
Questo è un paragrafo. Fai clic qui per modificarlo e aggiungere il tuo testo.
La compresenza del Bene e del Male nell'Uomo
Proiezione del Male sull'Altro
Esempi religiosi, filosofici e letterari
di MANLIO TUMMOLO
Il tema che desidero affrontare è di particolare complessità e di particolare interesse, e consiste nel fatto che l'essere umano in quanto tale, si qualifica come essere morale, ovvero come colui che, a differenza di ogni altro essere vivente, distingue le proprie azioni in buone o cattive. Ciò implica una consapevolezza morale, ovvero la distinzione tra Bene e Male. Per poter distinguere il Bene dal Male, é necessario che nell'essere umano sia compresente tale distinzione non solo in quanto conoscenza o in quanto definizione di concetti, bensì in quanto realtà interiore. Per poter avere questa consapevolezza, risulta necessario che l'Uomo, in generale, sia un essere ambivalente, quasi un monstrum della Natura, capace di operare per fini non immediati e vitali, bensì anche per scopi che trascendono questo tipo di esigenze, in modi non sempre moralmente positivi.
Per poter capire meglio la duplicità morale della natura spirituale umana, utilizzerò un primo esempio che è insieme letterario, filosofico e religioso, che traggo dal De hominis dignitate di Pico della Mirandola, famoso umanista dell'età di Lorenzo de' Medici e suo amico, fornito di una cultura vasta ed enciclopedica. Nella sua opera egli rivive il Genesi biblico, con un discorso che Dio rivolge ad Adamo e che può costituire una chiave interpretativa fondamentale per tutte le scienze "umane" o, a dir meglio, morali, in quanto ogni scienza è necessariamente umana, ovvero creata o formulata dall'uomo, ma, come ben sapete, è d'uso definire "umane" quelle scienze che si occupano dell'uomo in quanto entità spirituale e morale. Detto ciò, vediamo insieme quanto scrisse Pico della Mirandola nei passi essenziali:
"Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un'arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità... aveva popolato di una turba di animali d'ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto,...pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi, non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell'ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto per mancanza di consiglio. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo, così gli parlò : 'Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio , né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine ”
Terminiamo qui la citazione per ragioni di spazio: quanto riportato risulta comunque ampiamente sufficiente al nostro scopo: l'essere umano, per Pico della Mirandola, non è stato creato con una natura definita e predeterminata. Così in quanto specie, come in quanto individuo, l'uomo è un essere libero, ovvero capace di scegliere, in quanto classifica e seleziona le cose e le proprie azioni. Non è totalmente condizionato da ferree leggi di natura, ma può agire con o contro di esse. In quanto essere spirituale, può scegliere di elevarsi alla natura dell'angelo, può abbassarsi alla natura dell'animale o della pianta, o addirittura alla pietra. L'uomo è quindi caratterizzato da pura potenzialità verso il Bene e verso il Male. Il discorso di Pico risulta assai più realisticamente psicologico del nostro Codice Penale: in esso, all'articolo 85, si parla dell'imputabilità, in quanto responsabilità nei propri atti contrari alla legge, come determinata dalla “capacità di intendere e di volere”. Ma, a dimostrazione di quanto i giuristi siano poco o per nulla esperti di psicologia, ci si dimentica di definire che cosa sia la “capacità di intendere o di volere” o, meglio, quale cosa si debba intendere o volere. Certamente il giurista risponderebbe che l'uomo deve essere capace di intendere e di volere ciò che la legge ordina o vieta, ma una tale definizione per il filosofo morale sarebbe puramente formalistica A parte il fatto che una tale capacità di conoscenza generale e giuridica non è totale ed assoluta, ma presuppone gradi diversi, l'uomo, per la filosofia morale, è colpevole se, conoscendo ciò che é il Bene, compie volutamente il Male, perché segue non un determinato istinto, ma un puro atto egoistico, ovvero qualcosa che gli costituisce un vantaggio materiale immediato e durevole, ma non di vitale importanza. Per questo vantaggio immediato e durevole, egli sacrifica intenzionalmente il Bene, in quanto gli appare scomodo, faticoso, oppure di parziale svantaggio.
L'animale, o l'essere vivente in generale, non è né buono, né cattivo: fanno ridere certi attuali discorsi su razze canine feroci o non feroci, che sarebbero da sterilizzare, se non da eliminare (e la sterilizzazione su larga scala non é che un'eliminazione differita). Il cane non è mai feroce: esso, fedele per definizione al suo padrone, esprime null'altro che il carattere e le tendenze del suo padrone umano o del suo allenatore umano. Esso non fa che essere, quando appare “malvagio”, lo strumento inconsapevole della consapevole tendenza criminale dell'uomo. In realtà, non esistono animali “feroci”, se non per pura distinzione ambientale da quelli cosiddetti domestici: l'animale è spinto da due forze, espressioni del suo istinto di sopravvivenza: l'una è la necessità di nutrirsi, l'altra quella di difendersi o di prevenire eventuali aggressioni altrui; questo secondo istinto può realizzarsi come fuga oppure come attacco. Ma l'animale non sa e non può sapere ciò che è male, né sceglierlo in modo deliberato e volontario, né in determinate situazioni distinguere un altrui atteggiamento come più o meno aggressivo: reagisce secondo gli stimoli che subisce in quel momento. L'animale non è mai colpevole e non è mai malvagio, appunto perché non può distinguere il Bene dal Male; può essere allevato o addomesticato in modo da essere mansueto o in modo da dimostrarsi violento. Se è selvatico, non subendo alcuna influenza umana, se non quelle negative del timore per eventuali aggressioni, reagirà verso l'uomo secondo la propria forza che esso commisura in modo del tutto istintivo.
L'uomo invece, in quanto tale, se educato in modo sufficiente, se fornito di sufficiente conoscenza, è in grado di conoscere la differenza tra Bene e Male, proprio partendo dalla conoscenza di se stesso. Il comandamento, espresso nella forma tradizionale negativa, “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, fonda la propria indiscussa validità etica e psicologica sul fatto che l'uomo dimostra di conoscere la differenza tra Bene e Male proprio
perché rifiuta o si duole di subire lo stesso male, che egli infligge invece altrettanto consapevolmente agli altri, astraendo qui per ora dal tipo di male inflitto o subito, male che può essere morale, psichico oppure fisico (e senza nemmeno dimenticare però che ogni male fisico costituisce al tempo stesso anche un dolore psichico e morale).
Sull'ambivalenza della natura spirituale dell'uomo, gli esempi di natura religiosa, filosofica o letteraria potrebbero essere infiniti, per cui in quelli che citerò non c'è alcuna pretesa di esaustività. La teoria molto antica, che Platone ed Aristotele formularono con particolare profondità, della triplicità dell'anima umana, può spiegare abbastanza come il Male dell'Uomo sia l'affermarsi di istinti inferiori, comuni ad altri animali, con la differenza però che nell'Uomo l'anima intellettiva, che è anche stadio morale, può e deve impedire il trionfo degli istinti animaleschi. In tale teoria, resta però il fatto che l'istinto vegetativo e l'istinto concupiscente o sensitivo vengano qualificati come inferiori, e che l'uomo sia considerato malvagio proprio in quanto messo a confronto dell'animale. Ciò mi sembra errato, per quella tendenza, tipicamente umana, di cui si riparlerà più avanti, di proiettare il proprio male sull'altro, nel caso specifico sull'animale, utilizzato come strumento di paragone negativo per l'uomo, e con ciò evitando o eludendo il vero problema che la presenza del male è un fatto tipicamente umano. Ciò è ampiamente dimostrato sia dalla storia, sia dalla cronaca: il livello di malvagità dell'uomo, di capacità distruttiva, di volontà di sopraffazione a qualunque costo, non è affatto un istinto animale, è una scelta deliberatamente umana. E, a questo proposito, sottolineerò il fatto di un forte livello di presunzione nel qualificare come “buono” ciò che è “umano”, o meglio di identificare “l'umanità” nella “bontà” o nella “generosità”, quando invece la vera qualificazione dell'essere umano si caratterizza nella compresenza del Bene e del Male in ciascun uomo e nella nostra specie, con una prevalenza dell'uno o dell'altro a seconda delle situazioni, dell'educazione e dell'esperienza di vita di ciascuno di noi. Ogni giorno sentiamo o leggiamo notizie che ci fanno inorridire, ma che comunque ci riguardano, secondo il famoso detto terenziano "homo sum, et nihil humani a me alienum puto": sono uomo, e pertanto nulla di umano ritengo estraneo a me stesso, diremmo noi con maggior prolissità. E' bene che l'umanità, in quanto specie ed in quanto individuo, invece di gloriarsi di doti perfette, guardi se stessa allo specchio e sappia riconoscere come propri quei difetti che tende ad attribuire ad altri esseri viventi, colpevoli soltanto di obbedire a leggi dell'istinto ed alla forza delle cose, incapaci di distinguere e quindi incapaci di scegliere, e pertanto non responsabili in alcun modo di ciò che fanno.
Secondo alcuni psicologi, l'aggressività nel comportamento umano è un fatto positivo, espressione o tendenza alla creatività: a mio parere essi cercano inconsapevolmente di giustificare la violenza e lo spirito di sopraffazione. E' vero e corretto considerare che l'uomo, come tutti gli esseri viventi, tende a difendere la propria incolumità e la propria esistenza da attacchi altrui; in più mira ad affermare le proprie capacità ed a raggiungere i propri obiettivi; ma l'aggressività è un atto mirante non alla difesa, ma all'attacco, alla sopraffazione. Mira a distruggere, non a costruire. Esige l'affermazione di sé a spese degli altri, al loro annientamento o asservimento. Invece di porre condizioni idonee al proprio miglioramento attraverso una competizione tra lo stesso uomo di ieri e quello di oggi o di domani, cerca di creare condizioni per una competizione distruttiva tra un sé sempre uguale o peggiore e tutti gli altri, con ogni mezzo. Generalmente esercita tale competizione non sui grandi temi e problemi del pensiero umano, ma sull'uso della forza fisica o sulla pressione economica o, comunque, materiale. In tal senso, l'aggressività non è, e non può essere, un istinto positivo, ma è soltanto una vera e propria deformazione dell'istinto di difesa, un istinto derivato del tutto negativo che si esprime nelle forme più varie, non necessariamente solo materiali, bensì anche psicologiche, tuttavia sempre violente ed oppressive.
Arriviamo ora ad altri esempi: la frase sopra riportata di Pico esprime delle reminiscenze evidentemente bibliche, ma non soltanto: egli fu uno dei primi studiosi laici della Kabbalah. Una notevole analogia col suo pensiero sulla potenzialità dell'Uomo si ritrova nel “Talmud”, opera gigantesca che io personalmente conosco e cito soltanto dalla riduzione fatta per l'Editrice Laterza nel 1935 dal Cohen che, forse per modestia, segna il proprio nome solo con l'iniziale “A.” e tradotta da Alfredo Toaff. Nel capitolo III sulla “Dottrina dell'Uomo”, oltre al fatto di definirlo come creato ad immagine di Dio, possiamo però leggere anche quanto segue:
''...Pur insistendo sui rapporti di parentela dell'uomo con Dio, i Dottori non insistevano meno sull'abisso che li separa. Se una parte dell'uomo è divina, l'altra pane è terrena. [In] Tutte le creature che sono formate dal cielo, tanto la loro anima quanto il corpo derivano dal cielo; e [in] tutte le creature che sono formate dalla terra, tanto la loro anima quanto il corpo derivano dalla terra, ad eccezione dell'’uomo, di cui l'anima proviene dal cielo e il corpo dalla terra. Perciò, se un uomo obbedisce alla Torah... egli è come le creature di sopra. Ma, se non obbedisce alla Torah e non compie la volontà del Padre suo che è nel cielo, egli è come le creature di sotto."
''In altro modo ancora si descrive la natura dualistica dell'essere umano: 'Per quattro aspetti l'uomo somiglia alle creature di sopra e per quattro aspetti alle creature di sotto. Come gli animali mangia e beve, propaga la specie, si alleggerisce e muore. Come gli angeli del divino ministero sta eretto, parla, possiede l'intelletto e vede'” “scopo della creazione dell'uomo fu quello di offrirgli la possibilità di glorificare l'Autore dell'Universo ''In un passo si descrive l'uomo come un microcosmo"
Ma in Pico vi sono pure reminiscenze dantesche: chi non conosce il verso del discorso di Ulisse ai suoi marinai ? "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza..” oppure l'altro “Uomini siate e non pecore matte”? Non è semplicemente sublime poesia quella di Dante, ma un suo concetto di filosofia morale, che egli esprime più dettagliatamente nel suo "Convivio", opera in quattro Trattati, dei quali il primo è tutto in prosa, gli altri invece vengono preceduti da canzoni allegoriche. Nel primo Trattato leggiamo: “Si come dice lo Filosofo...tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimuovono da l'abito di scienza. Dentro da l'uomo essere due difetti e impedimenti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, si che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti… Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una delle quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia . La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero... L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. Le due di queste cagioni...non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione...".
Nel terzo Trattato, cosi si esprime
"... E' però da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo de l’Etica, che l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare; ma in quelle ne le quali non ha podestà non merita né vituperio, né loda, però che l'uno e l'altro è da rendere ad altrui, avvegna che le cose siano parte de l'uomo medesimo. Onde noi non dovemo vituperare l'uomo perché sia del corpo da sua nativitade laido..., ma dovemo vituperare la mala disposizione de la materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato de la natura. E così non dovemo lodare l'uomo per beltade che abbia da sua nativitade ne lo suo corpo..., ma dovemo lodare I'artefice, cioè la natura umana, che tanta ricchezza produce ... VIII. Intra li effetti de la divina sapienza l'uomo è mirabilissimo, considerato come in una forma la divina virtute tre nature congiunse, e come sottilmente armoniato conviene essere lo corpo suo, a cotal forma essendo organizzato per tutte quasi sue virtudi... E se cosi è mirabile questa creatura, certo non pur con le parole è da temere di trattare di sue condizioni, ma eziandio col pensiero...”
Ma in Dante è interessante osservare come, e qui risentiamo anche influenze socratiche, il Male nell'Uomo sia pure ignoranza e travisamento del Vero e del Bene. E' significativa nel IV Trattato, la sua critica sulla ricchezza intesa quale produttrice o elemento di nobiltà, mentre non lo é affatto. In questo caso, il Male morale è erronea interpretazione di una cosa materiale scambiata per un Bene assoluto, mentre la sua effettiva inconsistenza è data dalla provvisoria soddisfazione creata dal possesso della ricchezza, presto fonte di insoddisfazione e di necessità di ulteriore accrescimento (Walt Disney in Paperon de' Paperoni realizza curiosamente questo processo)
“Xl - Resta omai solamente a provare come le divizje sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade... E pero se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili… Puotesi brevemente la loro imperfezjone in tre cose vedere apertamente: e prima, ne lo indiscreto loro avvenimento; secondamente, nel pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne la dannosa loro possessione...
Dico che la loro imperfezjone primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade é proprio effetto d'imperfezione. Che se si considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, si come per testamenti; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come per licito o per illicito procaccio: ... illicito, dico, quando é per furto o per rapina. E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io dico, ché più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze...rappresentano...(...)
XII - Come detto è, la imperfezione de le ricchezze non solamente nel loro avvenimento, ma eziandio nel pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò più si può vedere di loro difetto... dicendo quelle, quantunque collette, non solamente non quietare, ma dare più sete e rendere altri più defettivo e insufficiente... le cose defettive possono aver li loro difetti per modo che nella prima faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la imperfezione si nasconde... E per questo modo le ricchezze pericolosamente nel loro accrescimento sono imperfette, che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario...
(...) così l'anima nostra... indirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua conoscenza prima è imperfetta...piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare...Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi a l’altro a li occhi de la nostra anima per modo quasi piramidale, che ‘l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta de l'ultimo desiderabile, che è Dio...; è questa è la ragione per che, acquistando, li desideri umani si fan no più ampii, l'uno appresso de l’altro...".
I brani da me citati riportano i punti centrali del pensiero dantesco su questo argomento: riassumendoli, si può dire che, per Dante, il modo di desiderare dell'Uomo risente della sua capacità, ma diventa sempre crescente in quanto ogni obiettivo materiale, una volta raggiunto, si dimostra insoddisfacente per quanto grande o importante. L'Uomo cosi scambia la perfezione, che è spirituale e divina, con l'accrescimento dei beni materiali. Egli insomma è come un navigatore che sempre spera di raggiungere l'orizzonte, ignorando che l'orizzonte è in sé irraggiungibile. Pur tuttavia, in questa perenne illusione può adombrarsi un incentivo al progresso, purché alla fine ci si renda effettivamente conto della vera causa dell'incontentabilità umana.
Una concezione più severa della presenza del male nell'Uomo appare in Gian Battista Vico, soprattutto nelle sue opere di filosofia giuridica. Nella "Sinopsi del Diritto Universale" del 1720 scrive:
“... Quindi ragiona della natura di Dio, che sia nosse. velle, posse infinitum; dal che dimostra la natura dell'uomo, che sia nosse, velle, posse finitum, quod tendat ad infinitum.
Da ciò dimostra I princìpi della storia sacra:
1.Adamo creato da Dio, 2.di natura intiero, 3.per sua colpa corrotto;e, in conseguenza, dimostra i princìpi
della teologia cristiana.
Per tutto ciò ferma che 'l piacere, che, perché naturale, aveva l'uomo intiero di contemplare l'eterno vero, cangiossi nell’uomo corrotto in una forza che a noi fa, con dolore de' sensi, la verità. Questa forza del vero definisce essere la ragione umana nella natura corrotta, ed essere il fonte delle virtù si intellettive come morali.”
Tale presupposto si ripresenta nel “De universi iuris uno principio et fine uno”; nel Libro 1, capitoli XXI e seguenti, più specificamente osserva:
''Ma l'umana natura creata incorrotta da Iddio, sendosi per colpa dell'uomo inviziata, la ragione è soprafatta dalla volontà, la quale con ogni suo sforzo imprende di contrastare alla ragione.
La volontà che signoreggia la ragione è concupiscenza; la ragione schiava della concupiscenza è errore; la volontà che contrasta alla ragione è perturbazjone dell'animo.
La philautìa, l'amore di sé medesimo, per cui l'uomo di se stesso soverchiamente si compiace, genera la concupiscenza; il temerario consiglio pel quale l'uomo giudica le cose, avanti di averle a sufficienza esaminate e discorse, fa nascere l'errore: la ferocia della corrotta natura che maggiormente s'irrita ed inacerba, quando più l'uomo le compiace e l’accarezza, produce la perturbazjone dell'animo .
La concupiscenza viene eccitata dalle cose di cui sentiamo detto, cioè dalle cose finite [notare la forte analogia col pensiero dantesco]; ella è eccitata pei sensi, i quali al corpo appartengono. Le cose del corpo son mosse;dunque la concupiscenza è eccitata da cose finite corporali.(...)
In quella sapienza dei sensi consiste l’umana stoltezza. Siffatta disconoscenza della verità è il fonte donde sgorgano tutte le miserie umane. ....il corpo è quello che comunica all’animo la bruttura
che nominasi concupiscenza...Quindi nasce l'odio immortale degli stolti inverso lor medesimi; quindi... quell’ansia perpetua di correre senza mai posarsi, dall'uno in altro corporale difetto; quelle smodate allegrezze che tosto in doglianza si trasmitano...(...)
La concupiscenza... è incitata dalle cose finite corporali, dalle utilità che si riportano al corpo. In conseguenza del peccato originale contratto dal genere umano, per la caduta di Adamo... il fallace giudizjo dei sensi toglie la mente dell'uomo dalla pura contemplazione dell'eterna verità, e lo conduce ad agognare quelle cose che sempre tramutano, e sempre gli sfuggono...Ma l'uomo dovunque volga lo sguardo non può perdere la veduta di Iddio...(...) Laonde, nell'uomo corrotto non sono del tutto spenti i semi della ventà, e questi coll’aiuto d'Iddio, valgono a fargli dispiegare una forza che contrasta alla corruzione della natura...”
Per necessità di spazio, ho dovuto ridurre al minimo la citazione, ma mi sembra che, comunque, il concetto vichiano del dualismo morale nell'uomo appaia ben chiaro. Similmente, si esprime nei capitoli iniziali del "De constantia iurisprudentis". C'è da parte di Vico un forte tentativo di conciliare I dogmi della fede biblica con quelli della sua ragione storica, ma al di là del problema critico di tale conciliazione, resta il fatto che la presenza del male nell'uomo non dipende se non da lui stesso, per sua colpa e per scelta delle cose finite e materiali rispetto a quelle infinite e spirituali. Pochi decenni dopo è Jean Jacques Rousseau
a valutare l'uomo in forme ancora più negative e pessimistiche. Appare interessante rilevare come Voltaire, che lo criticò per il suo eccessivo ottimismo per la natura e per tutto ciò che appare primitivo, anche in polemica con l'ottimismo leibniziano, non fu però meno aspro nei confronti della natura umana: in questo senso, basti ricordare di Voltaire il suo "Candide" e le molte novelle, dove certamente gli esseri umani non fanno, in generale, un'ottima figura.
Ma torniamo a Rousseau: se già nel "Discorso sulla questione che il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito alla purificazione dei costumi" del 1750 e nell'altro sull'origine della disuguaglianza del 1754, non si esprimono certo concezioni favorevoli alla tesi del progresso nella civiltà umana, ancora più netto e deciso appare il suo giudizio all'inizio del Libro 1 nel suo capolavoro pedagogico, ovvero “l'Emilio”: "Tutto è bene uscendo dalle mani de/l'Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell'uomo. Egli sforza un terreno a nutrire i prodotti propri d'un altro, un albero a portare I frutti d'un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, altera tutto, ama le deformità, I mostri; non vuol nulla come l'ha fatto natura, neppure l'uomo; bisogna addestrarlo per sé come un cavallo da maneggio; bisogna sformarlo a modo suo, come un albero del suo giardino . Senza di ciò, tutto andrebbe peggio ancora, e la nostra specie non vuol essere formata a mezzo. Nello stato in cui ormai le cose si trovano, un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita, sarebbe fra gli altri il più alterato di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali... soffocherebbero in lui la natura e non metterebbero nulla al suo posto...”
Questa concezione, così drasticamente negativa verso l'uomo, soprattutto in quanto prodotto della società, fa però sorgere un problema non indifferente anche in campo teologico, e soprattutto sull'origine del male morale. Se è vero che ciò che esce dalle mani di Dio è sempre buono e se è altrettanto vero che tutto ciò che l'Uomo, soprattutto in quanto essere sociale e prodotto della cultura sociale umana, rovina o peggiora le cose che lo circondano ed anche se stesso, a che cosa è dovuto questo ? Forse che l'Uomo non è creato da Dio ? Non è certo questo il pensiero di Rousseau, il quale, creando la sua grande opera pedagogica, ritiene comunque che l'uomo, attraverso un'opportuna educazione, può essere recuperato e redento, salvato dalle sue mostruosità e dalla sua distruttività. Tuttavia, se, pur uscendo anch'egli dalle mani di Dio, è così negativo, dovremmo forse ritenere che la creazione dell'essere umano sia l'unico errore di Dio?
E veniamo ora ad lmmanuel Kant, l'ultimo dei filosofi, di cui qui mi occupo, che abbiano affrontato il formidabile tema della compresenza del Bene e del Male nell'Uomo. Questo tema è stato da lui esaminato soprattutto nell'opera “La religione nei limiti della semplice ragione” del 1794. Basti il titolo del primo capitolo per constatare com'egli imposti il problema
"La coabitazione del principio cattivo e del principio buono, ovvero il male radicale nella natura umana'. Ma appare ugualmente importante vedere come poi sviluppi il proprio ragionamento in merito al grandissimo problema: “Più recente, ma molto meno diffusa, è l’eroica opinione opposta secondo la quale il mondo procederebbe incessantemente dal peggio al meglio: nella natura umana si riscontrerebbe appunto una disposizione in tal senso. Questa opinione ha trovato credito solo tra i filosofi e, ai nostri giorni, soprattutto presso i pedagoghi. Costoro, però, se intendono parlare del Bene e del Male in senso morale... non hanno di sicuro ricavato tale opinione dall'esperienza, giacché la storia di tutte le epoche la smentisce in modo troppo evidente. E' invece verosimile si tratti semplicemente di un presupposto generoso dei moralisti, da Seneca fino a Rousseau... Costoro aggiungono inoltre: poiché è necessario ammettere che il corpo dell'uomo sia sano per natura (...al momento della nascita), non c'è nessun motivo per non ammettere che anche l'anima umana sia altrettanto sana e buona per natura...
Sennonché, un uomo viene definito 'cattivo' non semplicemente pen·hé compie azioni cattive (contrarie alla legge), bensì perché il carattere di queste azioni dipende da cattive massime presenti in lui... Per definire 'cattivo' un uomo, dunque, bisognerebbe risalire a priori da alcune azioni consapevolmente cattive... a una massima cattiva che ne stia a fondamento, e poi da questa massima fino ad un fondamento generale di tutte le massime particolari moralmente cattive... ·
E' quindi opportuno segnalare che qui con 'natura dell’ 'uomo' si intende soltanto il fondamento soggettivo dell’uso della libertà umana in generale... che.... è anteriore a tutti gli atti che cadono sotto i sensi. A sua volta, però, anche tale fondamento soggettivo dev'essere necessariamente un atto di libertà (se così non fosse, infatti, l'uso o l'abuso che l'uomo fa del suo arbitrio rispetto alla legge morale non potrebbe essergli imputato ".
Impostato così il problema, sarebbe certo interessante leggere, quasi passo per passo, le successive asserzioni di Kant, ma già ho preso notevole spazio su quello che sarà l'altro aspetto della compresenza del Bene e del Male ovvero la proiezione del Male sull'Altro, che rappresenta da un lato lo sviluppo del primo tema, dall'altro la prova della consapevolezza nell'Uomo della negatività del Male, di cui cerca di spogliarsi almeno nelle apparenze. Cito perciò un'ultima considerazione di Kant:
"...La malvagità della natura umana, dunque, non è vera e propria malignità - se si intende questa parola nel suo significato rigoroso, cioè come intenzione... ad accogliere come movente nella propria massima il Male in quanto Male (questa intenzione, infatti, è diabolica).
La malvagità umana, piuttosto, va chiamata perversità del cuore...L'animo malvagio può coesistere insieme a una volontà generalmente buona; esso scaturisce dalla fragilità della natura umana, la quale non è abbastanza forte da attuare I princìpi adottati, e questo perché è così legata all'impurità da non riuscire a separare l’uno dall’altro i moventi (anche delle azioni volte a un fine buono) secondo una direttiva morale, per cui,... nella migliore delle ipotesi, essa riesce a scorgere soltanto la conformità di queste azioni con la legge, ma non la loro derivazione dalla legge stessa quale loro unico movente... in tal caso, infatti, non si tiene conto dei moventi accolti nella massima, bensì soltanto dell'osservanza della lettera della legge..”
Affrontiamo ora l'altro tema sul Male, ovvero la proiezione che di esso fa l'Uomo sull'Altro (o gli altri) a fini di giustificazione. E' noto che Feuerbach e Marx ritennero che l'idea del Bene, concepita in modo assoluto in Dio, non era che una forma di alienazione dell'Uomo. Mi pare che tale ipotesi sia assolutarriente ingenua e segno ulteriore della presunzione umana. Ben lungi dal proiettare il proprio Bene all'esterno in un Dio, l'Uomo cerca di tenersi quel poco bene, che sa di possedere, per sé ed evita di attribuirlo agli altri, e tantomeno ad un Essere tanto lontano. In generale, l'Uomo é cosciente del Bene e del Male, proprio per la sua natura razionale e morale, esclusa ad ogni altra creatura terrestre. Egli sa quindi che il Male è cosa negativa, e pertanto riprovevole. Essendo cosciente e libero, sa anche pertanto di essere responsabile di ogni proprio atto che sia considerato malvagio. Non desiderando tuttavia pagare i costi di questa sua responsabilità, cerca di giustificarsi in ogni modo possibile per ridurre la gravità della punizione, rovesciando questa responsabilità sull'Altro. Questo rovesciamento, in generale, avviene come proiezione del Male su una vaga entità esterna, a cui attribuire la colpa dell'esistenza del Male e simulando di essere solo un burattino nelle mani di questa entità misteriosa; oppure, specialmente nel caso individuale, tende a proiettare sugli altri, i suoi simili, la responsabilità di questo Male.
Ricordo un vecchio gioco che facevamo da bambini a Trieste (probabilmente di simili ve ne saranno stati in altre località): quello del frate che "gà perso le zavate". Ricordo che la tiritera finiva per dare la colpa del furto o della sparizione delle ciabatte al frate. Si tratta di un tipico esempio ludico ed infantile, eppure serio nella sua sostanza, in quanto il fanciullo imita il comportamento adulto, di questo continuo sforzo dell'uomo di proiettare su altri la responsabilità del male. La religione ci dà in questo caso gli esempi più significativi. E' celebre l'osservazione di Gesù sulla pagliuzza e sulla trave: è assai più facile che ciascuno di noi riesca a vedere una pagliuzza nell'occhio dell'altro, che non la trave che attraversa il suo, metafora per dire che è più facile cogliere i difetti altrui che non i propri, ancorché più gravi.
Tra i miti religiosi più antichi basti ricordare qui quello del Vaso di Pandora: gli antichi greci, per spiegarsi la diffusione dei mali sulla Terra, invece di incolpare l'umanità in generale, preferivano attribuire la responsabilità alla curiosità di una donna, la quale, per vedere che cosa ci fosse in quel vaso ermeticamente chiuso che le era stato affidato, lo aperse, diffondendo cosi il Male ed i mali sulla Terra. L'esempio, tipico dell'antifemminismo greco, dimostra tuttavia il tentativo umano, e nel caso nostro maschile, di rovesciare su altri la responsabilità propria e di tutti. Ancora un esempio di rovesciamento sull'Altro del Male è l'ideazione di figure negative tipiche di molte religioni, compresa la greca, con l'immaginarsi esseri che, ribellandosi a Dio, si tramutano in dèmoni malvagi. Interessante è l'evoluzione della religione zoroastriana o mazdaica, nata nell'antica Persia, la quale in origine presentava caratteri assolutamente monoteisti, credendo nell'esistenza di un solo Dio Ahura Mazda, poi Ormzud, in lotta contro il Male. Progressivamente questa lotta, perpetuandosi, portò ad identificare il Male in un altro essere, Ahriman, e in creature demoniache, i Daeva. In tal modo, l'originario monoteismo divenne un vero e proprio dualismo teologico, che a sua volta si evolse, attraverso · forme sincretiche, nel Manicheismo, transitate in Europa prima col bogomilismo dell'Europa orientale, poi con la fede degli Albigesi nell'Europa occidentale: queste ultime correnti identificarono il Male nel mondo materiale e nello stesso corpo umano. Non voglio qui fare considerazioni specifiche sulla religione zoroastriana, oggi diffusa, dopo l'espansione islamica, in pochi gruppi nell'Iran e in India: mi interessa invece sottolineare come l'immaginarsi un essere superiore assolutamente malvagio, capace di contrapporsi in modo assai durevole a Dio, a sfidarlo e a tenerlo in scacco per millenni, sia del tutto assurdo sul piano logico; ma si spieghi con il tentativo umano di scaricare su quest'essere fantasioso la responsabilità del male e dei mali del mondo.
Un esempio di straordinaria importanza viene dato dal Genesi, con aspetti anche vagamente comici, col primo caso di "scaricabarile" di responsabilità e di colpe:
"... Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche [anche l'unica capace di ragionare, di parlare e di tentare] fatte dal Signore Iddio. Egli disse alla donna: E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero nel giardino?' Rispose la donna al serpente: 'Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino, Dio ha detto: non ne dovete mangiare e non lo dove toccare, altrimenti morirete: Ma il serpente disse alla donna: 'Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male'. Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito,...e anch'egli ne mangiò…
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino...e l'uomo con sua moglie si nascosero...Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse 'Dove sei ?'. Rispose: 'Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto. Riprese: 'Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?' [Ed ecco come si giustifica il furbone] Rispose l'uomo: 'La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato”.II Signore Dio disse alla donna: 'Che hai fatto? ' Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato”
Così appare evidente che i due esseri umani, appena sono entrati in possesso della coscienza del Bene e del Male, hanno anche appreso subito la capacità di giustificarsi attribuendo agli altri la colpa: l'uomo incolpa la donna e questa incolpa il serpente. Non fanno una figura particolarmente bella, ma è una figura tipicamente umana. Anche il primo assassino della storia biblica, il fratricida Caìno, interrogato da Dio, cerca di negare la sua colpa: “... Il Signore disse a Caino. 'Dov'è Abele, tuo fratello?” Egli rispose: 'Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”
Appare curioso il fatto che questi nostri mitici ed emblematici antenati, pur conoscendo l'infinita sapienza di Dio e pur sapendo di non poter evitare la punizione, si sforzano di far finta di nulla, tentando in tal modo di evitare la punizione. Questo vizietto appare tipico di tutti i loro discendenti. Il gioco del frate e delle sue "zavate" non si rivela altro che un'ulteriore conferma, anche nei fanciulli, di tale consuetudine, che viene considerata legittima perfino nel nostro Codice Penale: è infatti legittimo mentire allo scopo di evitare la pena prescritta. Tentare di evitare la punizione, aggravando la colpa con la menzogna, la calunnia e la diffamazione, vantando viceversa la propria onestà, è però ipocrisia. Non è un caso che in quello strano serpente ragionante e parlante, unico animale a farlo lì ed altrove, si finisce per identificare Lucifero o Satana, il Demonio per eccellenza, l'Essere che, analogamente all'Ahriman dei Persiani, può permettersi di sfidare Dio nei millenni. L'Uomo in generale, l'umanità, cerca di evitare la responsabilità e la punizione del Male compiuto, scaricandolo su questa entità. Sul piano individuale, si cerca sempre un capro espiatorio (del resto, che altro erano I sacrifici di animali, se non un tentativo ipocrita di guadagnarsi il perdono facendo pagare con la vita ad un animale i peccati umani?) sul quale scaricare le proprie responsabilità. Sul piano della quotidianità, non c'è alcun bisogno di fare esempi, perché ciascuno di noi può citarne milioni. Del mondo politico, è superfluo parlare: la responsabilità dei fallimenti, dei disastri, delle rapine, è sempre degli altri. Né diversamente avviene in guerra, dove la malvagità, la disonestà, la viltà, si trovano sempre nel Nemico, mai in noi, che invece possediamo eroismo, coraggio, lealtà, forza, etc...
Ora, invece, desidero citare passi essenziali di due romanzi che molto a torto si considererebbero prodotti esclusivamente letterari o avere un solo significato estetico. Utilizzo due esempi letterari di proiezione sull'Altro del Male, o, meglio, del desiderio e del tentativo dell'Uomo in generale di estrinsecare su qualcuno, che non coincida con noi, o su qualcosa, il Male presente in noi. Uno è “Lo strano caso del dr. Jekill e di mister Hyde”, opera di Robert Louis Stevenson del 1886, che molto a torto si giudicherebbe un romanzo dell'orrore o un romanzo nero o gotico: nelle forme esteriori del romanzo nero si cela una concezione di filosofia morale e giuridica notevole. Su questo piano, il tentativo del dr. Jekill si rappresenta in termini di diritto penale come un' “"actio libera in causa” ovvero la volontà di realizzare un delitto attraverso la deliberata perdita della coscienza e di ogni inibizione ad essa dovuta. Lascio qui stare la contraddittorietà di tale questione. Qui mi limito a sostenere, come risulta dal testamento dei dr. Jekill, che il suo desiderio era proprio quello di crearsi un alter ego negativo, con il quale realizzare cose che - lo si capisce in modo implicito - non poteva realizzare, senza pena, rimanendo integralmente se stesso come unione di bene e di male. Nella descrizione del signor Hyde, inoltre, si osserva un altro curioso aspetto della mentalità umana: il fatto che il male coincida con la bruttezza e, in questo caso, addirittura con l'orrore e la ripugnanza fisica.
Un altro esempio appare, in forme simboliche, nel romanzo di Oscar Wilde “Il ritratto di Dorian Gray”: tale ritratto, in questo caso, esprime null'altro che il desiderio di proiettare su un oggetto le conseguenze negative (come il precoce invecchiamento o il .disfacimento dei lineamenti umani) di un comportamento malvagio, restando esteriormente intatti ed immuni da ogni male fisico. Ciò esprime il desiderio ipocrita dell'Uomo di apparire eternamente giovane e sano, pur compiendo atti negativi sia per il corpo che per l'anima.
Così si confessa il dr. Jekill:
'... Incline per natura all'operosità, ambizioso soprattutto di acquistarmi la stima dei migliori:.. tutto sembrava promettermi un futuro brillante e onorato. II peggiore dei miei difetti era una certa impaziente vivacità, un'inquieta gaiezza..., che io trovavo docili da conciliare col mio prepotente desiderio di andare sempre a testa alta, esibendo in pubblico un contegno di particolare gravità.
Fu così che cominciai molto presto a nascondere i miei piaceri, e che...mi trovai già incamminato in una vita di profonda doppiezza... Più che di fatti gravi, furono dunque le mie aspirazioni eccessive a fare di me quello che sono stato, e a separare in me... quelle due province del bene e del male ... venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità...: l'uomo non è veracemente uno, ma veracemente due... non è da escludersi che l’uomo, in ultima analisi, possa rivelarsi una mera associazione di soggetti diversi, incongrui e indipendenti...
E' stato dal lato morale, e sulla mia stessa persona, che ho imparato a riconoscere la fondamentale e originaria dualità de/l'uomo. Considerando le due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, capii che se potevo dire, con altrettanta verità, di essere l'una come di essere l'altra, era proprio perché si trattava di due nature distinte... appresi a indugiare con piacere... sul pensiero di una separazione dei due elementi. Se questi, mi dicevo, potessero incarnarsi in due identità separate, la vita diventerebbe molto più sopportabile. L'ingiusto se ne andrebbe per la sua strada...
[il guaio è che Jekill, riuscendo a creare il proprio alter ego negativo, rimase pur sempre Jekill nella sua dualità; non riuscì a produrre un alter ego solo positivo, e ciò non è casuale: anzi, Jekill si trovò ad essere dominato dal suo alter ego malvagio].
... Cominciai a percepire... la tremula immaterialità, la vaporosa inconsistenza del corpo, così solido in apparenza, di cui andiamo rivestiti. Scoprii che certi agenti chimici avevano il potere di scuotere... questo rivestimento di carne...
... Mi limiterò a dire, perciò, che non solo riconobbi nel mio corpo... la mera emanazione o effluvio di certe facoltà del mio spirito, ma elaborai una sostanza capace di suscitare una seconda forma corporea..., espressione di altri poteri, anche se più vili, della mia stessa anima ...
... Mi sentii più giovane, più leggero, più felice..., mentre nel morale ero conscio di altre trasformazioni, una rapida e tumultuosa corrente di immagini sensuali, uno scioglimento dai freni dell’obbligo... E subito... mi seppi portato al male con impeto decuplicato e interamente schiavo del mio peccato d'origine ...
... Il male inoltre...aveva impresso a quel corpo il suo marchio di deformità e corruzione. Eppure, quando vidi quell'immagine raccapricciante nello specchio, ciò che provai fu un senso di gioia e di sollievo, non di ripugnanza ...Un tempo, per commettere delitti senza alcun rischio... si assoldavano e mandavano attorno dei bravi. Io fui il primo a disporre di un 'bravo' che mandavo attorno perché si procurasse i miei piaceri ...
Ma anche nell'impenetrabile mantello di Hyde ero perfettamente al sicuro. Se ci pensi, neppure esistevo !...
[abbreviando i vari passaggi, notiamo come il castigo per Jekill gli arrivi in forma inattesa: l’actio libera in causa finisce per essere un fatto involontario. La mutazione avviene da sé] ... Balzai da letto, corsi allo specchio, l'evidenza mi agghiacciò: sì, m'ero addormentato Jekill e mi svegliavo Hyde...”
Sarebbe assai interessante poter leggere tutta l'abile descrizione che Stevenson fa dei vari momenti e passaggi, ma a noi qui occorre mettere in evidenza gli aspetti etici del discorso.
L'autore indica assai bene tutto l'altalenarsi delle situazioni, finché ormai la mutazione di Jekill in Hyde diventa così totale da condurlo alla morte, che è anche la sua liberazione .
Nel “Ritratto di Dorian Gray”, opera del 1890, quindi contemporanea, appare, oltre all'esaltazione della bellezza fisica e del desiderio di acquisire un'eterna giovinezza, qualcosa in più. Per quanto l'autore, Oscar Wilde, sostenga nella prefazione al romanzo, che nessun artista debba avere intenti morali, altrimenti cade in un "imperdonabile manierismo stilistico", nondimeno non si può negare che non si legge il suo romanzo senza entrare in valutazioni morali o senza che allo stesso autore sfuggano considerazioni morali, anche se attribuite ai suoi stessi personaggi. Il ritratto del protagonista assume i caratteri di uno specchio dell'interiorità di Dorian, proprio perché in esso si proiettano le conseguenze fisiche, non tanto della normale decadenza fisica dell'uomo, quanto di quella devastazione dei lineamenti conseguente ad una vita di vizi: dopo aver litigato con la propria innamorata, perché questa lo aveva deluso recitando male, ritorna a casa e:
“... Mentre abbassava la maniglia, lo sguardo gli cadde sul ritratto dipinto da Basil Halhvard. Arretrò sorpreso .... alla fine ritornò indietro, si avvicinò al quadro e io osservò. Nella luce pallida..., il volto gli sembrò leggermente cambiato: l'espressione era diversa. Si sarebbe detto che la bocca avesse assunto una nota di crudeltà. Era davvero strano...”
... L'alba luminosa inondò la stanza...Ma la strana espressione che aveva notato sul volto del ritratto parve rimanervi e, anzi, rafforzarsi. La tremula, ardente luce del sole gli mostrava le rughe di crudeltà intorno alla bocca, chiare come se si stesse osservando in uno specchio dopo aver commesso qualche cosa di spaventoso.
Trasalì e, preso dal tavolo uno specchio...,guardò ansiosamente nella lucida profondità. Nessuna ruga simile deformava le labbra rosse. Che cosa signifìcava ?
Si strofinò gli occhi e, avvicinatosi al quadro, lo esaminò di nuovo. Il quadro non mostrava il minimo segno di cambiamento e tuttavia l’espressione complessiva era alterata. Non era la sua immaginazjone: il fatto era di un'orribile evidenza . .... Improvvisamente, come un lampo, gli attraversò la mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward...Aveva espresso il folle desiderio di poter restare giovane lasciando che il ritratto invecchiasse al posto suo, di conservare intatta la sua bellezza lasciando che il volto sulla tela reggesse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati... Ma certo il suo desiderio non era stato esaudito: queste cose erano impossibili... Tuttavia aveva davanti a sé il ritratto con quella nota di crudeltà nelle labbra. Crudeltà ! Era stato crudele ? Colpa della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva donato il suo amore pensando che lei fosse grande, e lei lo aveva deluso ...
… Fu sopraffatto da un senso d'infinita pietà, non per se stesso, ma per l'immagine dipinta di se stesso. Già si era alterata e lo sarebbe stata ancora di più...”
A causa del litigio, la ragazza si uccide: ovviamente, in tempi di formalismo puritano, si cerca di far passare la cosa per una disgrazia. L'amico Henry informa di questo Dorian che, nel frattempo, pareva essersi sinceramente pentito della sfuriata, proprio per le mutazioni del suo ritratto. Henry, col suo scetticismo, lo convince dell'inutilità del pentimento e del rimpianto per la morte della giovane attrice, come per qualunque rapporto sentimentale con le donne. Rimasto solo, dopo varie meditazioni, vuol verificare lo stato del ritratto:
“...Sarebbe stato un vero piacere osservarlo. Avrebbe potuto seguire la sua mente nei suoi segreti nascondigli. II ritratto sarebbe stato il più magico degli specchi. Come gli aveva rivelato il suo corpo, gli avrebbe rivelata la sua anima...”
C'è poi un colloquio col pittore, il quale, meno scettico e ben più sensibile di Henry, prima crede di trovarlo almeno addolorato, poi invece lo scopre ormai già indifferente ed annoiato.
Ne nasce una lunga discussione; alla fine di questa, il pittore che avrebbe voluto portare il suo magico ritratto ad una mostra, riceve da Dorian il rifiuto di vederlo, così capisce che nel quadro è avvenuto qualcosa di strano, dovuto, secondo il pittore, alla stessa passione estetica verso Dorian che egli provava. Dorian motiva, al termine del colloquio, il suo rifiuto così:
"... non posso spiegarti, Basil, ma non devo posare per te. C'è qualche cosa di fatale in un ritratto.Ha una vita propria".
Decide di nascondere il quadro in una stanza abbandonata e coprirla con una coltre che egli pensa già adoperata per qualche cadavere: anche in questo drappo c'è un significato simbolico, ma dobbiamo procedere oltre. Nel fare questo trasporto, pensa:
"... II volto sulla tela era diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia provava un disgusto ancora più intenso. I capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto l’espressione era alterata, orribile nella sua crudeltà. Come erano stati superfìciali i rimproveri di Basil per Sibil. Vane, di fronte alla censura e al biasimo che vedeva nel quadro...”
Trascorsi gli anni, “... la meravigliosa bellezza che aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non abbandonarlo mai. Anche quelli che avevano sempre sentito dire le peggiori cose sul suo conto..., quando lo vedevano non potevano credere a nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non si è lasciata macchiare dal mondo. Uomini che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian Grqy. Nella purezza del suo viso c'era qualcosa che pareva rimproverarli...
Spesso, dì ritorno da una di quelle sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane congetture..., saliva di soppiatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta ... e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto... Guardava ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia superfìcie di vetro e la violenza del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre più interessato alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile soddisfazione, le rughe ripugnanti..., chiedendosi se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età... Rideva di scherno verso quel corpo sformato e quelle membra indebolite ...
.... a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti animaleschi e selvaggi solo perché l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece di proporsi elementi di nuova spiritualità... ".
Meriterebbe proseguire la lettura, ma ancora una volta lo spazio ci ordina di riassumere con fredde parole la storia sempre più avvincente di Dorian; in una discussione con l'amico pittore, i due finiscono per litigare o quasi: Dorian gli mostra il ritratto, ormai deformato dall'età (non ancora avanzata), ma soprattutto dai vizi. Dorian, di fronte all'orrore dell'amico, gli osserva tra l'altro:
"...In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil... "
Dorian finisce per aggredirlo ed ucciderlo. Un amico, esperto di chimica, da lui ricattato, fa sparire il cadavere del pittore. Dopo questo fatto, sul quadro appare una rugiada rossa e lucente. La storia continua; molti fatti si alternano, ma è determinante l'ultimo incontro col vecchio amico Henry, a cui confessa - non creduto - di essere l'assassino del pittore. C'è anche un nuovo amore, una semplice ragazza di paese, ma Dorian la lascia. Si arriva così alla conclusione: Dorian è nauseato della sua vita e decide di liberarsi del quadro, usando come mezzo proprio il pugnale con cui aveva ucciso il pittore. Ma, colpendo il ritratto, uccide in realtà se stesso. C'è una cosa che apparenta questo romanzo a quello di Stevenson: dopo la morte di Dorian, il ritratto torna a rappresentarlo giovane, bello e puro; ai suoi piedi viene
ritrovato il cadavere di un vecchio ripugnante, che viene riconosciuto per lui solo dagli anelli alle mani .
Non essendo io esperto di letteratura, particolarmente britannica, non so se l'analogia sorga da una stessa tematica, la proiezione all'esterno del male interiore, o se ci sia un obiettivo rapporto tra il romanzo di Stevenson e quello di Wilde. A me pare, per la notevole differenza di stile, che il rapporto tra idue lavori sia dovuto ad una comune tematica, non certo ad una, per quanto ottima, imitazione .
In conclusione, questo mio scritto non ha alcuna pretesa di costituire una soluzione, bensì soltanto un approccio iniziale al problema del male nell'Uomo e a quello della sua proiezione sull'Altro, problema che in oltre due o tre millenni é stato sì più o meno impostato, ma ancora lontano dall'essere risolto. Appare certa almeno una cosa: solo in un'ambito spiritualista tale problema può essere inquadrato ed avviato a soluzione. Un'altra condizione preliminare è quella del doversi rendere conto che il Male morale è
nell'Uomo, non fuori dell'Uomo.
L'ateismo ed il materialismo non possono affatto considerarsi nemmeno un approccio o un'impostazione del problema della coesistenza, del Bene e del Male morale.
Il materialismo non spiega nulla, per il fatto ovvio che da una materia inerte non può risultare altro che inerzia, nulla potrebbe muoversi o crearsi in essa; sul piano morale, vi sarebbe solo pura neutralità: nessuno potrebbe distinguere in tale inerzia cose buone o cattive, e neppure cose specifiche.
Quanto all'ateismo non materialista, esso non può che confermare l'intera responsabilità dell'Uomo, ma senza certezze o senza speranze di un finale trionfo del Bene, essendo comunque l'Uomo un essere limitato nelle proprie capacità di conoscenza e di azione.
La soluzione di questo enorme problema è introvabile nelle pure negazioni, ma può essere ritrovata gradualmente nel riconoscimento della duplicità della natura morale umana, nelle sue potenzialità positive che possono e debbono essere rese operanti, nel non confondere ciò che è esigenza vitale necessaria fisica o psichica dell'Uomo con le varie ambizioni ed i vari interessi materiali ed egoistici, che portano svantaggio o rovina agli altri; nel far prevalere sempre di più il nostro impegno al miglioramento morale individuale e collettivo, anche se ciò costa un certo sforzo e sacrificio; nell'evitare di confondere ciò che è futile, puro passatempo, con ciò che è necessario per l'elevazione educativa dell'Uomo: troppo spesso tendiamo a trastullarci con inezie e giungiamo addirittura a compiere atti di violenza per cose insignificanti.
Così la vera lotta tra Ahura Mazda e Ahriman, la vittoria del primo sul secondo, sono soltanto un processo dell'interiorità umana, non una realtà metafisica ed universale verso la quale saremmo impotenti..