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MANLIO TUMMOLO
Certezza del diritto come mito dei nostri tempi
“Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te che fai tanto sottili
provvedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinnovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.”
Dante Alighieri ‘Purgatorio’ Canto VI, vv.139 - 151
"Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?...”
Dante Alighieri “Purgatorio”, Canto XVI, v. 97
(Discorso dell'anima di Marco Lombardo a Dante, nel Terzo Girone)
“La sapienza purga la mente con verità eterne, virtù queste con cui apparecchia l’animo, perfezionando in tal modo l’una e l’altra parte della interiorità umana. Onde allo stesso modo che è proprio degli stolti errare in perpetuo, dolersi senza interruzione, sbandarsi ora da una parte ora dall’altra, spiacere sempre a se stessi (perciò li abbiamo chiamati castigatori di sè stessi per la loro stoltezza), allo stesso modo è conforme alla sapienza essere coerente in ogni sua singola sentenza, in modo tale che il sapiente sia coerente in tutta la sua vita...”
Gianbattista Vico "De Constantia Iurisprudentis”
Premessa, 3, in "Opere Giuridiche", ed. Sansoni (Firenze 1974), trad. it. Sandro Barbera, pag.348
(I)
Il Mito, in ogni epoca, presenta due aspetti che lo caratterizzano: un aspetto positivo, in quanto idea promotrice di progresso, di sollecitazione al perfezionamento dell' uomo, ed uno negativo, quando non essendo coordinato alla ragione e al senso del limite della stessa, pretende di saltare di colpo ad una Realtà Superiore. Nel primo senso, lo paragonerò all'orizzonte, in quanto linea prospettica apparente. Orbene, il voler avvicinarsi all'orizzonte, che di per sé è irraggiungibile proprio perché la sua apparente distanza si mantiene sempre identica rispetto a noi (pensiamo ad un viaggio per mare o in una piatta e desolata pianura), è impossibile, pur tuttavia tale irraggiungibilità ci consente comunque di percorrere e conquistare un vasto spazio: cosi il Mito, nel suo senso positivo, non ci consente di realizzarlo, ma, ciò nonostante, ci sollecita a muoverci, a progredire, a realizzare in noi e fuori di noi un miglioramento: è dunque, per la nostra volontà di agire, un Motore Immobile.
Viceversa, nel senso negativo, la pretesa irrazionale ed irrealizzabile di cogliere il Mito nella sua essenza ed immediatezza, di renderlo "concreto", di possederlo ''materialmente", finisce in una sorta di evasione dalla realtà, in modo non solo da non avanzare, bensì di retrocedere, sia a livello mentale, sia a livello sociale. Il Mito in senso negativo costituisce perciò un fatto controproducente: non rappresenta più un Motore Immobile, bensì un semplice Mosso Immobilizzante per il pensiero umano.
(II)
Rispetto al tema, che qui mi propongo, occorrerà rispondere all'interrogativo, se la locuzione ''certezza del Diritto", cosi troppo abusata dai giuristi e talvolta anche dai politici, costituisca in realtà un Mito in senso positivo o in senso negativo, soprattutto rispetto alla mentalità contemporanea, che rifiuta il concetto di trascendente: in tal caso rappresenta un mero slogan, un'insignificante interiezione intercalata a ripetizione. Infatti, quando la questione del Diritto si fondava su un'entità superiore, come nelle teorie del Diritto divino e del Diritto naturale (intesi come immutabili Fondamenti del Diritto umano), il concetto dì "certezza del Diritto" aveva indubbiamente una sua ben determinata consistenza; ma quando e come al Diritto si è voluta dare una base puramente umana, e pertanto convenzionale, il medesimo concetto, riducendosi a pura formula, ha assunto un senso quasi schizofrenico, comunque autocontraddittorio, e sicuramente ambiguo, nel senso deteriore del termine, quando lo si è fondato sulla sola forza materiale.
Per procedere, quindi, in modo logicamente rigoroso, è opportuno analizzare separatamente i due termini della formula "certezza del Diritto" e, ove possibile, determinare la loro esatta natura.
Che cosa, infatti, intendiamo per 'certezza'? Sicuramente, non verità o realtà della cosa di cui parliamo. Infatti, per primi sono proprio i giuristi (in quanto sostenitori del Dìritto positivo) a separare la natura reale e vera delle cose e dei principi in generale dalla natura convenzionale, formale ed esteriore, dei principi giuridici. Una delle prime cose che vengono insegnate nelle lezioni di Diritto costituzionale e di Diritto privato nella Facoltà di Giurisprudenza è la netta separazione, quasi contrapposizione, tra Diritto e Giustizia: eppure i Palazzi giudiziari vengono chiamati 'Palazzi di Giustizia', il Ministero che regola l'amministrazione giudiziaria e carceraria è chiamato "della Giustizia", gli interrogatori di polizia vengono definiti "a scopo di Giustizia"; perfino le esose spese forensi vengono chiamate "spese di giustizia”!
Togliendo il fondamento ontologico spirituale al Diritto, finiscono per sostituirlo con un traballante sostegno materiale (dato dalla semplice Forza) o un ancor più traballante sostegno psicologico, la convenzione, il semplice patto, il contratto. E' evidente che, se trasgredire il Diritto in quanto semplice convenzione è anche troppo facile, è più difficile trasgredire un Diritto fondato sulla forza materiale, fin quando tuttavia una forza materiale minore non viene travolta da una forza materiale maggiore.
Per i giuristi positivisti, "certezza" equivale allora a stabilità, permanenza nel tempo e nello spazio, parità di applicazione in ogni singolo caso. Ma è anche troppo evidente che una simile stabilità o permanenza non esiste e non è mai esistita (i versi di Dante, preposti alla presente relazione, dimostrano come tale stabilità sia sempre stata un'aspirazione, mai una realtà effettiva, nemmeno nell'Italia del Duecento - Trecento, che pure consideriamo un'epoca ben più lenta o statica della nostra). E' anche troppo facile rilevare che ogni caso è un caso a sé, che va visto nel suo concreto svolgersi, per cui una parità di trattamento è impossibile: si procede per analogie, per somìglianze più o meno accentuate, mai per un'identità dì fatti. In costante trasformazione, non sempre evolutiva ma anche involutiva, è la situazione esterna al fatto in esame, per cui la risposta non può essere mai identica col trascorrere del tempo: vedremo più avanti come addirittura a distanza di soli due mesi 1'individuazione di un fatto si modifichi per il medesimo ente giudicante.
Certezza poi, in sede scientifica ed epistemologica come oggi noi la intendiamo, esprime uno stato psicologico relativo, non assoluto; la pretesa, secondo cui possa esistere nel Diritto una certezza assoluta, è appunto un fatto irrazionale e prescientifico, in ogni caso controproducente (1). La scienza moderna, da Cartesio e Galilei in poi, non parte da certezze, ancorché relative, ma dal dubbio, sia pure con la ferma volontà di superarlo. La scienza contemporanea, ancor peggio, appare predisposta non solo a partire dal dubbio, ma a crogiolarvisi in perpetuo, per cui la certezza, relativa o provvisoria che sia, viene spesso rifiutata.
Esaminiamo ora il termine "Diritto": i filosofi del Diritto contemporanei che, prevalentemente, sono filosofi del linguaggio giuridico e dedicano la loro attenzione, in modo talvolta maniacale, alla molteplicità di significati del "Diritto", pretendono di sottolineare le ambiguità dei termini "giustizia", ''permesso", "lecito", "obbligatorio", ''vietato", e così via, occupandosi con molta serietà di sapere se in un giardino pubblico, dove è vietato entrare con veicoli, sia lecito o meno entrare con un'automobilina a pedali o elettrica per bambini: lascio a chi mi ascolta se questi oggetti di discorso meritino dei trattati oppure siano la semplice forma peggiorativa, e meno spiritosa, dell'antica eristica medioevale. Generalmente, ì filosofi contemporanei del linguaggio giuridico hanno una formazione piuttosto giuridica che filosofica; per essi la filosofia è una materia seconda, mentre il Diritto è la prima: ciò spiega la loro insistenza su distinzioni da lungo tempo affrontate e risolte, ma ritenute assai originali. Il loro accanirsi sulla pluralità di significati della parola "Diritto'' si spiega con la loro ignoranza del fatto che, a titolo d'esempio, già nel XIV secolo Marsilio da Padova nel suo "Defensor Pacis" aveva classificato questi significati .
Il problema reale del linguaggio giuridico non è quello della pluralità di significati, una volta che tale pluralità sia individuata, ma quello della sua reale natura, di cui parlerò più avanti. Torniamo al Diritto: che questo termine abbia più significati è cosa conosciuta e, quindi, scontata: non costituisce un reale problema. E' invece importante determinarne l'etimologia. In realtà, dal Medioevo ad oggi, si è reso con 'Diritto' il termine latino jus, che è alla base del termine "iustitia" e che ha uno stretto rapporto con "iubeo" e "iussum", ovvero con il concetto di comando, e con "iuro" ovvero con il giuramento, impegno sacro di natura religiosa. E' pure noto che, nella tradizione latina ''IUS" indica il Diritto umano e ''FAS" il Diritto divino. Se però risaliamo ad un'etimologia più antica, scopriamo come, secondo il Devoto (2), il termine "IUS" derivi da una formula di incitamento, di augurio di buona fortuna, costituita nell'area indoiranica dalle parole "YEUS" o "YEWES". Ancora, come già il Vico aveva intuito, c'è pure uno stretto rapporto tra il nome del Dio supremo "Jupiter, Jovis" (Giove) e i termini di "jus" e di "iustitia".
E' anche troppo facile dedurne che, ancorché "IUS" significhi quello che noi chiamiamo ''Diritto" in senso umano, esso trova la sua radice ideale ed il suo fondamento teorico nella divinità, ed è pertanto permeato da una forte valenza religiosa: in breve, se il Diritto umano non trovasse il suo fondamento nel Diritto divino, esso sarebbe privo di ogni reale consistenza, si fonderebbe sul puro nulla, non avrebbe alcuna ragion d'essere. Ciò spiega, in modo a mio parere ben più preciso rispetto alle vuote disquisizioni sulla molteplicità di significati come, togliendo la base religiosa o metafisica al Diritto, lo si sia privato di ogni fondamento logico di certezza. Altrettanto il termine italiano (come del resto il tedesco"Recht", il francese “droit” mentre non avviene in inglese, salvo che nel concetto di diritto personale "right”) implica insieme un concetto geometrico euclideo “la linea retta è quella più breve che passa tra due punti dati” ed un concetto morale di "rettitudine", nel senso di onestà. In tale accezione i concetti di "Diritto" e di "Morale" sono posti in uno strettissimo rapporto, secondo il quale è "Diritto" ciò che si collega immediatamente e più rapidamente (ma è una rapidità non temporale, bensì qualitativa) alla Legge Morale che è posta da Dio stesso: perciò tale rapporto ha pur sempre un'origine religiosa o metafisica.
In conclusione provvisoria, la locuzione "'certezza del Diritto" assume un proprio significato logico nell'ambito del giusnaturalismo (sia religioso, sia filosofico), mentre è un puro flatus vocis, una semplice formula propagandistica nell'ambito del giuspositivismo, sia che si pretenda di alludere alla 'verità' o 'realtà' del Diritto, sia più modestamente alla sua stabilità, alla sua permanenza nel tempo.
III
Esaminiamo ora, a titolo puramente esemplificativo, alcuni principi o criteri che, a parere dei giuristi, sarebbero posti a garanzia della pretesa "certezza del Diritto". In diritto privato e civile assume una particolare importanza, la cosiddetta “buona fede” (traduzione immediata della formula religiosa latina della "bona fides"). Quale mai scienza vorrebbe o potrebbe fondarsi su un principio simile? "Buona fede", distinta in "oggettiva" e "soggettiva", implica un puro stato psicologico, difficilmente verificabile nella realtà, tanto è vero che negli stessi Diritti penale ed amministrativo non è neppure riconosciuto, se non al massimo come attenuante: difficilmente, per così dire, un cacciatore verrebbe giustificato se dicesse di aver ucciso un collega, perché in "buona fede" lo aveva ritenuto un esemplare dì selvaggina ... dovrebbe dare giustificazioni ben più serie. Né uno scienziato potrebbe giustificare una sua qualche teoria solo perché in "buona fede" la ritiene vera: i suoi colleghi solleciterebbero prove ed argomenti ben più solidamente fondati.
Saprebbe qualcuno indicarmi l'esatto confine tra il "dolus bonus" (ovvero, lo slogan pubblicitario ovviamente iperbolico sulle qualità di un qualche prodotto) e il dolus malus (la vera e propria truffa o il millantato credito, civilmente e penalmente perseguibili), soprattutto collegando i due concetti, tipici del Diritto civile, alle eventuali capacità di intendere e di volere dei destinatari di questo "dolus”? Non è infatti la medesima cosa fare delle iperboli con un bambino, con persona con deficit intellettuale, con una persona comune ed infine con una persona colta, razionale, criticamente formata: i risultati dello stesso dolus potrebbero essere completamente diversi.
Un istituto, utilizzato in ogni ambito del Diritto, è quello della prescrizione, ovvero l'esaurimento della natura e rilevanza giuridica di un fatto, sia civilmente sia penalmente, trascorso un determinato tempo: una cosa o è avvenuta o non è avvenuta; se è avvenuta, ha avuto o non avuto determinate conseguenze: come si può, d'arbitrio e per convenzione, dire che quel fatto ha prodotto determinate conseguenze solo per quel limitato periodo?
I giuristi, con aria di grande sicurezza, ribadiscono in coro che ciò risponde proprio alla "certezza del Diritto". La giustificazione è priva di ogni natura logica: infatti, la prescrizione è un fatto contraddittorio, e ciò lo si dimostra agevolmente se si pensa che più grave è un reato, più lungo è il tempo della sua prescrizione: allora dovremmo pensare che più grave è il reato, più incerto il criterio di giudizio e più incerta la pena? E come mai, per determinati reati, quali il genocidio e simili, non c'è prescrizione? Dovremmo pensare che in tal caso la regola dì diritto che punisce il genocidio sia la più incerta in assoluto?
In realtà la prescrizione non è stabilita per la “certezza del Diritto”, bensì per la "certezza dell'impunità e dell'immunità", nei casi fissati dalla legge, e questa immunità o impunità viene data proprio dall'incapacità del Diritto a determinare nelle sue caratteristiche un fatto, quando questo richieda indagini prolungate o complesse: dunque, nasce dall'incertezza e non dalla certezza del Diritto.
Altro ben noto istituto, che i giuristi reclamano a conferma della "certezza del Diritto", è quello dell'irretroattività ed ultrattivìtà: una legge non può avere effetti su eventi anteriori alla legge o posteriori alla sua abrogazione. La cosa potrebbe sembrare logica se non si considerassero le sue troppe e confuse eccezioni. Intanto, l'irretroattività, almeno in Italia, è applicata al solo Diritto penale, non necessariamente a quello civile e assolutamente non a quello amministrativo e tributario, ancorché l'art. 11 delle "Disposizioni sulla Legge in generale" (e, pertanto, non solo quella penale) solleciti il legislatore ed il magistrato ad intendere l'efficacia della legge solo per il futuro, non per il passato, rispetto alla sua entrata in vigore. Ma le contraddizioni più gravi si presentano in Diritto penale, ove la retroattività è valida, quando è a favore del reo, per cui si applica la norma più favorevole, mentre non si applica quella più sfavorevole, ancorché sia in vigore. Non basta: l'irretroattività comunque permane, anche se più sfavorevole, quando una sentenza è passata in giudicato, sicché il reo, una volta condannato definitivamente, non può giovarsi di norme più recenti e più favorevoli (fatte salve le rivoluzioni, ovviamente...).
Non vale neppure per leggi eccezionali, che perderebbero forza se successivamente la pena, da esse prevista, venisse abrogata o ridotta. Infine, le contraddizioni non cessano passando all'ambito delle procedure in sede penale, che sono ancora diverse. Come, dunque, si può parlare di "irretroattività" come garanzia di "certezza del Diritto "?
IV
Neppure si può parlare di "certezza del Diritto" nel caso di produzione legislativa: infatti, i versi citati di Dante dimostrano che la confusione nell'emanazione, formulazione ed applicazione della legge è un vizio, perlomeno italiano, molto antico: non voglio immaginare cosa direbbe il nostro Sommo Poeta se vedesse in azione i nostri attuali Governi ed il nostro Parlamento, quando perfino la Costituzione, legge fondamentale della Repubblica, viene modificata al ritmo con cui ci si cambia la biancheria La ripetuta modificazione delle leggi è prova che esse sono fatte male già in partenza, a puri scopi propagandistici, mal scritte, mal concepite, praticamente irrealizzabili, per cui si sente l'esigenza di modificarle immediatamente senza neppure un periodo di attuazione concreta, ma le modifiche vengono predisposte con lo stesso criterio, e quindi i risultati finali sono il costante peggioramento della legislazione e la disgregazione dello Stato e della sua autorità ed autorevolezza. Non vi può essere certezza alcuna quando le disposizioni si susseguono senza alcuna interruzione, quando non si riesce a fare in tempo a conoscerle (non dico ad attuarle...), che già si profila un nuovo cambiamento. Qualche animo generoso, negli ultimi decenni, aveva sostenuto che, nella moderna società in costante progresso, erano necessarie riforme continue: la generosità è spesso sinonimo di ingenuità. Proprio perché la società è in costante progresso, sono necessari punti fermi. Nella legislazione sono necessarie leggi chiare, puntuali, salde, che costituiscano un riferimento serio. I casi pratici possono essere regolati da disposizioni più particolari e più variabili, ma i fondamenti devono essere solidi. Le leggi non si fanno a getto continuo, si devono meditare bene, formulare bene, applicare con rigore e coerenza; e solo dopo un periodo abbastanza lungo si possono modificare, riformare, o completamente sostituire. Lascio pure a voi giudicare se oggi abbiamo leggi ben meditate, ben formulate, coerentemente applicate.
Qualche altro animo generoso (nel senso già detto di ingenuo) sostiene che la causa dei mali sia la codificazione (3): dimenticano che la codificazione non fa che esprimere una lontana esigenza di ordine e di chiarezza, che risale al 2400 a C. con i primi popoli mesopotamici o almeno al celebre Codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C. (4). Il fatto poi che questi Codici siano stati modificati, deformati, abrogati o stravolti, non vale contro questa ovvia esigenza di chiarezza e di "certezza", ma contro le procedure di chi applica le regole ed i codici, facendone un'interpretazione di comodo. La soluzione proposta da qualcuno, come Paolo Grossi ed altri, di ritornare ad un diritto interpretativo, l'antico "Diritto comune" o il vigente "common law" non farebbe altro che aumentare le incertezze, spingerci a regredire ancor più nell'arbitrio, non certo ad aumentare la tanto invocata e reclamata "certezza del Diritto" .
L'antica tradizione dei giuristi di poter "creare" il diritto, nel senso di "farlo dal nulla", come la Divinità (5), o dei giudici, specie di alto grado, di rappresentare un "Diritto Vivente" (altra espressione di tipo religioso, tratta dalla Bibbia), denota soltanto un livello di presunzione che nessuno, in altre scienze, riterrebbe ammissibile: infatti Dio è "vivente", in quanto differisce dagli idoli di pietra o di legno, che sono "morti", perché impotenti ad agire; parlare di ''Diritto vivente", come se tutto il resto fosse "Diritto morente o defunto", costituisce solo una vuota autoesaltazione. Nel caso della pretesa "creatività", si tratta piuttosto di interpretare la legge, nel senso di individuare un singolo fatto o caso in rapporto ad una legge che ha valore universale, ovvero di applicare la legge universale al singolo caso specifico, attraverso il modello dato dalla cosiddetta "fattispecie"; per la seconda espressione, il termine più corretto, realistico e modesto, sarebbe quello di Diritto applicato, non di Diritto "vivente". Anche questo comunque costituisce prova di quanto il Diritto, anche contemporaneo, sia ancora strettamente legato alle antiche forme pontificali e religiose, e quindi di non · potersi caratterizzare quale scienza nel senso moderno ed, ancor meno, contemporaneo, ma come rituale prescientifico e, quindi, magico, come ci proponiamo di provare più avanti.
Riguardo alla pretesa, creativa o creazionistica, dì interpretazione giurisprudenziale della legge, è da dire che, o il testo della legge è chiaro, ovvero linguisticamente e concettualmente comprensibile per ogni cittadino sano di mente e almeno di media cultura (che sia in possesso di un diploma di Scuola Media superiore o autodidatta con cultura comparabile a questo); oppure il testo non è chiaro, vuoi per uso di termini gergali, vuoi per complicazioni sintattiche. Se il testo è adeguatamente chiaro, non si vede che cosa vi sia da "creare", ma semmai da applicare; se il testo non è chiaro, ugualmente non è ammissibile alcuna "creazione"; si tratta invece di un testo da riformare, modificare, o abrogare, compito questo che spetta essenzialmente al politico, in quanto detentore di un potere legislativo, non al magistrato, quale detentore del potere giudiziario. La pretesa di colmare una lacuna, vera o presunta, in un qualche modo, è un puro arbitrio: certamente un'interpretazione corretta non si trova in un solo articolo, ma semmai in un combinato disposto, ovvero attraverso il rapporto tra varie singole norme da collegare in quel singolo caso, ma non è assolutamente ammissibile pretendere di leggere qualcosa che non si trova nelle disposizioni scritte. Volendo fare un'analogia chiarificatrice, se siamo in possesso di un manoscritto illeggibile, non possiamo permetterci di vedere qualcosa che non vi si trova: possiamo invece farcelo chiarire dall'autore e, se questo è irreperibile, mettere via il manoscritto per un'occasione migliore, se ritroveremo qualcuno capace di decifrarlo .
Su quanto poi di fatto l'interpretazione giurisprudenziale sia pessimo esempio di "certezza del Diritto", basti pensare alla ragione per cui esistono tre o quattro gradi di giudizio (tenendo conto delle Corti europee, oggi sempre più importanti). Evidentemente perché le conclusioni dei primi due potrebbero essere giuridicamente, o di fatto, infondate .
Ma pure, il grado più alto del vantato ''Diritto vivente" non dà affatto prova di una maggiore "certezza del Diritto": citerò un esempio penale. Non temete: non parlerò né del mostro di Firenze, né del caso Marta Russo e neppure del complicatissimo caso "Cogne". Più semplicemente, parlerò di indumenti femminili, per i quali evidentemente la Suprema Corte di Cassazione prova un notevole imbarazzo. Tutti voi ricorderete il caso dei jeans che, essendo più o meno aderenti, potevano costituire una causa di giustificazione o esimente, o almeno un'attenuante per una violenza carnale. Dopo la protesta di alcune signore onorevoli, la Suprema Corte, espressione di un ''Vivente Diritto" pensò bene di correggere il tiro, per non sembrare quello che è, ovvero medioevale o, peggio, vittoriana. Meno noto è un altro caso, più antico, citato nel Manuale di Diritto Penale dei proff. Fiandaca e Musco; ve lo riporto testualmente:
CASO 7
Una donna prende il sole a seno nudo in una pubblica spiaggia: tale comportamento costituisce reato (art. 726 c.p.) per Cass. 12 luglio 1982, inedita, mentre è considerato lecito da Cass. 22 settembre 1982, in Foro It.,1983, II, 273" (6) .
Orbene, i proff. Fiandaca e Musco cercano di sostenere che tale discrepanza è dovuta all'ambiguità del concetto di "osceno". Certamente, se fra una e l'altra sentenza fossero passati alcuni anni, la cosa potrebbe anche essere vera; altrettanto, se una Cassazione fosse quella di una Repubblica Islamica e l'altra della Repubblica Italiana. Tale giustificazione, invece, non ha alcuna consistenza, e non può essere giustificata con l'evoluzione culturale: siamo di fronte a sentenze opposte su un identico o molto simile caso, a distanza di soli due mesi e nel medesimo Organo giudicante! A meno di non voler sostenere che in luglio c'è oscenità perché le spiagge sono affollate, mentre in settembre le spiagge sono quasi deserte (ma qui non vien detto in quale mese sia avvenuto il reato, bensì solo la data delle sentenze...), oppure che in luglio la signora rea fosse brutta e quella di settembre bella..., è evidente che la contraddizione è ineliminabile, e la tanto proclamata giurisprudenziale "certezza del Diritto Vivente" affonda nel mare del ridicolo!
V
Tra le molte anime generose, ve n'è qualcuna che, riconoscendo che il nostro Diritto Vivente è tutt'altro che certo, è tuttavia convinta che, nei Paesi retti dal common law e dallo stare decisis, la "certezza del Diritto" è assolutamente solida ed inconfutabile. Personalmente, non ne sono affatto convinto: intanto, se venisse applicato lo "stare decisis" oggi negli Stati Uniti, patria del giudice William Lynch, dovrebbe ancora essere in vigore la lapidazione come in certi Paesi islamici (la lapidazione è una condanna prevista nella Bibbia e nel Talmud). E' evidente che l'applicazione di una prevalente giurisprudenza varia negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna come da noi variano le stessi leggi Se poi non avessimo letto opere e frammenti di Locke, di Swift, di Bentham, del noto criminale Caryl Chessman morto nella camera a gas per un delitto non commesso, ed altri, potremmo forse prendere sul serio una "certezza del Diritto" fondata sul copiare sentenze precedenti. Basti qui tuttavia citare un frammento di Jerome Franck, filosofo del Diritto, di cultura anglosassone, per togliere ogni illusione su "certezze" di questo tipo:
"Le simpatie e le antipatie del giudice è probabile si facciano sentire nei riguardi dei testimoni. Il suo passato può avergli procurato maggiori o minori reazioni nei confronti delle donne, o delle donne bionde, o degli uomini che portano la barba, o dei meridionali o degli italiani, o inglesi, o degli idraulici, o dei ministri o dei laureati o dei democratici...
Questi ricordi del giudice. mentre egli ascolta un testimone.... possono influenzare la maniera in cui il giudice ascolta, oppure in seguito rimedita su ciò che il testimone ha detto, o il peso e l'attendibilità che il giudice attribuirà a quella testimonianza" (7) .
Per quel che mi riguarda preferisco, con tutti i difetti riconoscibili, le procedure dei Paesi di “civil law" (a Diritto codificato), che quelle dei Paesi di "common law”, dove il giudice sì inventa le norme, o le ripesca negli archivi di un Tribunale .
Altra ingenuità, molto meno condivisa, è che sia il Diritto internazionale a rappresentare una forma di "certezza del Diritto": sappiamo che il Diritto internazionale si fonda su patti ed accordi tra gli Stati, patti che vengono regolarmente violati, con questa differenza: se a violarlo è uno Stato molto potente, nessuno fa obiezioni rilevanti ma solo proteste formali; se lo Stato non è molto forte, o non è altrettanto forte del primo, prima gli si mandano bombardieri e missili, poi lo si occupa militarmente a fini pacificatori e di democratizzazione: il classico 'due pesi e due misure' (la legge di Brenno e della sua spada non si è granché perfezionata nel Diritto internazionale). Senza arrivare alle guerre, pochi anni fa, durante una lezione di Diritto internazionale (non vi dico di quale Università per ragioni di riservatezza), mi permisi di chiedere come si faccia, giuridicamente, a distinguere una minoranza nazionale da un semplice gruppo straniero presente sul territorio; il docente non rispose alla domanda, ma mi invitò a non intervenire di mia iniziativa (egli soltanto poteva porre le domande) .
L'uso della locuzione "certezza del Diritto" abbonda anche nelle sentenze della Corte europea di Giustizia (8), secondo la quale solo la Corte stessa emette norme che rispecchiano tale "certezza" e tutti gli altri (Stati, gruppi e persone) devono uniformarsi. Mi sia lecito sollevare qualche dubbio. Possiamo tutti essere sinceri europeisti, ma ciò non significa che dobbiamo credere buono e serio tutto ciò che proviene da una pretesa Europa. Innanzitutto, il Diritto europeo non è fondato su norme emanate da u n Organo giuridicamente valido. L'Unione Europea, cosi come ieri ed oggi sì presenta, non è uno Stato, nemmeno in formazione, non è propriamente definibile né come Confederazione, né ancor meno come Federazione. E' un'associazione di Stati, nata da accordi di natura internazionale pattizia che solo per convenzione ed a fatica, ma senza una fonte primaria che le dia fondamento, è partita da sei Nazioni e progressivamente estesa ad altre, in modo da essersi allargata anche alla parte centro-orientale del Continente. Ciò non le dà tuttavia un valore giuridico più forte. L'Unione Europea non trova un fondamento legittimante nella sovranità popolare, ha un Parlamento che fa ancora fatica ad attuare un proprio potere legislativo (certamente, le interviste ai membri della Commissione Europea ed il voto previsto per la conferma della stessa Commissione in modo collettivo non costituiscono sicuramente un valido surrogato).
Quanto alla propagandata nuova Costituzione europea, in realtà siamo di fronte solo ad un nuovo trattato. Quando andavamo ancora a scuola, ci veniva insegnato che la differenza tra Statuto (come concessione) e Costituzione (espressione fondamentale della volontà di un ·popolo), la differenza era data dall'apposita elezione a suffragio universale di un'Assemblea Costituente: or quando mai è stata eletta una Costituente Europea? E' evidente che il nuovo trattato al massimo costituisce uno Statuto europeo, su cortese concessione dei Governi sovrani d'Europa, non certo una Costituzione. Inoltre, si potrebbe parlare di una "certezza del Diritto" europeo, quando ad alcuni popoli è data la possibilità di un referendum confermativo, mentre ad altri (a noi Italiani in modo specifico) è stato concesso al massimo un referendum consultivo (che, se non ricordo male, si è tenuto nel 1979, anno nel quale si è avuto anche il primo Parlamento Europeo elettivo) ? Per dirla orwellianamente, la "certezza del Diritto" per alcuni popoli europei è "più certa" che per altri. Noi com'è noto, siamo ancora legati al vecchio art. 5 dello Statuto Albertino che affidava al re, ed al suo Governo, il potere esecutivo e quello della politica estera con le ben note conseguenze della Seconda Guerra Mondiale: articolo statutario modificato, ma non troppo, con gli artt. 75 {2° comma) e 87 (9° comma) dell'attuale Costituzione. Ovviamente, riguardo ai limiti sul referendum in merito a leggi tributarie, di bilancio e di ratifica dei trattati internazionali, non c'è alcuna forza politica che sollevi obiezioni per toglierci dallo stato di parziale interdizione che ci viene imposta a differenza di altre popolazioni dell'Unione Europea. E che dire dell'euro ? Una moneta che sfugge ad ogni regola di alta e bassa finanza, e che alcuni Stati accettano, altri no: che sarebbe stato di Italia e Germania se, nel XIX secolo, avessero operato con certi attuali criteri? Ora, a me pare evidente che sia perlomeno un'ingenuità, se non un dolus più o meno bonus, parlare con tanto clamore di "certezza del Diritto europeo" quando manca una legittimazione data soltanto dalla sovranità popolare e quando esistono Stati in cui i popoli hanno maggiore o minore capacità politica rispetto ad alcuni loro vicini.
VI
E' ora di chiedersi: esiste o non esiste una natura scientifica del Diritto? ebbene, con la massima certezza, si può rispondere: il Diritto non è una scienza almeno non lo è affatto in senso moderno e tantomeno contemporaneo. La stessa ambizione di partire da una "certezza assoluta" del Diritto, come si fa e si pretende, è inequivocabile prova dell'inesistenza di una scienza del Diritto, cosi come oggi si presenta: non basta applicare al nome "scienze" l'appellativo "giuridiche", come si fa oggi nelle Facoltà di Giurisprudenza, per aversi "scienza". Una cosa è mettere cartelli, altra rispondere alle esigenze epistemologiche di una disciplina. Alla giurisprudenza, manca il linguaggio scientifico in senso proprio e manca una metodologia scientifica in senso proprio .
Il linguaggio del Diritto non è un linguaggio scientifico, è solo un gergo, ovvero quello che i linguisti definiscono codice ristretto, un insieme terminologico e sintattico rivolto ad un ristretto gruppo, con il consapevole fine esplicito ed implicito di non poter essere compreso dai non appartenenti a quel gruppo ristretto. Un linguaggio scientifico o tecnico, in senso proprio, utilizza, salvo casi specifici per invenzioni o scoperte, termini comuni, adoperati tuttavia in un'accezione molto specifica, che può essere appresa con non grande fatica, avendo una propria ragion d'essere ed una propria funzione. Il linguaggio giuridico odierno è figlio diretto del linguaggio giuridico in uso nel Medioevo, ossia di un latino maccheronico, in parte di derivazione filosofica, in parte estrapolato dal Codice di Giustiniano (9), così come ricostruito dai glossatori medioevali: un pasticcio colossale, ma funzionale a chi voleva porsi come nuova casta dominante nella vita pubblica e privata Oggi poi, per continuare una tradizione di orrore linguistico, al latino maccheronico si mescolano maccheronicamente il greco, l'italiano e l'inglese, con effetti che, se le povere anime di Cicerone, Cesare, Virgilio e compagnia varia, potessero sentirlo, si rivolterebbero ululando nelle loro tombe. Ne daremo alcuni esempi: in Diritto commerciale vige la locuzione "star del credere": attenzione, non "star per credere" ma proprio "star del credere". Dal punto di vista sintattico, lo "stare" non si associa a "del" ma a "per". Ciò dimostra che l'uso delle preposizioni, semplici ed articolate, è per il giurista un vero dramma. Praticamente, lo ''star del credere" viene definito dai giuscommercialisti come una garanzia, ma sfido chiunque a poter stabilire un qualunque rapporto logico tra la locuzione in esame ed una qualunque garanzia In cinque anni di continui studi giuridici non sono ancora riuscito a scoprire l'etimologia propria dello ''star del credere" !
Un altro orrore linguistico dei giuristi è lo scambio semantico tra gli aggettivi, di etimo greco, “apodittico” e “dogmatico”. In greco, tanto antico che moderno, così come coerentemente nel linguaggio filosofico, "apodittico" vuol dire "dimostrativo", e "dogmatico" fondato su puri principi o sulla fede; nel linguaggio giuridico, "dogmatico" assume il senso di scientifico e dottrinale; "apodittico", quello di "indimostrato", "assoluto": questo è segno di pura e voluta ignoranza, perché i giuristi celebri, che pure si sono formati al Liceo Classico, non dovrebbero ignorare il greco .
E passiamo ora alla metodologia giuridica: essa è fondata sull'uso, di derivazione pitagorica, platonica ed aristotelica, della tassonomia o classificazione, spinta agli estremi, con criteri soprattutto dicotomici, ma anche tricotomici e tetracotomici: si tratta, in sostanza, di dividere la realtà in due, in tre o in quattro. Il metodo, di per sé, potrebbe anche essere scientifico, se applicasse l'assioma lamarckiano "la funzione crea l'organo'', ovvero nel nostro caso, se la classificazione rispondesse a fatti diversi nella realtà, oppure se, per un solo fatto o evento o fenomeno, si cogliessero distinti aspetti e distinte funzioni.
Viceversa, nel Diritto, si pretende prima di dividere aprioristicamente le cose, poi ci si affanna a dare un senso a tale divisione. In tal modo si creano labirinti, ci si complica la vita, ci si comporta come il gatto impazzito che, dopo aver giocato col gomitolo di lana, si trova legato e reagisce con furia.
La classificazione, per essere scientifica, deve fondarsi su differenze reali, non su differenze astratte, e deve sottolineare non solo ciò che è diverso, ma anche ciò che è comune tra le cose distinte, altrimenti si finisce per vagare nel nulla. Invece, nel Diritto si divide, sì divide, si divide ancora, ed alla fine non si capisce nulla: indico qui come esempio il concetto di dolo penale, che finisce per essere distinto in eventuale, intenzionale, diretto di I e II grado, alternativo, generico e specifico, quando l'art. 43 del Codice Penale, definisce come atto doloso semplicemente quello intenzionale, ma giurisprudenza e dottrina, non contente delle distinzioni dell'art. 43, al solo fine di aiutare i rei e di colpire gli onesti crea una serie di futili sottodistinzioni, per cui si arriva all'assurdo che il dolo (ovvero intenzione) può essere intenzionale, ovvero doloso, così come la colpa è colposa e la preterintenzione è pure preterintenzionale. Quale utilità nella ricerca della verità dei fatti, o non piuttosto nella giustificazione di menzogne, abbiano queste distinzioni, nessuno lo può dire.
Risale ai Pitagorici la decina di coppie contrapposte, metodo di separazione degli oggetti di conoscenza o dicotomia, che poteva avere un senso 2500 anni fa o più. Già Aristotele e i filosofi successivi, ancorché limitatamente, lo avevano superato. Il Diritto, invece, è ancora legato a questo metodo, così come è legato ad un'impostazione etico-religiosa di tipo rigido, espressa in riti, linguaggi, formule e gestualità predeterminate. Chiunque legga un trattato di Diritto Romano civile e un odierno manuale di Diritto privato non può non vederne lo stretto rapporto di continuità. Ciò dimostra quanto il Diritto in generale sia fermo nella sostanza e nelle forme da duemila anni. Nessuna scienza si fa vanto di mantenere fissa, per altrettanti secoli, la propria metodologia. Il Diritto, quindi non è affatto una scienza, è una prassi, legata a mentalità e ritualità ultrabimillenarie. La sua impronta è pontificale, in alcuni casi addirittura legata ai profeti ebrei descritti nella Bibbia o a testi sacri ancora più antichi La profonda natura del Diritto è, fondamentalmente, magica. I filosofi del Diritto, come Haegerstroem e Faralli, hanno compiutamente dimostrato il rapporto tra magia e il Diritto romano (10). Il giurista, e storico del Diritto antico, Giulio M. Facchetti nella sua opera sulla lingua etrusca ha, se non altro, mostrato gli antichi legami tra il Diritto etrusco, degli àuguri, degli aruspici e dei lucumoni, e il Diritto romano dei pontefici, padre del Diritto romano successivo: c'è un legame di successione, che si trasmette al Diritto moderno nel culto della forma, nel culto del linguaggio, nel culto dei numeri: nel culto della forma, basti pensare all'uso della toga (o meglio, di quel mantello nero di seta, ornato da fronzoli dorati o argentati) e di formule sacre, senza le quali la pretesa verità non giunge a colui che emette una sentenza; nel culto del linguaggio, attraverso parole e formule sacre espresse in un latino che non è neppure latino ed in un greco che non è greco, a scopo da un lato di ottenere fenomeni extranaturali, dall'altro di non farsi capire dai profani (coloro che devono restare fuori dal tempio!); nel culto dei numeri, che si manifesta nella sacralità del numero, inteso non come semplice segno che rappresenti una pura quantità materiale o un ordine seriale, bensì come segno che rappresenta l'intima qualità ed essenza delle cose, che serve, come la formula magica, ad agire direttamente ed immediatamente sulla realtà trasformandola nella cosa voluta: culto dei numeri, che si traduce nella difficoltà del giurista a modificare la numerazione in un Codice o in una legge (ad es., nella più recente riforma del Diritto commerciale, l'art. 2409 del Codice Civile è stato moltiplicato per ben 19 volte).
Un esempio di come si abbia questo senso magico alle formule giuridiche, è quello dato dalla distinzione tra l'espressione "ad substantiam " e "ad probationem": se un qualche procedimento formale occorre nel compiere un atto, questo logicamente occorre sempre per provare la realtà, la sostanza di un atto; se l'atto è scritto, esso comunque non dà forza sostanziale all'operazione che si vuol compiere, ma è strumento di informazione, le dà esclusivamente forza di prova e di conoscenza ai contraenti ed ai terzi. L'idea invece che l'atto serva ad substantiam presuppone la forza materializzante dell'atto stesso, come dire che senza quel certo atto la cosa non esiste, non viene alla luce. Un residuo di tale mentalità magica si trova nel principio della Legge Tavolare, secondo cui la registrazione dà valore costitutivo all'atto, senza la quale procedura il fatto o l'obbligazione o il trasferimento di proprietà non può esistere, non assume una propria realtà. Per quanto riconosco che ciò possa apparire non immediatamente intuibile, questa concezione della procedura ad substantiam è manifestazione di una mentalità magica. La parola, il gesto prefissati compiono l'atto o creano la cosa direttamente, senza intervento di altri fattori, modo questo di concepire le cose sicuramente non scientifico.
Si obietterà poi che il culto del numero nel Diritto è dovuto ai parlamentari, non ai giuristi; ma è assai facile contro-obiettare che, o il parlamentare in questione è, egli stesso, un giurista che ragiona da giurista (avvocato, notaio, magistrato), oppure è un semplice politico che si fa consigliare dal giurista per formulare una qualche modifica di legge; esiste nel Parlamento un'apposita commissione per la formalizzazione giuridica delle proposte di legge, in modo che esse assumano l'aspetto, la formulazione e la struttura già predeterminati. Salvo, pertanto, il riordinamento di leggi nei Testi Unici, si è soliti procedere con l'art. X bis, ter, quater, quinquies, sexies, ecc., fino ad esaurimento.
Si prosegue, infine, con il culto della memoria, quale strumento didattico indispensabile quando non si conoscevano l'alfabeto e la parola scritta; meno necessario ora, ma pur seguito come metodo essenziale nello studio del Diritto. Anche per questo culto della memoria si persegue quello della moltiplicazione dei numeri di articoli, altrimenti il giurista potrebbe confondere fatti, eventi e reati molto diversi, mentre, mantenendo la stessa numerazione, evita la fatica della ricerca e dell' individuazione razionale, associando direttamente il numero e perfino i commi alle distinte norme.
VII
Gestualità predeterminata, formalità predeterminata nel linguaggio e nel costume, pretesa di agire sulla realtà e sull'essenza direttamente con la parola ed il numero, con formule ed assiomi, detti brocardi, tutto ciò è pensiero e metodologia magici, comunque prescientifici, non scientifici (11). Una tale metodologia, o piuttosto prassi consuetudinaria, caratterizza il Diritto anche oggi. Il Diritto appare come un ben strano connubio, dunque ai numeri pitagorici che non alle Idee platoniche, ed un superficiale empirismo, nella pretesa epistemologicamente infondata di riuscire a collegare astrazioni a fatti ed eventi concreti, senza alcuna intermediazione, senza alcuna gradualità quasi per ispirazione della Dea Dike, con l'aggravante del fatto che il giurista moderno non crede alla Dea Dike, né al volo degli uccelli, né al significato dei fulmini, né ai segni dati dalle interiora di un povero agnello: pertanto, è ancora più incoerente, e quindi illogico dell'antico pontefice romano o del lucumone etrusco.
L'ambizione illuminista e post-illuminista di creare una scienza razionalmente fondata della legislazione, da Vico a Montesquieu, da Beccaria a Filangieri e Pagano, da Romagnosi a Bentham, da questo a Dewey ed ai filosofi realisti del Diritto ecc., non si è realizzata finora, perché ogni tentativo è passato attraverso il pesante filtro dell'antica mentalità giuridica, comunque rivestita. Il fallimento della codificazione nel dare certezza scientifica al Diritto è avvenuto perché la codificazione venne realizzata col contributo di giuristi tradizionalisti. Il Portalis non era che la "quinta colonna" del vecchio Diritto giurisprudenziale comune nel Codice di Napoleone, al modo stesso che Triboniano fu la "quinta colonna" nella riforma legislativa di Giustiniano. Lo spirito del vecchio Diritto ha permeato gli articoli dei nuovi Codici, con i vecchi metodi e la vecchia mentalità: da qui, non dal loro principio, l'insufficienza dei Codici illuministici e positivisti a dare natura di certezza "scientifica", ovvero relativa e critica, alle nuove norme, sebbene apparentemente ordinate e coerenti.
Si tratta allora di dare alla "certezza del Diritto" la sola funzione positiva del Mito, e di eliminarne l'aspetto negativo; di attribuirgli il ruolo indispensabile di Motore Immobile, ma di eliminare quello di Mosso Immobilizzante, di cui abbiamo detto all'inizio. Occorre una vera rivoluzione copernicana, nel senso kantiano, da applicare alla teoria giuridica, liberandola dai residui di un passato arcaico ancora vivo: sarà un'opera certamente difficile, ma non impossibile.
Una scienza della legislazione non deve essere considerata né una scienza esatta come la matematica, né una sapienza empiristica, magica ed immediata di forme e forze inesistenti come ancora oggi sì presenta, ma una scienza complessa dell'uomo, in cui allo studio della Legge si affianchino e cooperino altre scienze dell'uomo, in posizione non di satelliti o di serve, ma di alleate e di ausiliarie (12), con un senso più forte della realtà concreta dell'individuo e della società in cui vive.
N O T E
1. Per un concetto contemporaneo, senza eccessi, di ciò che deve essere una scienza e che cosa si debba intendere per certezza scientifica, riferiamo il pensiero di John Dewey: "... V'è alcunché di ridicolo e di sconcertante insieme nel modo in cui gli uomini si sono fatti influenzare, al punto da ritenere che il modo di pensare della scienza colga l'intima realtà delle cose, e nel fatto che essi definiscano falsi tutti gli altri modi di pensare le cose. Ciò è ridicolo perché questi concetti scientifici, sono fabbricati dall'uomo espressamente nel tentativo di giungere alla realizzazione di un determinato scopo, quello cioè della massima convertibilità di ogni oggetto di pensiero in qualsiasi altro...
... Il lato sconcertante della situazione sta nella difficoltà con la quale l'umanità si decide di liberarsi da certe credenze divenute abituali..."
(J. Dewey, "La Ricerca della Certezza", cap. V 'Idee all'opera', ed. La Nuova Italia (Firenze, 1968), pagg, 141 e 142 . Del Dewey dovrebbe anche vedersi "La logica come teoria dell'indagine".
2. G . Devoto, "Avviamento alla etimologia italiana", ed Le Monnier (Firenze, 1968),
pag. 190, II colonna, voce "giure".
3. Paolo Grossi definisce, addirittura, in totale polemica con il razionalismo applicato al Diritto, "mitologia giuridica" la volontà illuminista di creare un sistema legislativo ordinato in forma di codici, sia nel senso antico, sia soprattutto nel senso odierno. In lui, vi è un vero canto per quella che egli definisce "sapienzialità" (parola arcaica che si riferisce a conoscenze prescientifiche ed irrazionalistiche) del Diritto comune medioevale e, financo, per l'applicazione di fori distinti per giudicare individui di diverse classi sociali. Cfr. ''Mitologie giuridiche della modernità", ed. Gìuffrè (Milano, 200l) e "L'ordine giuridico medioevale", ed. Laterza (Bari, 2002). Su posizioni analoghe, un po' più moderate, Manlio Bellomo "L'Europa del Diritto Comune", ed. Il Cigno (Roma, 1998) e,ancor più moderato, Raoul Van Caenegem in”Introduzione storica al Diritto privato", ed Il Mulino (Bologna, 2000), e “I sistemi giuridici europei", ed. Il Mulino (Bologna, 2003) .
4. Di notevole interesse, come documentazione della più antica legislazione dell'Asia anteriore e dell'Egitto, anche per comprendere come la mentalità giuridica conservi forme ben più antiche delle stesse XII Tavole romane, Claudio Saporetti, "Antiche Leggi", ed Rusconi (Milano, 1998)
5. Strenui fautori del "creazionismo giuridico", specialmente applicato ai magistrati o ai dottrinari del Diritto, sono· Riccardo Guastini, con "Le fonti del Diritto e l'interpretazione", ed Giuffrè (Milano, 1993), Alfredo Catania, con il ''Manuale di teoria generale del Diritto", ed. Laterza (Bari, 1999), ma un po' tutti i giuspositivisti scambiano l'interpretazione della legge, che dovrebbe essere, semplicemente, applicazione della legge al singolo caso, con un'attività creatrice su ispirazione, presumiamo, angelica o divina. Più moderato, Carlos Nino in "Introduzione all'analisi del Diritto", ed. Giappichelli (Torino 1996).
Viceversa, per cogliere quanto poco i giudici siano ispirati dalla divinità, ma piuttosto dai loro egoismi, il sintetico ma stupendo saggio di Alessandro Manzoni "Storia della Colonna Infame", ed. Demetra (Bussolengo – VR, 1995)
Più puntiglioso Alf Ross, in "Diritto e Giustizia", ed. Einaudi (Torino, 1990) e , più sfumato, Peter Haeberle, in "Diritto e Verità'” ed Einaudi (Torino, 2000), nell'esprimere la convinzione nelle incertezze giuridiche e giudiziarie .
6. G.Fiandaca - E. Musco , ''Diritto Penale - Parte Generale", IV ed. - ed. Zanichelli (Bologna, 2001), pag. 66 .
7. Il frammento è riportato in nota da Alf Ross, in "Diritto e Giustizia", ed. Einaudi (Torino, 1990), pag.42, nota 3; cfr. anche pag. 70, nota 3. Alle pagg. 334 - 335, alla nota 3, Ross riporta anche le considerazioni di Jeremy Bentham sul diritto giurisprudenziale e sul diritto codificato; cfr. la nota 4 di pag. 335, contro il diritto consuetudinario. Del resto, basterebbe ricordare il tristo episodio di quell'avvocato d'ufficio, negli U.S.A, che si addormentò durante un'udienza, favorendo cosi la condanna amorte del suo infelice patrocinato, per farci poco apprezzare le magnificenze del "common law" !
8. Cfr. Adelina Adinolfi, "Materiali di Diritto dell'Unione Europea", ed Giappichelli (Torino, 2002). A questo proposito, ricordo qui come, quantunque si parli di una cittadinanza europea, il contenzioso di diritto matrimoniale o familiare, quando i due coniugi, che si separino o divorzino, con o senza figli, siano appartenenti a due nazioni dell'Unione, non è affatto esaminato e risolto già in prima istanza nelle Corti europee, di giustizia e per la salvaguardia dei Diritti Umani, come sarebbe logico per ragioni di imparzialità, ma segue le norme di diritto privato internazionale, passando dai bassi livelli di giurisdizione nazionale a quelli comunitari con infinite ed inutili complicazioni, con infiniti ed inutili tormenti per coniugi e loro figli, se vi sono: anche questa è un'incoerenza assoluta proprio dove si proclama, ogni due - tre righe, la ..certezza del Diritto".
9. Cosi Cesare Beccaria inizia il suo saggio "Dei Delitti e delle Pene":
"A CHI LEGGE .
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co' riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell'Europa ha tuttavia il nome di leggi... Queste leggi, che sono uno scolo de 'secoli i più barbari, sono esaminate in questo libro..." . Il testo è quello dell'edizione economica Feltrinelli (Milano, 1999), pag. 31.
10. Cfr. Carla Faralli, "Diritto e Magia - Il realismo di Haegerstroem", ed CLUEB (Bologna, 1992). Per lo stretto rapporto tra civiltà e cultura etrusche e quella romana già intuito da Vico,cfr. Marta Sordi, "Il mito troiano e l'eredità etrusca di Roma", ed Jaca Book (Milano, 1989). Per i principi etruschi del Diritto romano, cfr. Giulio M Facchetti, "L'enigma svelato della lingua etrusca", ed Newton Compton (Roma, 2000), particolarmente il cap. "Diritto umano e divino", pagg. 167 - 174: l'Autore è un giurista, quindi ben più interessante quando tratta il proprio argomento. che non le discutibili interpretazioni linguistiche .
11. Marcel Mauss, con la collaborazione di Henri Hubert, ha dedicato un interessante lavoro alla "Teoria generale della magia'', nel quale espone sistematicamente tutti quei caratteri che fanno di tale impostazione di pensiero una sorta di anticamera della scienza.
Il termine "magia" non va inteso in un senso assolutamente spregiativo né derisorio. La magia ha assolto per molti secoli a quel bisogno di ricerca e di conoscenza di importanti fenomeni della natura, individuandone anche alcune leggi. Certamente, dopo che Cartesio, Galilei e successivi filosofi o scienziati, hanno individuato nuovi e più complessi sistemi di ricerca. La magia è, sul piano epistemologico e metodologico, assolutamente superata, ma fino al primo Rinascimento non ha mancato di dare qualche risultato non spregevole. Mauss cosi identifica il pensiero magico:
"Se passiamo ora all'analisi del rito, dobbiamo notare anzitutto che un precetto magico comprende, oltre all'indicazione di una o più operazioni centrali, l'enumerazione di alcune osservanze accessorie affatto equivalenti a quelle dei riti religiosi. Ogni volta che ci si trova in presenza di rituali autentici, di manuali liturgici, /'enumerazione precisa delle circostanze non manca mai..." : Mauss -Hubert, "Teoria generale della magia", ed Newton Compton (Roma, 1975), pag. 46; più avanti si aggiunge :
"... il rito simpatico è circondato d'ordinario da tutto un contesto molto importante, dalla cui presenza dobbiamo necessariamente concludere che i simbolismi non bastano a fare un rito magico... all 'idea di simpatia si sovrappongono chiaramente da una parte l'idea di una liberazione di forza e dall'altra quella d'un ambiente magico...
... Sono anzitutto i sacrifici che sembrano non avere più altro scopo che di creare delle forze utilizzabili... Vi sono anche delle preghiere, delle invocazioni, delle evocazioni... Quanto poi alla cerimonia simpatica, per il solo fatto che è rituale,... essa deve produrre necessariamente a sua volta delle forze speciali...". ibidem, pagg. 98 - 99 .
12, Filosofia del Diritto, Storia del Diritto, Sociologia del Diritto, Criminologia, Antropologia Criminale, Teoria e Metodologia dell'Indagine Giudiziaria, non dovrebbero neppure essere considerate scienze ausiliarie, bensì settori integranti della Scienza della Legislazione. Per scienze ausiliarie dobbiamo intendere la psicologia generale, la psicoanalisi soprattutto nelle formulazioni adleriana e junghiana, l'antropologia culturale, la filosofia e la sociologia dell'educazione, la storia in generale, la stessa lingua italiana (la cui conoscenza è piuttosto scarsa tra i giuristi), ecc., non escluse determinate scienze fisiche e naturali (ha senso studiare medicina legale, senza prima aver studiato anatomia, fisiologia e patologia del corpo umano ?). Occorre, viceversa, sfoltire radicalmente la "selva selvaggia" dei Diritti vari, di cui quello fallimentare è ilpiù comicamente ambiguo: fallimentare perché si occupa di fallimenti o perché va infallimento ? E' necessario dare al giurista una cultura più ampia e profonda, non una valanga di nozioni particolari da apprendere a memoria, proprio quando la continua variazione legislativa la rende progressivamente superflua, in modo - al contrario - da porlo ingrado di capire la serie di informazioni che poi gli verranno dagli specialisti .
B I B L I O G R A F I A
I testi citati vengono qui riportati secondo l'ordine alfabetico dei cognomi degli Autori :
I) Adinolfi Adelina (a cura di...) "Materiali di Diritto dell'Unione Europea" , ed. Giappichelli {Torino, 2002) ;
2)Beccaria Cesare, ''Dei Delitti e Delle Pene", ed.Feltrinelli (Milano, VIl ed., 1999) a cura di Stefano Rodotà e Alberto Burgio;
3) Bellomo Manlio, "L'Europa del Diritto Comune", ed. Il Cigno Galileo Galilei,
(Roma, VIII edizione, 1998) ;
4) Catania Alfonso, "Manuale di teoria generale del Diritto'', ed. Laterza (Bari, 1999);
5)Devoto Giacomo, "Avviamento alla Etimologia Italiana - Dizionario etimologico", ed. Le Monnier (Firenze, IV ristampa, 1980) ;
6) Dewey John, ..La ricerca della certezza" (1929), ed. it La Nuova Italia (Firenze, 1968) traduzione Egle Becchi -Alfredo Rizzardi ;
7) Facchetti Giulio, "L'enigma svelato della lingua etrusca", ed Newton Compton
(Roma, 2000) ;
8) Faralli Carla "Diritto e Magia - il realismo di Haegerstroem e il positivismo giuridico'', ed. CLUEB (Bologna, 1992) ;
9) Fiandaca Giovanni - Musco Enzo, "Diritto Penale - parte generale", ed Zanichelli , Bologna,·IV edizione, 2001) ;
10. Grossi Paolo, ''L'ordine giuridico medioevale", ed Laterza (Bari, 2002) ;
11) Grossi P., "Mitologie giuridiche della modernità", ed. Giuffrè (Milano, 2001) ;
12) Guastini Riccardo, 'Le Fonti del Diritto e l'Interpretazione", ed Giuffrè (Milano, 1993);
13) Haeberle Peter, «Diritto e verità"(1995),ed it. Einaudi (Torino, 2000), trad. Fabio Fiore ;
14) Hubert Henri - Mauss Marcel , “Teoria Generale della Magia" (1975), ed.Newton Compton (Roma, 1975), trad. Enzo Agozzino
15) Manzoni Alessandro,"Storia della Colonna Infame"(1842),ed. Demetra (Bussolengo, VR, 1995), a cura di Alessandro Quattrone ;
16) Nino Carlos, "Introduzione allo studio del Diritto", 1996, ed. it Giappichelli (Torino, 1996),traduttori Barberis Mauro, Chìassoni Pierluigi, Ottonelli Valeria, Pozzolo Susanna.
17) Ross Alf. "Diritto e Giustizia" (1958), ed. it. Einaudi (Torino, Il ed., 1990) ;
18) Saporetti Claudio, "Antiche Leggi", ed. Rusconi (Milano, 1998) ;
19) Sordi Marta, "Il Mito Troiano e l'Eredità Etrusca di Roma'', ed Jaca Book (Milano, 1989) ;
20) Van Caenegem Raoul, "Introduzione storica al Diritto Privato" (1992), ed it. Il Mulino (Bologna, 1995),trad. Adriana Musumarra
21) Van Caenegem R, "I Sistemi Giuridici Europei"(2002), ed.it. Il Mulino (Bologna, 2003), trad. Emanuela Bertucci
22) Vico Giambattista, "Opere Giuridiche" (1720, edizione latina), ed. it Sansoni (Firenze, 1974), traduttori Walter Cavini, Francesco Michelazzo, Lucia Fiorentini, Carlo Sarchi.