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La forza del destino e altre storie

 

di Tito Del Bianco

 

Wilhelm Reich faceva risalire alla "peste emozionale" - che affligge la gran parte dell'umanità - quell'eterno ciclo di distruzione che gli uomini perpetuano sulla terra con l'odio, la sete di potere e di vendetta ed altre mille depravazioni.

Nelle immagini bibliche, invece, la stessa diventa il "fango dell'abisso" ed il "fuoco infernale", la quaternità malvagia che il diavolo, dopo la sua caduta dal cielo, cerca instancabilmente di imprimere nell'anima umana: l'ambizione, la brutalità, la calunnia e la discordia.

Ciò che gli antichi ponevano sul piano morale diventa nel linguaggio degli scienziati "psicopatologia" (una psicopatologia, si badi bene, che colpisce tutti indistintamente), ma la sostanza in realtà non cambia: in entrambe vi è la coscienza della dissociazione e la prospettiva di una guarigione che rappresenti in realtà un progresso nel cammino evolutivo spirituale di ogni individuo.

La maggior parte dell'umanità perpetua in sè una prigione emotiva fatta di sentimenti distruttivi, di rabbia, di risentimento, di paura, e vive in un vero e proprio inferno "reale". Anche il bagaglio della Storia umana è solo la storia di persone (una minoranza) che seminano paura, violenza e guerra per imporre ad altre (la maggioranza) la loro versione di vita. La tragicità della Storia è solo lo specchio della prigione emotiva delle singole anime.

L'intera opera di Verdi che "diede voce alle speranze e ai lutti, pianse e amò per tutti" (per dirla con D'Annunzio), non può che tracciare la strada del dolore, la rappresentazione di una via maestra nelle nefandezze e nelle meschinità, poichè la Storia è piena di questi eventi, e i suoi libretti - quasi tutti - sono fondati sulla storia. Medium creativo tra più dimensioni, Verdi ha tracciato nel pathos della poesia la chiave magica per comprendere quanto lo Spirito aveva da dischiudere e lo ha fatto traendo ispirazione dalla medianità nei richiami degli armonici, degli accordi e delle tonalità. Da grande "librettista" conosceva bene il discorso della poesia che nel declamato specifica il pathos richiesto, ma certamente la sua tecnica non sarebbe bastata; ciò che lo ha forgiato è stato il ferro rovente della prova e le reazioni del suo intimo. Nella prima parte della sua vita vide morire la moglie e i due figli, ancora giovane subì tremendi traumi e stress, ma seppe dare capacità e consapevolezza a queste forze. Nei suoi "anni di galera", nei drammi quotidiani di una vita, avrà provato in prima persona l'insulto, la calunnia, il vilipendio, la sudditanza da uno stato straniero che non poteva amare gli italiani, popolo servo, oppresso da tiranni, sofferente di un lungo analfabetismo.

Si sarà rivolto a Dio o lo avrà imprecato: lui era un organista, aveva avuto un'educazione religiosa che gli avrà instillato certamente - attraverso la musica sacra - il senso del divino. Verdi conosce bene quel fango che distrugge emotivamente le anime e nelle sue opere descrive quella massa, tremenda e codarda, che si incendia facilmente e subisce il nefando influsso dei potenti che sanno, conoscono, manipolano. Nelle sue opere il popolo non rappresenta solo l'idealità del coro risorgimentale, ma anche un coacervo di morte, la turba pronta a tradire e ad applaudire il vincitore, a piegare la testa al tiranno , a scegliere Barabba e ad assassinare Cristo.

Se per alcuni aspetti nei libretti verdiani siamo proiettati in una dimensione vicina alle più eccelse mete dell'Inconoscibile e ne tratteniamo l'eterno presente fatto di verità e di consolazione, per altri tocchiamo il fondo della malvagità e veniamo a contatto con ciò che più ci umilia e ci degrada e ci spinge recalcitranti verso l'oppressione e il peso tremendo di tanti secoli di abbruttimento e di abuso.

Verdi mette in risalto le forze che generano il destino. quelle che muovono gli uomini, che formano le trame delle vite. Esse, solo apparentemente guidate da "protagonisti" , sono in realtà condotte da un'invisibile burattinaio in un avvicendamento, una concatenazione di cicli collegati l'uno all'altro in un cupo ordito che spinge gli esseri alla rovina. Facilitando l'assalto del lupo sull'agnello, il malato finisce per aver ragione del sano, il carnefice della vittima. Ciò che è 'sano' viene fagocitato e distrutto, ma dall'insulto a ciò che appare onesto, buono e innocente, scaturisce anche la distruzione dell'altro, di quella parte 'negativa' che ordisce le trame nefande (p.es. Jago, Macbeth). Le vendette - concatenazioni di eventi portati superficialmente dall'emozione e dall'apparente logicità , ma in realtà sorretti da un demone - non vanno a buon fine. Non si contano nelle opere verdiane gli interventi dell'Altra dimensione, con la quale Verdi sembra essere in assoluta dimestichezza: sogni, premonizioni, visioni, sabbah di streghe, divinazioni, apparizioni di spiriti, cori di beati o di dannati accompagnano, guidano, istruiscono e salvano, o portano alla perdizione i protagonisti delle sue vicende drammatiche.

Gli eventi si modellano portati dalle potenti forze dell'abisso e corrono su una ruota mortale che non ha limiti, che si fa beffe di tutto e di tutti, gioca con le apparenze, con gli inganni, con la menzogna. Questa forza agisce per se stessa e si autodetermina: gli eventi della storia sono il suo regno, essa è il pretesto delle guerre e della distruzione. La forza della tenebra si scatena, eppure non si fa individuare, gioca nascondendosi dietro a fatti, circostanze, moventi dell'iter 'logico' degli eventi, che distolgono l'attenzione dall'essenziale.

La sua realtà si cela, e l'uomo non sa di portare in sè questa tremenda forza distruttrice.

Continuamente si ricorre alla supplica e all'intervento del divino per il ristabilirsi della giustizia e della pietà, ma anche - molto spesso - per impetrare una vendetta dettata dall'ira, come avviene nei "versetti imprecatori" di molti salmi biblici. Del resto il riferimento ai salmi è ricorrente nei libretti verdiani, sia in maniera diretta che indiretta. Per esempio nel quarto atto della Battaglia di Legnano, il coro interno canta appunto il salmo 82, che invoca l'aiuto divino per la nazione assalita da una tremenda coalizione di nemici al tempo di Giosafat e i cui versi imprecatori (14 -17), riportati da Verdi, supplicano da Dio la condanna dei nemici: "Deus meus pone illos ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti et sis ut fiamma comburens montes. Ita persequeris illos in tempestate tua et in ira tua turbabis eos. lmple facies eorum ignominia et querent nomen tuum , Domine"

In altri casi la citazione salmodica è indiretta, come nella Forza del destino in cui il padre Guardiano nel secondo atto invoca il Dio onnipossente "a cui sgabello sono le sfere"(cfr. salmo 98), o come nei Lombardi in cui l'Eremita nel secondo atto benedice Dio anche nella sventura echeggiando Giobbe:"E' giusto lddio soltanto: sia per lui benedetto il duolo e il pianto ".

Ma grande spazio è dato anche alla preghiera più familiare: l'invocazione all'Angelo custode e alla Madre di Dio, la scansione del tempo segnato dalla liturgia delle ore e la campana che la accompagna.

Aroldo, nel quarto atto dell'omonima opera s'inginocchia, assieme a Briano, al suono dell'Ave e prega il suo Angelo: "Angiol di Dio Custode mio Prega per me Tu mi proteggi M'ispira e reggi M'affido a te." (4.atto, scena 2)

Tra le preghiere alla Madre di Dio non si annovera solo quella stupenda dell'Otello, ma anche la preghiera di Giselda, nel primo atto dei Lombardi sebbene la versificazione non sia purtroppo altrettanto felice:

"Te Vergin Santa invoco Salve Maria - di grazia il petto t’empie il Signore - che in te si posa Tuo divin frutto - sia benedetto O tra le donne - l'avventurosa! Vergine Santa - Madre di Dio per noi tapini - leva preghiera Ond'Ei ci guardi – con occhio pio quando ne aggravi - l'ultima sera! " (atto 1. scena 6)

E ancora la Madre di Dio compare nella visione del Paradiso che si schiude a Giovanna d'Arco morente, nell'ultima scena dell'omonima opera: "S'apre il cielo discende la Pia che parlar mi solea dalla balza, mi sorride m'addita una via, pare accenni che seco mi vuol, Ecco! nube dorata m'innalza, oh! l'usbergo tramutasi in ale, Addio terra - addio gloria mortale, Alto io volo - già brillo nel sol" (atto 3, ultima scena)

Vi è spesso nei libretti l'implorazione fondata sulla fiducia nella giustizia divina - o almeno in ciò che noi uomini intendiamo come tale - che si confida segnerà eternamente nel giudizio finale il destino di ognuno. L'appello alla giustizia divina si confonde poi in realtà con l'appello alla vendetta, un meccanismo che fa parte del dramma, una giusta reazione a scrollarsi di dosso il fato, se non fosse essa stessa, viziata dall'umano risentimento, incentivata dallo stesso demone che spinge al delitto: "O patrizi tremate ... L'Eterno l’opre vostre dal cielo misura, D'onta eterna, d'immensa sciagura, Egli giusto pagarvi saprà" (Lucrezia, atto 1. scena 7 - I due Foscari).

E ancora :

"Di questo affanno orrendo, farai vendetta o cielo, quando nel dì tremendo, si squarcerà il gran velo,e scoprirà ogni ciglio, il giusto, il reo qual'è "

(Lucrezia, atto 2, scena 3 - I due Foscari )

Il "Dio vendicator", sempre presente nelle opere verdiane, oltre a perpetuare la crudeltà fa scaturire egli stesso dalle vittime lamenti e suppliche per la restaurazione della giustizia. Ma queste suppliche rimangono inascoltate. Il dio crudele non muta nel 'continuum': possono cambiare lo scenario e le circostanze, ma il dio continua a giocare con le creature per suo divertimento, ponendole all'impari confronto della sua incommensurabile capacità di combinazioni. Chi capita nella sua rete sarà avviluppato in mille guise nelle sue tremende invenzioni di destini intrecciati così perfettamente nella contrapposizione che si gioca sull'alternanza dei poli.

Essa è il gioco delle apparenze che nella tradizione indù è chiamato il “Lila di Baba", un gioco di immagini fasulle che è necessario abbandonare, trovando una via d'uscita

Nella tradizione cristiana l'uscita dal gioco delle apparenze è rappresentato dall'istanza del perdono. Nel finale dell'opera Alzira, Gusmano, ferito a morte, pronuncia parole di perdono ascoltando il suo Dio misericordioso:

“Io del mio Nume, odo la voce, voce che impone di perdonar, Sol per tuo scampo quel fido core, a me cedeva e reo sembrò, vivete insieme giorni d'amore e benedite chi perdonò”.

Anche il finale dell'Aroldo verte completamente sul tema cristiano del perdono: “Il Giusto un dì ha detto: il sasso scagliato sia primo da quegli ch'è senza peccato. E allor perdonata la donna si alzò (...) Trionfi la legge divina d'amor”

Altrettanto avviene nel finale della Forza del destino, in cui nulla si può se non sottomettersi ad una forza che va al di là di ogni nostra immaginazione ma che guida inconfutabilmente tutti i nostri passi, un "capitano Nemo " come la definì Jean Guitton - "maestro della contingenza e artefice della durata, che si diverte a creare le circostanze intorno alle nostre paure e ai nostri desideri”.

Questa stessa forza pone spesso sul nostro cammino tutti quegli ostacoli a cui è inutile opporsi e che una volta superati saranno il viatico per la nostra evoluzione. Ce lo ricorda , con un linguaggio cristiano ,il Padre Guardiano :

"Non imprecare; umiliati, a Lui ch'è giusto e santo! Che adduce a etern gaudii per una via di pianto... D'ira e furor sacrilego non profferir parola, mentre quest'angiol vola al trono del Signor..."(Forza del destino, atto 4. ultima scena)

Molto spesso però Verdi si sofferma a descrivere e a penetrare le cause del male, le emozioni distruttive che portano, nel contesto della Storia, alla violenza e alla morte. Analizza l'odio e il ‘credo’ negativo, come quello di Jago, la sete di potere, la vendetta, la maledizione, gli intrighi e gli inganni che sogliono fare gli uomini presi dal gioco delle apparenze, spinti dalla sete di potere e da quella "peste emozionale" di cui si parlava poc'anzi, che trasforma gli esseri umani, pur tutti dotati della scintilla divina, in una massa di esseri infelici e disperati, malati nella mente e nello spirito, colmi di sadismo e di perversità:

"Credo in un Dio crudel che m'ha creato simile a sè, e che nell'ira io nomo. Dalla viltà d'un germe o d'un atòmo vile son nato, son scellerato perchè son uomo, e sento il fango originario in me. Sì quest' è la mia fè! Credo con fermo cuor, siccome crede la vedovella al tempio, che il mal ch'io penso e che da me procede per mio destino adempio. Credo che il giusto è un istrion beffardo e nel viso e nel cuor. Che tutto è in lui bugiardo: lagrima, bacio, sguardo, sacrificio ed onor. E credo l'uom gioco d'iniqua sorte dal germe della culla al verme dell'avel.Vien dopo tanta irrision la Morte. E poi ? - La Morte è il Nulla, è vecchia fola il Ciel.” ("Credo" di Jago - Otello - atto secondo, scena seconda)

I drammi sono un tragico gioco delle parti, in cui gli uomini impermanenti, appesi al filo del tempo, celebrano i prodromi della morte, la ritualità dell'omicidio, del suicidio, dell'incesto. L’uomo crede di essere protagonista della propria morte e sviluppa rabbia, disprezzo sadismo. Come nel mito biblico della cacciata dal Paradiso terrestre o nella "mela d'oro" di Paride, o in tanti altri miti analoghi, l'uomo che non conosceva la discordia finisce, come una sorta di drogato, per provarla e per esserne tanto coinvolto da non volerla più abbandonare. Il "pomo della discordia" riesce a modificare la sua coscienza, distruggendola. Quando essa è distrutta, distrugge tutto ciò che incontra, perchè tutta la forza si muove da essa.

La mole di dolore è allora insostenibile: i melodrammi di Verdi ne sono un'acuta testimonianza.

Uomini astuti e perversi sono artefici di tragedie attraverso motivazioni deprecabili: gelosia, cupidigia, sete di potere. Jago sfrutta le debolezze altrui (p.es. la leggerezza di Cassio che cade nella trappola ubriacandosi, oppure l'acquiescenza di Emilia, preda della sua violenza morale). Altrettanto fa Lady Macbeth aizzando con perfidia e falsità lo sciagurato consorte a compiere delitti efferati per conquistare il trono. Anch'essa al pari di Jago è asservita alle forze del male che spingono gli uomini ad azioni nefande:

“Or tutti sorgete ministri infernali! Che al sangue incorate spingete i mortali! Tu, notte, ne avvolgi di tenebra immota, Qual petto percota - non vegga il pugnal”

(Macbeth, atto 1, scena settima)

E questi grandi temi non riguardano solo le grandi tragedie tratte da Shakespeare, ma tutti i libretti indistintamente.

L'eterna lotta genera un vortice distruttore e nei personaggi albergano forze sconosciute in un continuo dialogo con altre dimensioni, spiriti, larve, fantasmi. Il turbine creativo di questo dio tremendo non permette la fermata e ognuno sarà messo in gioco e distrutto con una creatività indescrivibile. Solo dopo la consumazione di queste orrende fini, il passato le riesumerà, scoprendo l'ordito.

Così nel Ballo in Maschera, l'indovina Ulrica, come le streghe del Macbeth, presagisce la morte di Riccardo, evoca il Re dell'abisso in persona e raccoglie in luoghi funerei erbe magiche per i filtri d'amore.

La dannazione di un destino avverso colpisce anche Don Carlos ed Elisabetta di Valois che attraverso la gelosia di Eboli e la sozzura e perfidia dell'Inquisizione, sono attirati in un orribile tranello. Analoghe figure sono Eboli e Amneris, entrambe manovrate dalla gelosia, dall'invidia e dalla vendetta. L'ambientazione e il contesto storico- culturale come sempre cambiano, ma ciò che non cambia è il principio di devastazione degli animi caricati di emozioni malvage.

Similmente Paolo, nel Simon Boccanegra, mosso dalla gelosia, riesce con intrighi e perfidie ad ingannare Gabriele e a spingerlo ad uccidere il doge. Poiché questo primo tentativo non avrà successo, sarà lui stesso, assetato di vendetta , ad avvelenare Simone:

“Me stesso ho maledetto, e l'anatema m'insegue ancor e l'aura ancor ne trema! Vilipeso, reietto dal Senato e da Genova, qui vibro l’ultimo stral pria di fuggir, qui libro la sorte tua, Doge, in quest'ansia estrema. Tu che m'offendi e che mi devi il trono, qui t'abbandono al tuo destino, in quest'ora fatale. Qui ti stillo una lenta, atra agonia... Là t'armo un assassino. Scelga morte sua via fra il tosco ed il pugnale”

(atto 2, scena seconda)

La fatalità del destino piaga le anime a lottare nella sua dimensione ignota e tremenda. L'imprecazione, la maledizione ed il proposito di vendetta le costringono all'impari confronto con un mondo che le sovrasta e che non riescono a comprendere. Poco lontano intervengono miracoli, ma esse non possono vederli, restano prigioniere sulla soglia della loro rovina.

La maledizione fa da protagonista in molti libretti verdiani, emblematico il Rigoletto (il cui titolo scelto in origine da Verdi era proprio ‘La Maledizione’) : un buffone di corte - obbligato a divertire - sbeffeggia un padre di famiglia condannato a morte dal duca perchè reo di aver reagito contro lo stupro della propria figlia perpetrato dal duca stesso. Rigoletto, così facendo. attira sulla propria testa la maledizione: “e tu serpente, tu che d'un padre ridi al dolore, sii maledetto”( atto 1, scena sesta), pur essendo assai ben conscio della propria indegnità “O uomini! O natura! Vil scellerato mi faceste voi” (atto 1, scena ottava).

Il duca, personalità perversa, dissoluto, e tiranno, divertito dalle proprie nefandezze, instaurava nel suo contesto il vero inferno.

Ma la tragedia per Rigoletto si era già delineata fin da principio: egli teneva nascosta la propria figlia per proteggerla dalla corte di dissoluti e perversi, tanto che i cortigiani credevano che Gilda fosse l'amante del gobbo, e non la figlia. Il culmine del dramma si attua - come nel Trovatore - con il travestimento della vittima prescelta.

Come Gilda si traveste con abiti maschili, così il bimbo, il figlio di Azucena, si mette lo scialle in cui era stato avvolto il figlio del conte. Per una tremenda fatalità la zingara - nel suo furore - afferra il bimbo avvolto nello scialle e lo getta tra le fiamme, per scoprire troppo tardi di aver ucciso il proprio figlio. Il tremendo colpo del destino porta Azucena

sull'orlo della pazzia.

Ma anche qui il movente è la vendetta : vendicare precedenti crimini e vendicare la memoria dei propri cari, implorando Dio, affinchè ristabilisca sulla terra un ordine celeste di equilibrio e di giustizia divina. La maledizione. la fatalità e la vendetta sono parte integrante di tutti i libretti, da Forza del destino, che ne è l'esemplificazione più completa, al Corsaro in cui il mussulmano Seid ("precursore" di Jago) promette : “Nuovi supplizi, orribili, mal noti all'uomo e al demone immaginar saprò” (atto 2. scena decima); ai Vespri Siciliani in cui si auspica la vendetta sui Francesi: “Vendetta,Vendetta! Ci guidi il furor! Vendetta, Vendetta! E' l'urlo del cor”; all'anatema di Jacopo Foscari: “Maledetto chi mi toglie ai me cari, al suol natio, sul suo capo piombi Iddio l’abominio e il disonor” (atto 2, scena seconda), e naturalmente al Rigoletto: “Sì, vendetta, tremenda vendetta di quest'alma è solo desio ...” (atto 2, scena ottava)

Si instaura così un meccanismo continuo di lotte ed anatemi, corroborati dal senso dell'onore, dai voti e dalle promesse. Talvolta il destino dei personaggi è tanto cupo che questi mostri possono carpire intere esistenze travolgendole e conducendole su una china di orrore e di sfacelo. L'ingranaggio diabolico si blocca soltanto abbandonando la spirale del gioco.

All'interno dell'ingranaggio, invece, il destino è già tracciato. Potremmo forse mutarlo, ma solo a patto di uscire dal gioco: il tema della predestinazione ricorre ininterrottamente nei libretti verdiani con premonizioni, presentimenti, visioni attraverso i quali è talvolta concesso gettare uno sguardo oltre la nebbia, nella dimensione celeste. Le streghe accolgono Macbeth con tre vaticinii ed evocano per lui gli spiriti erranti che gli predicono la vittoria, ma anche la fine, segnata da uno strano evento, una foresta che muoverà contro di lui:

“Sta d'animo forte : Glorioso, invincibil sarai, fin che il bosco di Birna vedrai, ravviarsi e venir contro te” (atto 3, scena seconda). Saranno infatti i soldati inglesi, ciascuno con una fronda innanzi a sè, a fare prigioniero l'esercito di Macbeth.

La premonizione ritorna ancora più viva nell'Otello, allorchè Desdemona, poco prima di morire, ricorda la canzone che spesso aveva udito da bambina, un canto che narrava la storia di un amore infelice. Poco prima di venir uccisa Desdemona collega anche il proprio destino a quella triste cantilena.

Essa è parte della sua vita e il suo ritornello si ripete come un'ossessione , allo stesso modo in cui la visione dell' “Olandese Volante” era un tormento per Senta che seguendolo troverà la morte.

Le filastrocche entrano nel varco magico dell'uomo così come in tanti modi la forza sussurra il futuro ai suoi predestinati e canta talvolta all'orecchio cose gemellate alla sorte che li attende e che si serve di mezzi impensabili per far conoscere alla vittima la sua mèta.

Otello nel “Niun mi tema” piange Desdemona, la “pia creatura nata sotto maligna stella”.

Agli Astri, maestri delle sorti umane, è collegata la predestinazione, agli dei, arbitri dei destini, a cui tutte le antiche civiltà offrivano sacrifici. Anche Radames consacra al dio Fthà, protettore dell'Egitto, la sua spada di guerriero: “Nume che duce ed arbitro sei d'ogni umana guerra Proteggi tu, difendi, d'Egitto il sacro suol” (Aida - atto 1, scena seconda). Ramfis, il sommo sacerdote, ricorda come gli dei siano simboli dell'invisibile che governa il visibile : “Gloria ai Numi! ognun rammenti ch'essi reggono gli eventi che in poter dei Numi solo stan le sorti del guerrier” (Aida - atto 1, scena prima).

In Egitto la vera astrologia era praticata con serietà scientifica e dignità religiosa ed era elevata al livello di un vero sacerdozio. Pitagora aveva appreso dalle scuole egiziane le conoscenze sulla globalità dell' universo e la reciprocità fra cosmo e uomo e i Greci delinearono tutta la forza del "deus ex machina" e degli dei che, contrapponendosi tra loro, prendevano le parti degli eroi da proteggere o da avversare, se decidevano di essere a loro ostili. Il grande Ermete, nome greco del dio egiziano Tot, che i greci chiamarono Trismegisto, tre volte grande, perchè era re, legislatore e sacerdote, aveva udito, nella sua famosa visione una voce che lo esortava : “Guarda, ascolta e comprendi. Tu vedi le sette sfere di ogni vita, attraverso le quali si compie la caduta delle anime e l'ascesa loro. I sette geni sono i sette raggi del Verbo-Luce e ognuno di essi presiede ad una sfera dello spirito, ad una fase della vita delle anime. Quello a te più vicino è il genio della Luna : tu lo vedi coronato di falce d'argento; osserva il suo inquietante sorriso. Egli presiede alle nascite e alle morti, svincola le anime dai corpi e le attrae nel suo raggio. Sopra di lui Mercurio pallido mostra la via, col caduceo che contiene la scienza, alle anime discendenti o ascendenti. Più su brilla Venere che reca lo specchio di Amore nel quale di volta in volta si obliano e si riconoscono le anime. Sopra di lei si leva il genio del Sole la fiaccola trionfante dell'eterna Bellezza. Più in là Marte brandisce la spada della Giustizia. Signoreggiante sulla sfera azzurra, Giove tiene lo scettro del supremo potere, che è l'Intelligenza divina. Ai limiti del mondo, sotto i segni dello zodiaco, Saturno sostiene il globo della Saggezza universale ...”

Gli astri segnano il gioco del divenire e guidano gli uomini nel susseguirsi delle esperienze. Il percorso è tracciato. Forse l'uomo potrebbe sottrarsi al destino avverso se avesse la coscienza dell'inanità del tutto (il "non fare" di Lao Tse, il "tutto è vanità" dell'Ecclesiaste).

L'alternanza e i tragici eventi del divenire servono affinchè la creatura cerchi l'Unità, al di fuori della quale non c'è nulla. E' l'Uno l'unico centro e il gioco è Suo. Assorbe in sè tutta l'energia, tutte le forme esistenti. Lui è l'Unità perché non c'è nessuno che possa differenziarsi in nessun atto, in nessuna azione del tempo, in nessuna ricerca o scelta psicologica e spirituale; nessun pensiero può scaturire al di fuori della sua realtà e i mezzi sono solo al suo servizio per un imperscrutabile gioco che solo a Lui attiene e solo in Lui trova significazione.

La nostra dimensione, quella del divenire, è invece tutta apparenza, proprio come un'immenso teatro. Come nel grande Falstaff, nel finale si scopre assai spesso di essere stati giocati, di aver interpretato, senza averne avuto coscienza, un'amara commedia e di aver confuso la realtà con la finzione. L'uomo è 'gabbato' perché indotto a credere alle finzioni di ogni tipo, e la risata finale spetta solo ad una platea ignota che assiste a questa rappresentazione, pagando il biglietto, in qualche punto, pur esso ignoto, delle galassie. L'attore non si può sottrarre alla finzione della scena fintanto che il dramma non ha trovato il suo epilogo. Forse, stanco e sudato, rientrato nel suo camerino, levandosi le spoglie, potrà - se richiesto - firmare gli autografi: "Tutto nel mondo è burla, l'uom è nato burlone, la fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione, tutti gabbàti! Irride l’un l'altro ogni mortal, ma ride ben chi ride la risata final " (Falstaff – scena finale)

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