. Il resto è solo propedeutico, nel migliore dei casi .
Ora, con un certo salto, arriviamo alla Lettera 100: Lucilio ha iniziato a leggere testi di Fabiano Papirio, uno dei maestri di Seneca, di cui non apprezza lo stile. Il Nostro cerca di spiegargli perché vada apprezzato anche in questo, e non solo per i contenuti : “… ne critichi lo stile, dimenticando che si tratta di un filosofo. Ammettiamo che sia come tu dici e che nell’opera ci siano espressioni buttate giù senza essere ben coordinate. Anzitutto anche questo stile ha la sua grazia, che consiste nella scorrevolezza del discorso: infatti, penso che ci sia una bella differenza fra il gettare parole a caso e lasciarle scorrere… lo stile di Fabiano, a mio avviso, fluisce, ma non straripa: è ampio e ordinato, ma non senza slancio. Ciò dimostra… che l’opera esprime senza fatica, e con immediatezza il pensiero dell’autore… egli si propose di educare i costumi, non di formare belle frasi… è già molto che l’opera provochi interesse… Fabiano non aveva preoccupazioni stilistiche, senza per questo essere trascurato. Perciò non c’è in lui nulla di volgare. Le parole sono scelte, ma non ricercate, né assumono significati strani e contorti, secondo la moda degli scrittori contemporanei… I pensieri sono giusti e bene espressi, in una forma ampia e non nella troppo succinta forma sentenziosa. Si potrà trovare qualche sovrabbondanza, qualche costruzione un po’ dura per il gusto contemporaneo; ma, esaminando tutta l’opera, non si troveranno oscurità né espressioni prive di contenuto…” [41] .
Riconoscendo che vi sono più stili e più gusti verso lo stile da scegliere, Seneca procede poi a considerare quello di Cicerone, in cui la prosa è unitaria e scorrevole, mentre quella di Asinio Pollione presenta una certa asprezza, frasi spezzate in modo inatteso. Torna poi all’elogio di Fabiano Papirio, di cui apprezza il grado di convinzione per le tesi espresse, e cita anche Tito Livio, come storico, ma anche come autore di opere filosofiche (che non ci sono rimaste, come del resto vari libri delle sue “Storie”).
Lettera 108: parla dell’insegnamento filosofico di un altro suo maestro, Attalo, riferendosi agli interessi e ai gusti, spesso opposti, degli ascoltatori nei confronti dei conferenzieri. Alcuni amano i bei discorsi, la bella voce, il modo di recitare (anche di non attori…), altri invece - più seri e più amanti dello studio - sono attratti dalla bellezza dei contenuti e cercano di attuare i princìpi etici che apprendono. Un modello, per questo secondo tipo di ascoltatori fu, secondo il nostro moralista, proprio Attalo : “Quando ascoltavo Attalo inveire contro i vizi, i disordini, i mali della vita, ho avuto spesso un senso di commiserazione per il genere umano e ho giudicato quel maestro un essere sublime, superiore a tutto ciò che c’è di grande sulla terra…; e per me, egli era più che un re, se poteva permettersi di censurare i re. Quando si metteva a far l’elogio della povertà…, spesso io avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a sferzare i piaceri, a lodare la continenza, la sobrietà nei cibi, la purezza di un’anima che si astiene non solo dai piaceri illeciti, ma anche da quelli superflui, ero pronto a proibirmi ogni peccato… Di queste lezioni, o Lucilio, mi è rimasto qualcosa… [ma confessa:]; poi, tornato alla vita di ogni giorno, ho serbato pochi dei miei propositi iniziali…”[42].
Nelle pagine successive si riferisce anche al Virgilio delle “Georgiche” e dell’ “Eneide”. Qui troviamo anche un curioso rapporto tra filosofia e filologia che ricorda considerazioni vichiane, ma per Seneca il passaggio alla filologia dalla filosofia è una distorsione negativa, mentre per Vico si deve appunto passare dalla filologia alla filosofia come transito necessario (lo studio delle parole è condizione per lo studio dei concetti). Il filosofo romano insiste sull’esigenza di cercare nel pensiero altrui le idee (soprattutto se valide), non le figure retoriche o le nozioni grammaticali .
Relativamente allo stile e, soprattutto alla conseguenza tra corruzione nella vita e corruzione dello stile (tema anche tacitiano), è interessante la Lettera 114 in risposta alla domanda fattagli da Lucilio sul medesimo argomento:
“ … La ragione è quella stessa che senti proclamare da tutte le parti; essa è nel motto… presso i Greci: ‘Tale il parlare degli uomini quale la loro vita’. Ora… capita che il linguaggio di un’epoca sia lo specchio dei costumi, quando un popolo ha perso ogni ritegno… E’ un indice di corruzione il linguaggio affettato quando… è generalmente accettato e gradito. Non è possibile che nell’intelletto non si riflettano le caratteristiche dell’anima. Se questa è sana, educata, austera, temperante, anche l’intelletto è vigoroso e sobrio. Se l’anima è viziata, trasmette il suo contagio anche all’intelletto…”[43].
Ma non soltanto, l’anima corrotta dall’intelletto si proietta alla mobilità e agli atteggiamenti del corpo. Critica in questo Mecenate, il consigliere e ministro di Augusto, tuttora sinonimo di chi protegge le arti: di lui, Seneca dice che aveva mollezza nel portamento, mentre il suo modo di esprimersi era elegante, però contraddittoriamente lo qualifica anche come “rilassato”, il che farebbe supporre una certa volgarità. Ma insieme era anche difficile, con un’espressione che oggi potremmo dire “marinista”, con iperboli e licenze linguistiche. Nel vestirsi restava spesso quasi discinto. Nemico della violenza, era clemente per mollezza e non per mitezza. Insomma a Seneca, il povero Mecenate (uno di quegli Etruschi d’origine, che Orazio definiva “obesi”, ma tale non appare in un suo busto). Dopo questo tentativo di demolizione morale di un uomo, che ancora oggi apprezziamo per l’amore dell’arte che sosteneva finanziariamente (e che, secondo altri narratori, non fu moralmente così negativo come ce lo rappresenta qui Seneca, che doveva averlo conosciuto da ragazzo…), Seneca sostiene che non è da meravigliarsi che la corruzione del linguaggio sia apprezzata anche da classi sociali colte. Stranamente qui, l’uomo che punta di regola ai contenuti, condanna la variazione stilistica e le mode, sia chi usa arcaismi risalenti alle XII Tavole, sia chi è triviale. Anche nella sintassi dichiara di non amare la frase spezzata e dissonante (del già citato Asinio Pollione, ma anche dello stesso Fabiano Papirio). Critica anche uno storico Arrunzio (il nome ne scopre l’origine etrusca latinizzata: ARNTH), che imita, peggiorandolo, Sallustio. Poi, più in generale, Seneca osserva all’amico :
“… Il modo di esprimersi dell’uomo violento è violento; un uomo molto emotivo parla concitatamente; il linguaggio di un effeminato sarà tenero e senza nerbo.
Seguono questa tendenza… coloro a cui piace essere in tutto o in parte sbarbati… indossano mantelli di colori eccentrici, o toghe trasparenti… qualcosa che permetta loro di farsi notare… Tale è lo stile di Mecenate [ e “ridaje…”, direbbero i “romaneschi” d’oggi…] e di tutti quelli che cadono in vizi stilistici non per caso, ma con piena consapevolezza. Un tale atteggiamento deriva da una profonda decadenza morale… Perciò si abbia cura dell’anima… Se essa è sana e valida, anche il linguaggio è forte e virile…” [44] .
Così non manca di concludere con una pesante critica ai dissennati costumi, che lo accomuna ai primi Cristiani giunti a Roma, ma anche a laici come Quintiliano o Tacito, segno che quel “libertinismo” sessuale, che oggi riteniamo denigrato solo dai Cristiani, in realtà era oggetto di severe critiche da ogni mente effettivamente ed eticamente pensante: un popolo che rigetta regole severe anche nel costume sessuale non ha lunga o prospera vita, senza voler cadere per questo in ipocriti bacchettonismi: non si tratta di vietare una certa libertà responsabile nei rapporti affettivi, ma di non dimenticare mai quale sia il fine biologico dei rapporti psicofisici tra persone dei due sessi, e l’esistenza del sesso, come stato biologico e legge naturale, che non ha, né può avere fine in se stesso .
Nella Lettera 115, Seneca definisce la virtù come l’azione o il modo d’essere più belli in assoluto per quanto riguarda l’essere umano e il suo comportamento. Ribadisce anche qui il rapporto tra stile e personalità dello scrittore :
“… Ogni volta che vedi uno stile laboriosamente raffinato, sappi che l’anima dell’autore è anch’essa tutta occupata in queste meschinerie. Il linguaggio di chi è veramente grande è più pacato e sereno: quello che egli dice esprime un senso di sicurezza, senza preoccuparsi della forma. Tu conosci certi giovincelli con la barba e i capelli lucenti, tutti attillati. Non sperare da essi niente di forte… Lo stile è espressione dell’anima: se ben acconciato, imbellettato, artificiosamente curato, rivela che anche nell’anima c’è qualcosa di malsano e di corrotto… Se ci fosse possibile penetrare con lo sguardo nell’anima di un uomo virtuoso, che aspetto di bellezza e di santità… [cita ancora Virgilio dall’ “Eneide”, paragonando l’anima ad una bella e, insieme, casta donna]… potremo vedere distintamente la virtù, anche nascosta in un corpo deforme, anche sotto il manto della povertà, anche attraverso l’abiezione e l’infamia. Sì, vedremo la sua bellezza, anche se fosse coperta di cenci… Si dia alle parole l’ordine che si vuole, purché essa sia grande, indifferente ai pregiudizi, e si compiaccia giustamente di ciò che provoca il biasimo altrui…”[45] .
Lettera 120. Insistendo sul rapporto tra bello e buono, come onesto e non come comodo, il filosofo romano fa coincidere ogni atto moralmente buono, insigne, con l’atto bello : “… Da quali segni, dunque, il nostro intelletto ha riconosciuto la virtù? L’ha riconosciuta dall’ordine e dalla bellezza che sono insiti in lei; dalla costanza dei suoi princìpi; dall’armonia che regna in tutte le sue azioni…” [46] .
Infine, nella Lettera 122 in cui invita (quasi preludendo in questo a certe concezioni di Rousseau) a seguire in tutto la natura, sia in generale, sia relativa all’uomo, parla del poeta (oggi ignoto) Paolo Montano che leggeva i suoi versi per ore, suscitando noia in taluni. Ad una descrizione di una rondinella che porta il cibo alla propria covata, un cavaliere di nome Varo (ignoro se parente del generale romano sconfitto a Teutoburgo da Arminio, ma certo non guerriero…), frequentatore parassitario di cene, replica citando un comune conoscente di nome Buta che viveva di notte e dormiva di giorno: un sintetico quadretto di come, in certi ambienti, si creava poesia e come si ascoltava [47].
V
CONCLUSIONE
Certamente agli studiosi di estetica le valutazioni morali e, in parte, moralistiche, quali suggerite da Seneca, sembreranno non solo eccessive, ma del tutto fuorvianti rispetto ad una questione che deve essere del tutto autonoma dai contenuti affrontati. Si dovrebbe pensare, secondo costoro, ad un’arte e ad una bellezza puramente formali, il cui unico obiettivo sarebbe il perseguimento di una novità continua, di un relativismo asettico che segua questa o quella moda puramente provvisoria, ottenendo l’applauso di folle urlanti e, insieme, insensibili: ma poi? Crea veramente soddisfazione, un piacere non epidermico ma interiore ed interiormente profondo? che quindi formi una coscienza integrale, che non può essere puramente estetizzante, pena l’autodistruzione della coscienza in generale, se non altro creando uno stato schizofrenico tra coscienza intellettuale ed etica e coscienza estetica, in ciascun uomo come essere pensante, volente ed agente. La storia ha dimostrato, e di nuovo sta dimostrando, che la separazione tra il mondo della Ragione logico-etica e il mondo del Bello (quelli che Kant definiva Ragione e Giudizio) conduce inesorabilmente all’annientamento dell’Uomo .
Detto ciò, con valore generale, nella teoria dell’estetica, vi è tuttavia - a mio avviso - da fare una netta distinzione tra le valutazioni dell’Arte e del Bello e la valutazione di ogni singolo artista e della sua opera, che vanno visti e giudicati in base agli obiettivi, espliciti o impliciti, dell’artista stesso, in modo da valutare se e quanto siano stati raggiunti, e quanto siano stati trasmessi al lettore o all’osservatore di quelle opere. Poniamo ad esempio che un romanziere pretenda di descrivere la realtà quotidiana ed oggettiva: egli dovrebbe dirci, se fosse logico, intanto che cosa sia a suo parere la realtà quotidiana e contingente, che pretende di descrivere; poi si dovrebbe verificare se la sua descrizione sedicente realistica è tale da convincere il lettore “medio” [48] alla medesima convinzione, e se questa suscita una qualche commozione, una qualche reazione positiva, sul piano dei sentimenti o dei ragionamenti, per non dire di misure educative e sociali da assumere per migliorare un ambiente decaduto o putrido .
NOTE
[1]“L’ Educazione e la Didattica dall’arte alla scienza”: analisi sistematica dei programmi per il Concorso Magistrale di quegli anni .
[2] Fase molto importante per me, perché essendo quel mese appena entrato in ruolo e con complicazioni burocratiche, potevo dedicare alla frequenza delle lezioni molto meno tempo. In quei primi mesi, non potendo usufruire di supplenze per cause del tutto burocratiche, ebbi l’aiuto disinteressato della collega Mirta Marinatto di Sesto al Reghena (PN), che mi sostituì molto generosamente in occasione di alcuni miei esami.
[3] Riguardava il progresso e la decadenza, temi di filosofia della storia, preferibile all’altro argomento sui soliti (allora…) confronti fra cristianesimo, Marx, e Freud alla base della cultura contemporanea .
[4] Per tradizione popolare, a cui aderì anche Dante Alighieri, Epicuro e gli Epicurei, in quanto sostenitori del “piacere”, erano dei gaudenti. Noi, certamente a maggior conoscenza degli originali scritti, ancorché frammentari, di Epicuro e seguaci, sappiamo che per essi il “piacere” era pura assenza di dolore, apatia ovvero non-sofferenza; tendenzialmente materialista per la teoria, desunta da Democrito, degli atomi, non negavano tuttavia l’esistenza degli dèi, viventi negli intermundia, felici nella loro perfezione e indifferenti (non meno dell’aristotelico Atto Puro: cfr. Deismo) alle problematiche umane, in questo ben diversa dottrina da quella stoica che, viceversa, sosteneva con la pronoia la provvidenza della divinità nel mondo. In effetti, si confuse ben presto la Scuola socratica di Cirene (più vicina al desiderio di piacere fisico, come godimento positivo) con l’epicureismo, che mirava semmai a far avvicinare il saggio alla condizione di apatia divina .
[5] Diogene Laerzio, nella sua opera “Vite dei Filosofi Illustri”, delinea già con sufficiente chiarezza questa supremazia morale nel rapporto tra il pensiero e l’azione: “Il virtuoso non ha solo una formazione teoretica, ma sa anche tradurre in pratica le sue convinzioni dottrinali. La sua azione si articola con un senso preciso della dignità della scelta, della risoluta e ferma fedeltà alla dottrina e infine alla rigorosa imparzialità, così che colui che realizza partitamente questi criteri è, al tempo stesso, prudente, coraggioso, giusto e moderato. Ogni virtù infatti costituisce un principio- base che guida alla realizzazione di un compito particolare…” (riportato da Carlo Sini, “I Filosofi e le Opere”, vol. I “L’Età Antica e il Medioevo”, pag. 272).
[6] Si tratta di una satira di quella procedura di Apotheosis ovvero divinizzazione degli imperatori, in riferimento proprio alla morte di Claudio, ma cominciata - se si vuole - già con Romolo e ripresa quindi con Augusto. Claudio, allude sarcasticamente Seneca anche se non ne completerà la descrizione, diverrà non un dio, ma una zucca…
[7] Così ben raffigurato, sia da Tacito, sia simpaticamente da Sienkiewicz nel suo celebre “Quo Vadis?”.
[8] Molti storici decantano l’affermarsi dell’Impero, sulla scìa di certi canti oraziani e virgiliani, come lo stabilirsi di un’era di pace e di stabilità: il che è veramente ingenuo, perché confonde la propaganda augustea ed imperiale in genere con la realtà storica. Infatti, se il discorso regge dalla sconfitta di Antonio e Cleopatra alla morte di Augusto (14 d. C), l’argomento non regge più fin da Tiberio, l’oppressione esercitata dal suo ministro Seiano e la rivolta violentissima contro di lui e la sua famiglia. Basti poi accennare ai regni di Caligola, Nerone ed alla conseguente crisi della dinastia giulio-claudia (nuove guerre civili) per capire che, eccezion fatta per gli imperatori Flavi ed elettivi, tutto il resto dell’Impero fu una continua lotta politico-militare, che alla fine si concluse con le invasioni ad occidente e il progressivo indebolimento ad oriente. Storia lunga certo, grazie alle capacità organizzative di resistenza di Roma, ma pur sempre di lotte e condizioni atroci. Di estrema sintesi, la valutazione storica di Mazzini quando scrisse : “Roma periva, quando Cesare sorse”. Lunghissima agonia, ma pur sempre agonia: è questa la storia di Roma, dal I secolo a. C. al V secolo d. C. (cfr. G. Mazzini, “Il Cesarismo”, 1865, Cap. V, prima riga) .
[9] Le citazioni delle “Lettere” sono tratte dall’edizione B.U.R. in due volumi con testo latino a fronte, a cura di Luca Canali (Milano, 1987), con traduzione di Giuseppe Monti. La prima è alle pagg. 61 – 63 del I volume .
[10] ibidem, pag. 73 .
[11] ibidem, pagg. 79 e 83. A proposito dei celebri “ludi circenses”, grandissima è l’affinità con la valutazione storica di Mazzini sull’epoca, come espressa in “Dei Doveri dell’Uomo”: “ … Quando, sotto gli Imperatori, gli antichi Romani si limitavano a chiedere pane e divertimenti, erano la razza più abietta che dar si possa e, dopo aver subìto la tirannia stolida e feroce degli Imperatori, cadevano vilmente schiavi dei Barbari che invadevano…” (I. Introduzione, 13° capoverso): ahinoi !, quante affinità con i nostri tempi, aggravati dal fatto che sta mancando il “pane”, ma non ci si fanno mancare i ludi ! Ciò va a corredare la valutazione sulla classe dirigente romana dei due secoli attorno alla nascita di Cristo .
[12] Seneca, “Lettere a Lucilio”, cit., ibidem, pagg. 85 - 89 .
[13] ibidem, pagg. 95 e sgg.
[14] ibidem, pag. 105 .
[15] ibidem, pag. 127 .
[16] ibidem, pag. 135 .
[17] ibidem, pagg. 167 – 169 .
[18] ibidem, pag. 199 .
[19] ibidem, pag. 207 .
[20] ibidem, pagg. 233 – 235. Più in sintesi, un simile pensiero fu espresso anche da Leonardo da Vinci, quando affermò: “Come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene spesa dà lieto morire”. Il punto, sotto l’aspetto filosofico, è più complesso: l’essere umano è per sua natura incontentabile, come può sentirsi soddisfatto pienamente della sua vita ? In coscienza potrebbe dirsi soltanto: “Ho fatto quanto mi è stato possibile fare, non tutto dipende da ciascuno di noi, anzi in gran parte dipende dalle possibilità date dal mondo che ci circonda. Gran parte delle nostre aspirazioni più alte e migliori restano sempre inappagate”.
[21] ibidem, pag. 237 .
[22] ibidem, pagg. 253 – 255. Vi è un’implicita o indiretta critica ai vari Caligola e Nerone, a chiunque ecceda nelle brutture, apparentemente compiacendosi di queste, in realtà creandosi motivi di sofferenza .
[23] ibidem, pagg. 257 – 259 .
[24] ibidem, pag. 261 .
[25] ibidem, pagg. 279 – 281 .
[26] ibidem, pag. 321 .
[27] Verificando la questione sulla ponderosa grammatica latina di Gandiglio – Pighi, trovo che, trattando del verbo sum e dei suoi composti, si conferma che il participio presente non esiste in latino (di conseguenza in italiano, che ne deriva), eppure si smentisce citando Cesare il quale usò ens, entis, però non dice dove – quindi ben prima del Medioevo - , non accettato dagli scrittori a lui contemporanei, e quindi dal latino classico. Questo aggiunge assurdità ad assurdità, perché Cesare è considerato “classico” al pari di Cicerone: perché rifiutargli qualcosa che è pienamente logico, confermato dai composti di sum, ovvero - come citato dai due filologi – absum, adsum, praesum, insum, possum, subsum, desum, intersum, supersum, ecc. ? Cfr. Adolfo Gandiglio e Giovanni Battista Gandiglio, “Corso di lingua latina”, vol. II “Morfologia irregolare”, ed. Zanichelli (Bologna, 1965), Sezione IV, Cap. I, §§ 72 – 73, pagg. 241 - 243 (quest’opera fu indicata tra i testi da acquistare per i suoi corsi, proprio dal sopraccitato prof. Tremoli). Bisogna sottolineare che la scarsità di riferimenti non dimostra necessariamente l’illegittimità di un uso, in quanto potrebbe trattarsi di una carenza dovuta alla perdita della maggior parte di scritti latini per molteplici ragioni, compresi eventuali dibattiti tra grammatici del tempo, di cui ben poco è rimasto .
[28] So che la mia scrittura è inesatta, ma mi è impossibile rendere lo “spirito” ovvero il segno sulla “o”, per mezzo del computer; uso quindi una procedura come si fa nel tedesco con la dieresi o Umlaut .
[29] Op. cit.pag. 399 .
[30] ibidem,pag. 403.Cfr. anche la Lettera 66, dove identifica nella nostra ragione una “particella” dello spirito divino (pag. 409) .
[31] ibidem, pag. 503 .
[32] Ne trasse ispirazione un Dante Alighieri che non usò frasi tenere o seducenti per i cittadini d’Italia, né per i vari Stati o governi del proprio tempo.
[33] ibidem, pag. 505 .
[34] E’ lo stesso obiettivo che 1800 anni dopo si pose anche Fichte nelle sue lezioni sulla “Destinazione del Dotto” .
[35] Seneca, op. cit., pagg. 549 – 553 .
[36] ibidem, vol. II, pagg. 603 – 605. Il paragone con le api sarà ripreso circa 1600 anni dopo dal filosofo britannico Francis Bacon .
[37] ibidem, pag. 641 .
[38] Il testo di Seneca suona così in latino : “...pecuniam inspurcavit ? quae sic in quosdam homines quomodo denarius in cloacam cadit…” (letteralmente “…sporcò la moneta ? che così cade sopra codesti uomini, al modo in cui un denario in una cloaca…”). Ibidem, pag. 642 , III e IV riga .
[39] ibidem, pagg. 653 – 655. Questo severo attacco contro le arti liberali (quelle che nel Medioevo verranno chiamate trivio e quadrivio, o “le sette arti liberali”) spiega poi le critiche successive di rètori e grammatici, o la difesa che Quintiliano fece della retorica contro la filosofia (ma in sostanza utilizzando un’impostazione critico-filosofica), e l’acrimonia di Frontone contro lo stile di Seneca .
[40] ibidem, pag. 657 .
[41] ibidem, pagg. 845 – 847. Seguono le valutazioni su Cicerone e Asinio Pollione, che dovrebbe essere lo storico delle guerre civili .
[42] ibidem, pagg. 905 sgg.; il brano citato si trova alle pagg. 909 – 911. Su Attalo, cfr. anche la Lettera 110 sulla felicità umana, alle pagg. 937 – 939 .
[43] ibidem, pagg. 957 – 959 .
[44] ibidem, pagg. 967 – 969 .
[45] ibidem, pagg. 973 - 981 .
[46] ibidem, pagg. 1019 e 1023 .
[47] ibidem, pagg. 1045 - 1047 .
[48] Per “medio” in questo caso, più che il risultato astratto di un calcolo matematico, intendo il tipo di lettore prevalente, senza una grandissima formazione culturale e con una sensibilità non elevatissima, ma comunque non indifferente a ciò che legge. Chissà perché il concetto di “realtà” di questi scrittori pretesi “realisti” è sempre o scialba (mediocre), o infima (sporca): pare che della “realtà” non abbiano altri concetti… Possibile che la realtà debba essere solo un avvoltolarsi nella melma e nel loto con piacere, come i porci nel brago, e non con disgusto, oppure l’Uomo, essere fisico ma anche spirituale, deve tendere a sollevarsi da tutto questo ?
Se, per scrivere, occorre scrivere mediocrità, nullità o bassezze, a che scopo, per un lettore, interessarsene, visto che ne vede anche troppe ogni giorno in ogni angolo di strada ? E’ quello che dovrebbero spiegare, ai lettori e ai critici, questi vantati “realisti” .
CONSULTAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Opere Classiche :
Petronio, “Satyricon”, ed. it. BUR (Milano, 1953), traduzione e prefazione di Ugo Dettore (relativamente all’estetica petroniana, §§ 117 – 124) .
Tacito Publio Cornelio, “Annali”, Libri II – XVI (Dinastia Giulio-Claudia), testo latino a fronte, ed. Newton-Compton (Roma, 2011), introduzione e traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, pagg. 90 – 629 .
Tranquillo Gaio Svetonio, “Le Vite dei Dodici Cesari”, particolarmente le Vite di Caligola e Nerone , Libri II - VI; ed. it. Rusconi (Milano, 1994), a cura di Gianfranco Gaggero, pagg. 449, 521, 556 e 575 .
Opere generali di Letteratura Latina :
Marchesi Concetto, “Storia della Letteratura Latina”, ed. Principato (Milano, 1968), voll. 2, particolarmente vol. II: su Seneca padre e “rètore”, pagg. 35 - 36, su Petronio, pagg. 102 – 125; su Lucio Anneo Seneca “il filosofo”, pagg. 227 – 257 .
Serafini Augusto, “Storia della Letteratura Latina - Dalle origini al VI secolo
d. C.”, ed. SEI (Torino, 1965), specialmente su Seneca padre, pagg. 262 – 263; su Seneca il filosofo, pagg. 264 – 280, su Petronio, pagg. 291 - 297 .
Opere generali di storia della filosofia :
Pohlenz Max, “La Stoa”, ed. it. La Nuova Italia (Firenze, 1978), traduzione di Ottone De Gregorio, prefazione di Vittorio Enzo Alfieri, note di Beniamino Proto, voll. 2, particolarmente vol. II, pagg. 56 – 104 .
Robin Léon, “Storia del Pensiero Greco”, ed. it. Einaudi (Torino, 1982), traduzione di Paolo Serini, pagg. 415 - 447 .
Testi di riferimento di L. Anneo Seneca e su Seneca :
Lucio Anneo Seneca, “Lettere a Lucilio”, Libri XX, ed. it. BUR (Milano, 1987), testo latino a fronte, voll. 2, Introduzione di Luca Canali, traduzione e note di Giuseppe Monti .
D’Accinni Izzo Augusta, “ L. Anneo Seneca - Antologia delle Opere Filosofiche” - Introduzione, commenti e note, ed. Società Editrice Dante Alighieri (Città di Castello, 1986) .
D’Agostino Vittorio, “Pagine di Vita e di Cultura Romana” - Introduzione e note - ed. SEI (Torino, 1966) .