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Manlio Tummolo
"Raffigurazioni letterarie a proposito di etica sociale e diritto"
Alcune figure di giuristi, comiche e tragiche, nella letteratura europea
- parte prima -
Alessandro Manzoni "I Promessi Sposi"
Victor Hugo "Notre Dame de Paris"
Alexandre Dumas "Il Conte di Montecristo"
Per una volta tanto, nel portare un argomento per una conferenza, mi sono ispirato a quello di una precedente su ''Tenera è la legge'', per mettere in evidenza come l'immagine, che si è voluta dare del mondo . giudiziario e giuridico, sia ben lontana dalla realtà, cosi come sentita, non solo da un qualunque cittadino abbia avuto a che fare, anche indirettamente con quel mondo, ma anche da persone che per livello culturale ed intelligenza si possono considerare superiori alla media, quali letterati e filosofi. Va detto subito che, tra la mentalità giuridica e la mentalità del letterato, vi è un vero abisso di incomprensione e di incomunicabilità, quantunque alcuni giuristi abbiano pure espresso opere letterarie, ma la cosa curiosa è, per quel che mi consta, che si è evitato con molta cura di descrivere il proprio mondo, ovvero si è usato il prodotto letterario proprio come un modo di evasione da una quotidiana monotonia della vita professionale. Il mondo letterario, che pure ha dato tantissime descrizioni del mondo giuridico, e ne vedremo alcuni esempi celebri, ha rappresentato in modo piuttosto negativo ed impietoso il mondo giuridico e giudiziario; tale sentimento di estraneità e di rifiuto viene altresì ricambiato perché è noto a chiunque abbia assistito a qualche processo, il giudice, quando non vuole che un testimone o una delle parti si dilunghi a suo parere inutilmente, tronca la parola dicendo la frase tipica: “Non faccia un romanzo!”
Su tale abisso, talvolta nel tentativo di trovare un termine comune (tentativo praticamente impossibile), "volano" filosofi, uomini di religione, sociologi, ecc., senza che si possa trovarlo. Anzi, I giuristi, dopo i romanzieri ed i poeti, mostrano un'antipatia particolare per I filosofi, considerati persone incapaci di vivere nella realtà: naturalmente, la realtà sarebbe esattamente quella dai primi concepita.
Di questo forte antagonismo ·tra scienze umane e mondo giuridico, risulta efficace dimostrazione quanto scrive il professor Domenico Coccopalmerio, preside della Facoltà di Scienze Politiche, Facoltà notoriamente "cugina'' di quella di giurisprudenza, ma che, al tempo stesso, le si contrappone in modo fortemente critico. Nel suo lavoro su ''Introduzione alla dottrina dello Stato", l'Autore cita Martin Lutero, il grande riformatore religioso, che ha sempre dimostrato una totale disistima verso i giuristi, qualificandoli con la famosa frase in tedesco "Juristen, boese Christen !" (giuristi, cattivi cristiani). Coccopalmerio ne riporta invece una in latino col seguente commento :
"... Senza giungere alla sprezzante sentenza di Lutero per cui 'omnis jurista est aut nequista aut ignorista', è certo che i giuristi, soprattutto quelli arruolati nelle schiere kelseniane e vestiti con le divise del positivismo giuridico, sono ossessionati dall' “horror vacui”, i giuristi, almeno quelli che prendono Kelsen come loro nume tutelare, si tirano indietro e arricciano il naso, poiché devono sempre essere condotti per mano dalle norme scritte, in una forma di infantilismo positivistico, onde evitare non solo di inciampare e di spargere quelpoco di cervello di cui sono forniti, ma pure di smarrire il proprio senso di identità personale e di utilità sociale..." (pagg. 64 - 65).
Come ognuno può vedere si tratta di una pesantissima critica, rivolta ai giuristi positivisti, di fatto giuristi sic et simpliciter. Se avremo tempo, penso che potrà essere uno dei temi del successivo dibattito, mentre per ora lascio in sospeso la questione.
* * * *
I personaggi di romanzi; che desidero citare, sono distinti in due gruppi specifici: quello delle figure descritte in modo comico o satirico, ma non senza una reale disistima e quelle descritte in modo tragico, dove il carattere assolutamente negativo della mentalità giuridica in rapporto alla realtà delle umane sofferenze viene sottolineato senza il minimo cenno di umorismo, ma solo con forte asprezza. Il primo che qui rappresento è una celeberrima figura, quella dell'Azzeccagarbugli nei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Manzoni, com'è noto, conosceva assai bene il mondo giuridico, essendo, per parte di madre, nipote diretto di Cesare Beccaria.
E' suo anche quel comico aneddoto sulla figura di un giudice civile, al quale si erano presentati due contendenti. Il primo aveva presentato la sua tesi, inmodo talmente abile che il giudice gli confermò: "Leiha ragione". Il secondo obiettò tuttavia al giudice che, prima di emettere la propria sentenza, dovesse ascoltare le sue argomentazioni, cosa che fece con altrettanta o maggiore abilità, tanto che il giudice replicò:
"In realtà, è Lei che ha ragione". Allora, il figlioletto del giudice che stava li giocherellando e che rappresenta la voce della logica, gli osservò: "Ma babbo, non possono avere ragione tutti e due!". il giudice allora: "Hai ragione anche tu!". Insomma, un procedimento con tre ragioni opposte, e nessun torto. Già questo piccolo aneddoto dimostra come Manzoni avesse ereditato una certa disistima per il mondo giudiziario (e siamo ai tempi di quell'Austria Felix, di cui poi riparleremo con Kafka) .
Ma torniamo all'Azzeccagarbugli (cap. III del romanzo): è un personaggio particolare, molto apprezzato dagli abitanti del piccolo paese di Renzo e Lucia e da Agnese che lo consiglia caldamente al futuro genero, perché l'avvocato dimostra come, con qualche piccolo trucco e qualche coniglio nel cilindro, si possano risolvere molti problemi. Agnese dà a Renzo quei celebri quattro capponi (efficace simbolo di .quanto le vittime, invece di prendersela col loro boia, si colpiscano tra di loro) e Io manda a Lecco descrivendo il giurista di provincia, come un "dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone". Ma ora, ecco l'avvocato all'opera :
"... Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt 'anni addietro, per perorare, ne' giorni d'apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: 'figliolo, ditemi il vostro caso'. 'Vorrei dirle una parola in confidenza'.
'Son qui' rispose il dottore: 'parlate'. E s'accomodò sul seggiolone... 'Ditemi il fatto come sta' interruppe il dottore.
'Lei m 'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere...'
'Benedetta gente ! Siete tutti così. In vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa' .
'Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale '.
- Ho capito - disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito - Ho capito
- E subito si fece serio..., strinse fortemente le labbra, facendone uscire suono inarticolato. 'Caso serio ,figliuolo,, caso contemplato. ·Avete fatto bene a venir da me. E ' un caso chiaro, contemplato in cento gride... '
Così dicendo, s'alzo dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su... 'Dov 'è ora ? Vien fuori, vien fuori . Bisogna aver tante cose alle mani. Ah, ecco, ecco'. La prese, la spiegò, guardò alla data e fatto un viso ancor più serio, esclamò: 'il 15 d'ottobre 1627'! Sicuro, è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura...'
Qui comincia la parte più realistica e, se vogliamo, tuttora attuale: Azzeccagarbugli fa seguire a Renzo il testo che il Manzoni riporta sulla base di effettivi documenti dell'epoca, arriva al punto in cui si parla delle minacce fatte a quelli che oggi diremmo pubblici ufficiali, ma accorgendosi che Renzo
dimostra più interesse che paura, esce con una domanda che dimostra a Renzo l'abbaglio che il bravo avvocato aveva preso nei suoi confronti, scambiandolo per un bravo: 'Ah, Ah! ' gli disse poi 'vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare, in un'occasione' ".
Il Manzoni, dopo aver spiegato la storia del ciuffo, allora usato come segno distintivo dei bravi ed aver citato nuove gride sul tema, fa dire a Renzo :
"... 'In verità, da povero figliuolo... io non ho mai portato ciuffo in vita mia' . 'Non facciam niente ' rispose il dottore...' Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore... è uno sciocco che dirà la verità al giudice…”
Qui merita soffermarsi un momento: l'espressione di Azzeccagarbugli illumina un modo di pensare tutto giuridico e giudiziario: chi dice la verità al giudice è uno sciocco. La verità dei fatti è considerata ininfluente in un procedimento. Tuttora, il Codice di procedura penale autorizza l'imputato a mentire; e solo per ragioni di sveltezza nelle procedure, non per ragioni morali si premia chi confessa, nel cosiddetto "patteggiamento" . Dopo il lungo discorso fatto dall'avvocato sulla strategia da adottare, Renzo si rende conto di quanto egli abbia scambiato ciò che in linguaggio odierno si dice la parte offesa con l'imputato o indagato. Intuisce nell'avvocato il classico giocatore di bussolotti delle fiere paesane, ma non appena gli fa capire la realtà e giunge a dirgli il nome del persecutore, ovvero don Rodrigo, Azzeccagarbugli si sdegna e aggredisce a parole Renzo:
"Eh, via, eh via ! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie ?
Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che su quanto valgono. Andate, andate, io non m 'impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria."
Al disperato tentativo di Renzo di farsi capire, stavolta però l'uomo dimostra la sua totale malafede :
'... Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? io non c'entro: me ne lavo le mani' E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero (è un segno simbolico, descritto per la prima volta nel Vangelo: ricordiamo l'ipocrita figura di Ponzio Pilato, altro tipico giurista dell'età imperiale romana ..). "Imparate a parlare, non si viene a sorprendere così un galantuomo"
Azzeccagarbugli non solo caccia Renzo, ma dimostra anche la sua pretesa ed apparente incorruttibilità: fa restituire alla serva i quattro capponi. Il perché di questo atteggiamento lo si vedrà in un capitolo successivo. Qui basti dire che l'avvocato, come ogni buon giurista, pone la forza alla base della legge, non il contrario, per cui dà ragione al più forte contro il più debole. Se Renzo fosse stato un bravo al servizio di don Rodrigo avrebbe tratto molti garbugli e molti conigli dal suo cilindro, interpretando in modo assai creativo le gride che egli aveva letto, ma trattandosi di una vittima priva di potenza, allora lo caccia, preferendo non inimicarsi il ricco e potente, piuttosto che difendere il povero e debole .
Sul piano del racconto, il comportamento dell'Azzeccagarbugli si spiega in modo ancora più concreto, quando fra' Cristoforo si reca al castello del piccolo feudatario per cercare di convincerlo a desistere dalla persecuzione puramente sessuale contro Lucia. Al capitolo V, si chiariscono gli abituali rapporti conviviali fra il signorotto ed Azzeccagarbugli. Infatti, costui è uno degli invitati e, mentre fra' Cristoforo viene fatto accomodare alla tavola imbandita, egli può assistere ad una accalorata discussione tra il cugino di don Rodrigo, conte Attilio, ed il podestà: anche in questo non c'è da meravigliarsi: i rapporti tra i potenti, ieri come oggi, sono sempre molto frequenti e con regolare scambio di favori. Ciò spiega come sia stato e sia tuttora difficile far rispettare la legge senza differenze di condizioni. La discussione verte sul fatto che un signorotto abbia fatto picchiare il messaggero per una sfida. Secondo il conte Attilio le botte erano ben date, secondo il podestà si disobbediva al principio dell'inviolabilità del messaggero. Ad un sillogismo del podestà, ecco che il conte Attilio si rivolge all'avvocato :
'E lei, signor dottore riverito...perché non sostiene le mie ragioni...'
'Io...- rispose confusetto il dottore - io godo di questa dotta disputa... poi a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice..., qui il padre ..."
Con ciò il valente avvocato sgattaiola dal dover dare un parere legale sulla questione, non volendo rendersi antipatico né al conte, né al podestà, ma quando fra' Cristoforo rigetta l'intera problematica, sollecitato dallo stesso don Rodrigo, Azzeccagarbugli trova nuovi conigli nel suo cilindro :
"...'In verità' - rispose il dottore - tenendo brandita la forchetta... ' in verità io non so intendere come il padre Cristoforo ... non abbia pensato che la sua sentenza buona, ottima... sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca... io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall'impiccio...'
L'argomento si chiude, ma poi se ne apre un altro sulla contemporanea guerra che gli storici hanno chiamato dei Trent'Anni. Per quel che riguarda l'Azzeccagarbugli (è la penultima volta che viene citato nel romanzo), invitato dal padrone a parlare del vino, così lo descrive con feroce sarcasmo il Manzoni :
"... Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: 'dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini; censui. et in eam ivi sententiam. che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi; dichiaro e definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d'Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo..."
Ciò spiega come mai avesse saputo respingere l'offerta modesta e casereccia dei quattro capponi di Renzo. Di Azzeccagarbugli si riparla solo nell'ultimo capitolo, quando per dire che non fu lui a convalidare il contratto di donazione a favore di Renzo e Lucia ad opera del marchese. nuovo padrone del castello già di don Rodrigo, il Manzoni spiega che era morto di peste e sepolto in una fossa comune in località Canterelli presso Castello, altro paese della provincia di Lecco.
Passiamo ora ad altri personaggi che appaiono nel romanzo di Victor Hugo “Notre Dame de Paris”: nel Libro VI del romanzo il primo capitolo è destinato ad uno "Sguardo imparziale sull'antica Magistratura". In esso si parla delle funzioni penali della Prevostura, tra cui “ l'esercitare l'alta e bassa giustizia, col diritto di mettere alla ruota, di impiccare e squartare, senza contare la minata giurisdizione di prima istanza...”. Più avanti l'Hugo osserva: "... Ora, abbiamo noi stessi avuto occasione di notare che i giudici... si regolano in modo che il loro giorno d'udienza coincida col loro giorno di malumore, allo scopo di aver sempre qualcuno su cui sfogarsene comodamente, in nome del re, della legge e della giustizia...". Nel momento in cui comincia il processo contro Quasimodo per il tentato rapimento di Esmeralda il prevosto era assente, e faceva da giudice l'uditore giudiziario mastro Floriano :
“... Ora l'auditore era sordo. Difettuccio da nulla per un auditore. Mastre Floriano non giudicava; per ciò, meno inappellabilmente, né con maggiore incongruità di un altro. Un giudice, questo è certo, basta che abbia l'aria di ascoltare...”
<Poi arriva Quasimodo> Era Quasimodo, legato, annodato e incatenato... D'altra parte nulla v'era in Quasimodo... che giustificasse un simile sfoggio di alabarde e di archibugi. Egli era cupo, silenzioso e tranquillo...
Frattanto, mastro Floriano, l 'auditore, andava sfogliando attentamente l'incartamento dell'accusa... parve si raccogliesse per un istante. Grazie a tale precauzione... egli sapeva in anticipo nome, qualità e delitti dell'imputato...; insomma riusciva a cavarsela in ogni sinuosità dell'interrogatorio senza dar troppo a divedere la propria sordità... l'onore della magistratura era salvo, poiché è sempre preferibile che un giudice sia ritenuto imbecille o profondo piuttosto che sordo... ".
Come si può constatare, Victor Hugo è ancor più crudele del Manzoni nel giudicare i giuristi. Il guaio, per Mastro Floriano, è che l'imputato è altrettanto sordo. Si crea cosi una situazione tragicomica, per cui, mentre il pubblico non può trattenere le risate, il povero Quasimodo viene condannato anche per oltraggio alla Corte :
“Come vi chiamate?”
Quasimodo, il quale non s'era neppure accorto della domanda..., continuò a fissare il giudice e non rispose. Il giudice, sordo e ignaro della sordità dell'imputato, credette che questi avesse risposto - Bene. Età?
Naturalmente, Quasimodo non rispose neppure a questa domanda...
- Ora ditemi la professione.
Sempre lo stesso silenzio. Il pubblico, frattanto, cominciava a mormorare e a scambiarsi occhiate.
Basta - riprese imperturbabile l'auditore - Qui, davanti a noi, siete accusato: primo, di schiamazzi notturni; secundo, di vie di fatto disoneste su donna pubblica; tertio, di ribellione... Spiegatevi su tutti questi punti. Cancelliere, avete scritto ciò che l'accusato ha detto finora ?
A questa infelicissima domanda, dalla cancelleria all'uditorio si levò uno scoppio di risa così violento, folle, contagioso e universale, che perfino i due sordi se ne accorsero...
... mastro Floriano... convinto che le risa degli spettatori fossero state provocate da qualche irriverenza dell'imputato, a lui manifesta da quell'alzata di spalle, lo apostrofò con indignazione :
Questa è una risposta, furfante, che meriterebbe la forca. Non sapete a chi parlate ?
Una simile sortita, veramente, non era adatta ad arrestare ... la generale ilarità... quel rider folle si impadronì persino delle guardie dell 'auditorio pubblico...
... Soltanto Quasimodo conservò la propria serietà, per la semplice ragione che non capiva nulla di quanto gli accadeva intorno...".
Allora l'uditore Floriano Barbedienne si mette a concionare in modo minaccioso, sia per spaventare Quasimodo sia gli spettatori in preda alle risate. Arriva quindi il prevosto in persona: costui non è certo sordo, ma ciò nondimeno rivela scarsa intelligenza e molta crudeltà. Poiché Quasimodo risponde in modo diverso da quel che dovrebbe, proprio perché non lo sente e il pubblico riprende dopo una pausa a ridere più sommessamente, il prevosto non capisce che l'imputato è sordo e pertanto ritiene che si faccia beffe di lui: non solo, ma quando sente, da parte di uno spettatore, l'esclamazione "Ventre di Dio", dopo averlo già condannato alla berlina ed alla fustigazione, la attribuisce a Quasimodo e termina: “Credo che il furfante abbia detto 'per il ventre di Dio'! Cancelliere, aggiungete dodici denari parigini d'ammenda per la bestemmia e che la fabbriceria di Sant'Eustachio ne abbia la metà...”
Ironia della sorte, per Hugo il santo a cui il prevosto dichiara di essere devoto, era proprio Sant'Eustachio!
Concludendo l'udienza, il cancelliere, nell'illusione di aiutare il povero Quasimodo, dice sottovoce all'uditore Floriano che l'uomo era sordo. L'uditore non sente e, credendo che gli fosse data notizia di un'ulteriore aggravante, appioppa a Quasimodo un'altra ora di berlina. Ma, detto fra di noi, potremmo meravigliarci del comportamento di due magistrati del XV secolo, quando ancora nel nostro vigente Codice Penale (emanato nel 1930) l'essere sordomuti viene considerato a rischio di criminalità ?
Nel medesimo romanzo, e questa volta contro Esmeralda, viene descritto un processo canonico per stregoneria: qui la procedura appare più formale (pensate, è pure presente un avvocato, cosa che avrebbe evitato al povero Quasimodo tutte quelle "esemplari" punizioni), ma iniquità e ferocia non mancano comunque. Procuratore è Giacomo Charmolue, personaggio che Esmeralda faceva imitare dalla capretta Djali. Ambedue vengono processate. Giacomo Charmolue, a cui erano note evidentemente le tecniche di ammaestramento della capra, riesce a farle ripetere gli esercizi che una volta suscitavano il curioso entusiasmo dei parigini, ma che, in quella sede, appaiono veramente opera satanica. Charmolue procede poi all'interrogatorio della ragazza: a quei tempi non esisteva patteggiamento, soprattutto in materia di stregoneria; se l'imputata confessava subito, si passava direttamente al rogo; se non confessava, veniva torturata, quindi la si faceva confessare ugualmente e quindi la si mandava al rogo; nel caso di ritrattazione, riprendeva la tortura :
- Ragazza, voi siete di razza zingaresca, dedita ai malefici. Voi avete in complicità con la vostra capra indemoniata, nella notte del 29 marzo scorso, colpito e pugnalato, di concerto con le potenze delle tenebre, con l'aiuto di incanti e di scongiuri, un capitano degli arcieri... Febo di Chateaupers. Persistete nel diniego ?..."
Il presidente ripete la domanda, ed Esmeralda ribadisce la propria innocenza.
A questo punto, Charmolue chiede l'applicazione della tortura. La prima fase dell'udienza si conclude così:
"... L'udienza fu sospesa. Siccome un consigliere aveva fatto notare che i messeri erano stanchi... il presidente rispose che un magistrato deve sapersi sacrificare al proprio dovere.
- Diavolaccia seccante e antipatica - disse un vecchio giudice - che si fa mettere alla tortura quando ancora non si ha cenato".
C'è poi la descrizione delle procedure di tortura, ma Esmeralda è costretta a cedere alla prima applicazione dello stivaletto, uno strumento che serviva a schiacciare il piede, fatto questo psicologicamente significativo per una ballerina. Un altro strumento analogo, ad esempio, era quello del versamento di materiale incadescente, come piombo, in quella sorta di scarpa: nell'arsenale della tortura, si ha la prova di quanto possa essere feroce l'uomo.
Le accuse che Esmeralda è costretta a confessare, sono quelle solite di partecipazione a feste con Satana, ai sabba, a riti satanici: non condanniamo troppo il povero Charmolue. Tuttora vi sono credenti in questi riti e nella presenza del demonio. A ciò è stata perfino dedicata qualche trasmissione televisiva . Il procuratore Charmolue conclude questa seconda fase in tal modo:
"... - La giustizia è illuminata finalmente E' una confortevole cosa, messeri! Madamigella stessa ci renderà testimonianza che abbiamo agito con tutta la dolcezza possibile." L'ipocrisia è una qualità che i letterati attribuiscono ai giuristi. La terza fase si conclude con la requisitoria del procuratore Charmolue, che accusa Esmeralda e la capretta Djalì di aver operato delitti di stregoneria e di omicidio (omicidio che in realtà non vi era stato, in quanto il colpo inferto al capitano Febo di Chateaupers, da parte di Claudio Frollo, il prete che voleva sedurre la ragazza, non era affatto stato mortale, ma nessuno si era curato di constatare il decesso o la sopravvivenza del vanesio capitano, di cui Esmeralda ingenuamente si era innamorata). Come ultima goccia, la capra vedendo Charmolue gesticolare con la pompa tipica dei magistrati, si mette ad imitarlo, il che è considerato prova ulteriore degli atti di stregoneria.
Interviene l'avvocato della ragazza, ma il giudice già lo frena, con la tipica frase: "... - Avvocato, siate breve!...". L'avvocato, obbediente, si limita a chiedere la commutazione della pena in un'ammenda di ottomila denari, senza farci sapere dove la poveretta avrebbe potuto trovarli. La sentenza consiste quindi nella pena di morte per impiccagione, sia di Esmeralda, sia della capretta, per l'assassinio di Febo (tuttora vivo e presto in ottima salute) e stregoneria.
E passiamo ora alle figure drammatiche o tragiche di giuristi, cominciando col terzo romanzo, ovvero "Il Conte di Montecristo" di Alexandre Dumas. La storia è talmente conosciuta che non ritengo necessario riassumerla Il conte di Montecristo, ovvero Edmondo Dantes, rappresenta simbolicamente il diritto naturale, inteso anche come vendetta; il suo antagonista in questo senso è il signore di Villefort, procuratore del re, che rappresenta il diritto positivo, con le sue procedure formali, i suoi errori, le sue falsità e soprattutto le sue ipocrisie. Il primo incontro tra i due ancora giovani (Villefort più anziano di otto anni) si ha per un'azione calunniosa effettuata da due amici di Edmondo, che lo hanno accusato di bonapartismo, nella fase del primo rientro della monarchia borbonica, tra Lipsia e Waterloo. La cosa sarebbe stata lasciata perdere dal signor di Villefort, già procuratore del nuovo re Luigi XVIII, se non si fosse accorto che la lettera, che Edmondo avrebbe dovuto consegnare, conteneva il nome del padre di Vìllefort, Noirtier, già girondino, antirobespierriano, poi fervido bonapartista La paternità del signor di Villefort era già nota, quindi l'uomo doveva nascondere ad ogni modo di avere un qualche rapporto col padre, per ragioni di carriera. Ciò lo spinge a distruggere la lettera, prova del fatto che il padre tuttora operava a favore di Napoleone, fa imprigionare Edmondo nel Castello d'If per dimostrare il suo assoluto lealismo monarchico. Anzi denuncia al re un complotto bonapartista, proprio mentre, per coincidenza, Napoleone sbarca in Francia e riprende il suo trono di imperatore. Ciò, una volta che Napoleone cade definitivamente con la disfatta di Waterloo, pone il giovane procuratore del re in un'ottima posizione per divenire sempre più importante. Come sappiamo, poi, Edmondo riesce a fuggire, diventa ricchissimo e potente, grazie al tesoro dell'abate Faria, quindi organizza la sua vendetta, tornando in Francia in incognito e, dopo aver salvato l'unico che lo aveva sostenuto e cercato di liberare durante la prigionia, l'armatore Morrel, dà il via alla vendetta. Per ragioni di tempo, mi limito a qualche descrizione del procuratore Villefort, nella prima parte e poi soprattutto nella seconda del romanzo. La figura che ne risulta è bieca:
"Appena Villefort fu fuori della sala, abbandonò il suo fare gioioso per assumere l'aspetto grave dell'uomo chiamato alla suprema funzione di decidere della vita d'un suo simile. Malgrado i suoi facili e rapidi cambiamenti di fisionomia, molte volte provati allo specchio, questa volta fu laborioso per lui corrugare le sopracciglia e indurire i suoi tratti. Infatti, tolto il ricordo della linea politica seguita da suo padre e che poteva far naufragare la sua carriera..., Gérard di Villefort era in quel momento felice... Già ricco, occupava a ventisette anni un posto elevato nella magistratura e stava per sposare la bella giovane che amava..."
... La prima impressione era stata favorevole a Dantès; ma Villefort aveva sentito dire spesso che bisogna diffidare della prima impressione. Soffocò quindi i buoni sentimenti... assunse davanti allo specchio il portamento delle grandi giornate e si sedette, cupo e minaccioso, davanti alla scrivania.
... Dantès...incontrò lo sguardo terreo del procuratore, quello sguardo proprio degli uomini di legge che non vogliono lasciarsi leggere nel pensiero e trasformano il proprio occhio in un vetro smerigliato. Quello sguardo gli notificò che si trovava davanti alla giustizia...
E' da rilevare come tutti e tre gli scrittori visti sappiano cogliere nei loro personaggi, giuristi, questo enorme divario tra il loro sentire interiore e gli atteggiamenti esteriori. Villefort comincia poi l'interrogatorio e la cosa sembra andare a favore di Edmondo, quando il procuratore chiede a chi fosse indirizzata la lettera :
"Al signor Noirtier, rue Coq-Héron, 113 Parigi.
Se la folgore fosse piombata su Villefort non l'avrebbe colpito in modo più rapido e più imprevisto. Egli ricadde sul divano... afferrò il plico... e ne trasse la lettera fatale sulla quale gettò uno sguardo pieno d'indicibile terrore.
Al signor Noirtier, rue Coq-Héron, 113 - mormorò impallidendo sempre di più.
Sì, signore - rispose Dantès stupito - lo conoscete ?
No - rispose vivacemente Villefort – Un fedele servo del re non conosce i cospiratori...".
Villefort è indeciso sulle misure da prendere, perciò si accerta che quella lettera fosse nota solo a Edmondo, quindi confermato ciò, prepara il suo trabocchetto, facendogli credere che, distruggendo quella lettera davanti a lui, egli gli dà prova della sua comprensione, ma in realtà distrugge volutamente le prove a favore di Edmondo e quelle a sfavore di suo padre e di se stesso. Con sudicia ipocrisia, strana in una persona non ancora trentenne, evita di far sì che Edmondo si accorga dell'inganno mostruoso e, col pretesto di brevi ulteriori indagini, lo fa tradurre al Castello d'If. Ed ecco il pensiero del procuratore :
"... Dopo qualche istante mormorò: 'Mio Dio, a che cosa sono mai legate la vita e la fortuna! Se il procuratore del re fosse stato a Marsiglia e se il giudice istruttore fosse stato chiamato in vece mia ora sarei spacciato, e... questo maledetto foglio mi avrebbe precipitato nell'abisso. Ah, pdre mio, sarete dunque sempre un ostacolo alla mia felicità? E dovrò lottare eternamente contro il vostro passato?'
Poi, a un tratto, una luce inattesa parve attraversare la sua mente...un sorriso si delineò sulle labbra ancora tese...
"Ecco, si, questa lettera che doveva perdermi, formerà la mia fortuna. Villefort, all'opera!"
Come ho ricordato, una sola persona tenta, durante I Cento Giorni, di cogliere l'occasione favorevole per far liberare Edmondo, ed è il suo armatore Morrel. Egli si reca, dopo infruttosi precdenti tentativi, da Villefort; malgrado il ritorno di Napoleone, il giovane ma già corrottamente astuto procuratore, capisce che il ritorno non è definitivo, anzi sarà il proverbiale canto del cigno. Il colloquio con l'armatore, quantunque più anziano ma troppo ingenuo ed onesto, si svolge in modo negativo :
"-- Ma non e 'è modo di accelerare le formalità <chiede il Morrel> ?
non c'è stato arresto né immatricolazione. Per i delitti politici non c'è immatricolazione. Talvolta il governo ha interesse a fare scomparire un uomo senza che lasci traccia; l'immatricolazione guiderebbe le ricerche.
- Era così sotto i Borboni forse; ma ora...
- E' così sempre, caro Morrel; i governi si susseguono ma si rassomigliano. La macchina giudiziaria montata sotto Luigi XIV cammina ancora oggi all'ombra della Bastiglia. L'Imperatore è sempre stato più severo quanto al regolamento delle prigioni di quanto non fossero i re... ".
Non bastandogli il primo inganno, col pretesto di aiutare i due, Villefort fa scrivere a Morrel un lettera per il ministro napoleonico di grazia e giustizia, in cui si esaltava il bonapartismo di Edmondo. L'atto che, se fosse stato spedito, lo avrebbe liberato immediatamente di prigione, viene invece conservato dal procuratore, non inviato al ministro, in modo che, con il secondo rientro di Luigi XVIII, quella lettera diviene una nuova prova contro Edmondo e compromette politicamente lo stesso Morrei.
Come si vede, il signor di Villefort si comporta veramente in modo sporco. E ciò viene dimostrato anche successivamente, sia nella vita privata, sia nella vita di procuratore. Quando, ad esempio, un tale Bertuccio, che poi diverrà uno dei servitori del Conte di Montecristo gli chiede di indagare sulla morte del fratello, militare bonapartista, ucciso per vendetta ed a tradimento dai nemici politici (cose che nel secolo XX diverranno normali), si rifiuta di farlo suscitando l'ira del còrso Bertuccio, che gli promette di vendicarsene e che più tardi tenterà di farlo:
"Chi era vostro fratello?'' mi domandò il procuratore.
'Era tenente in un battaglione còrso' 'Al servizio dell'usurpatore, allora?'
'Al servizio della Francia! '
'Si è servito della spada ed è morto di spada' .
' Vi sbagliate: è morto di pugnale'.
“Che ci posso fare io ?”
'Ve l'ho detto: voglio che lo vendichiate'.
'Su chi?' .
'Sui suoi assassini' .
'Li conosco forse?'
'Fateli cercare' ...
Villefort più avanti sostiene, apparendo nelle brave vesti, spesso indossate dai magistrati, di Ponzio Pilato: 'Ogni rivoluzione ha le sue vittime' - rispose Villefort - 'vostro fratello è stato vittima dell'ultima; è una disgrazia e il governo non deve nulla alla sua famiglia. Se avessimo fatto il processo a tutte le vendette compiute dai partigiani dell'usurpatore contro i realisti durante l'impero, vostro fratello sarebbe forse stato condannato a morte. Ciò che sta avvenendo è del tutto naturale: è la legge delle rappresaglie...” .
Inutilmente Bertuccio cerca di convincere il procuratore: costui mostra tutto il suo tipico cinismo: un delitto è un delitto a seconda del momento storico in cui è compiuto. I sentimenti non contano. Bertuccio lo minaccia. Più tardi, tenterà di ucciderlo proprio nella villa che, forse per combinazione o piuttosto per uno specifico piano, il Conte di Montecristo acquista; ma in quella villa di notte, Bertuccio, mentre si approssima ad uccidere Villefort, si accorge che questo sta seppellendo un neonato, apparentemente morto. Risulterà che il neonato è figlio di Villefort e della futura moglie di Danglars, il contabile della nave dell'armatore Morrel, che aveva istigato il cugino di Mercedes, a presentare la falsa denuncia contro Edmondo. La futura moglie di Danglars era già sposata e , al momento del parto, si era creduto che il piccolo fosse morto per strangolamento dovuto al cordone ombelicale. Onde evitare lo scandalo, sempre per ragioni di carriera, Villefort voleva farne sparire il cadaverino, ma Bertuccio lo aveva salvato. Tipico del romanzo ottocentesco, il bambino poi, curiosamente già delinquente pur essendo figlio di un procuratore, creerà parecchi guai al padre adottivo ed alla moglie, e finirà sotto le spoglie di un figlio rapito ad un nobile lucchese, il signor Bartolomeo Cavalcanti, e come tale utilizzato dal Conte di Montecristo per la sua vendetta .
Il conte di Montecristo, sempre con un piano predisposto, fa salvare da un altro suo servitore, Alì, la moglie ed il secondo figlio maschio, ancora bambino ma viziatissimo, di Villefort, bloccando una carrozza guidata da due vivaci cavalli, probabilmente eccitati intenzionalmente. In tal modo riesce a farsi invitare a casa dalla famiglia e ad incontrare nuovamente il procuratore, il quale prova antipatia per lui, ma senza riuscire a capirne il perchè. Significativo di questo antagonismo (consapevole nel conte, istintivo nel magistrato) il loro primo colloquio dopo tanti anni: "Signore - disse Villefort con quel tono altisonante che i magistrati usano nei loro interventi foresi e di cui non vogliono o non sanno disfarsi nella conversazione privata - il servizio incomparabile da voi reso a mia moglie e a mio figlio mi obbliga a venire a ringraziarvi e a esprimervi tutta la mia gratitudine.
Nel proferire queste parole il suo occhio severo non aveva smesso per nulla l'abituale arroganza. Egli le aveva pronunciate con la sua voce di procuratore generale...
-Signore - rispose il conte con aria glaciale - sono contento d'aver potuto conservare un figlio a sua madre..."
Presto il dialogo diventa contrapposizione tra due mentalità. Ovvie ragioni di brevità mi costringono a citarne solo i punti essenziali:
"- Signore - ribattè Villefort - siete straniero e avete trasvorso parte della vostra vita nei paesi d'Oriente e forse non sapete che la giustizia umana, tanto spiccia in quelle contrade , presso di noi procede con somma prudenza e circospezione.
- Già, il claudo pede degli antichi. Lo so perchè mi sono occupato molto della giustizia dei vari paesi, confrontando la loro procedura penale con la giustizia naturale; e , devo dirlo, è la legge dei popoli primitivi, cioè la legge del taglione, che ho trovata più conforme alla volontà di Dio...
Ancora più avanti Montecristo obietta al procuratore: "Siete dunque pervenuto alla vostra alta posizione senza aver mai incontrato, o almeno ammesso delle eccezioni? Non esercitate mai il vostro sguardo, che pure avrebbe grande bisogno di acume e di sicurezza, ad indovinare subito su che tipo di uomo si posa? Un magistrato dovrebbe essere, non colui che più rigidamente applica la legge o che ne sfrutta più astutamente i cavilli, ma uno scandaglio d'acciaio per esplorare gli animi e una pietra di paragone per provare l'oro dei sentimenti buoni che si trovano sempre, in qualche misura, mescolati con quelli perversi d'un uomo..."
Villefort è messo in crisi dall'eloquente criticità di Montecristo, e l'atteggiamento del procuratore è sempre più sospettoso, soprattutto quando Montecristo, organizzando una festa nella famosa villa, mette in crisi il magistrato, la sua antica amante (la moglie di Danglars, che ha un mezzo svenimento) ed una parte degli ospiti, descrivendo a tinte fosche l'infanticidio, in realtà non avvenuto.
Villefort cerca di indagare sul conte, che sente nemico e mortalmente rivale, ma finisce per essere intrappolato in false informazioni procurategli dallo stesso conte in vari travestimenti (dove si fa passare per amici, conoscenti o rivali di se stesso, come l'abate Busoni o l'inglese filantropo lord Wilmore). I guai per Villefort continuano quando la suocera del primo matrimonio (quello con cui comincia il romanzo) muore avvelenata ad opera della seconda moglie che le è nemica, per ragioni di eredità (la seconda moglie non vuole che Valentina, figlia di primo letto, si sposi, lasciando il figlioletto pestifero e viziato privo di molte risorse finanziarie). Parlando col medico, che lo sollecita ad indagare, il procuratore, sempre per le sue ragioni di carriera, lo prega di tacere per evitare lo scandalo, ma i due non sanno che l'innamorato di Valentina, Massimiliano Morrei, figlio dell'armatore, sente tutto.
Intanto, il terribile piano vendicativo di Montecristo prosegue, con conseguenze non volute da lui, ma ugualmente inevitabili in un meccanismo tutto lasciato ad una Nèmesi feroce: la seconda moglie di Villefort, in certo modo istigata dallo stesso Montecristo che le aveva spiegato come funzionano certi veleni ed antidoti, cerca di sbarazzarsi da ogni ostacolo, ma in tal modo uccide il servo di Noirtier, che beve una limonata non destinata a lui; Valentina, la figlia di Villefort, è il successivo obiettivo, che non riesce grazie all'intervento di Noirtier e dello stesso Montecristo che la immunizzano dal veleno; ma la brava signora ritenta con un altro veleno, ed è allora il solo Montecristo che riesce a farla credere morta a tutti, compreso il suo innamorato, per dar modo alla ragazza di sfuggire ad altri tentativi. Questa volta Villefort capisce che è la moglie ad avvelenare tutti e le impone di uccidersi col veleno: lei obbedisce, ma avvelena anche il figlioletto Edoardo. Ormai la vendetta del terribile conte sta per giungere alla conclusione, con una scia di morti nella famiglia del procuratore. Ora scatta l'ultimo atto: Andrea Cavalcanti, figlio dello stesso Villefort, ovvero Benedetto il trovatello di Bertuccio, viene scoperto come imbroglione, arrestato e sottoposto a processo. Pubblico ministero è lo stesso Villefort :
"I giudici e i giurati si sedettero al loro posto; Villefort, oggetto dell'attenzione e potremmo dire dell'ammirazione generale, si accomodò, volgendo uno sguardo tranquillo intorno a sé" .
Tutti osservarono con stupore quella figura grave e severa sulla quale non era visibile alcun riflesso delle tremende sciagure familiari, e scrutavano, con una specie di terrore, quel volto d'uomo insensibile alle emozioni umane
Si aprì una porta e comparve Benedetto. I suoi lineamenti non recavano l'impronta di quel profondo turbamento il suo occhio era calmo e persino gaio <in sostanza, padre e figlio si assomigliano anche in questa capacità di finzione esteriore>
Appena entrato percorse,. con un lungo sguardo, le file dei giudici e dei giurati, fermandosi ...soprattutto sul procuratore del re...
Il presidente ordinò la lettura dell'atto di accusa redatto... dalla penna abilissima e implacabile di Villefort... il pubblico non cessò di osservare Andrea, che sostenne il peso di quegli sguardi con la stoica indifferenza di uno spartano .
Forse mai Villefort era stato così conciso ed eloquente...
A giudizio del pubblico, con quel solo preambolo Benedetto era già irrimediabilmente perduto...".
In realtà, il giovane, ben informato dallo stesso conte di Montecristo delle sue vere origini e della sua vita iniziale, si prepara ad un colpo dì scena e non si fa intimidire neppure dal presidente della Corte, che lo interroga e a cui confessa quasi allegramente i suoi delitti, impressionando l'uditorio per tanto cinismo. Ma il colpo più grave sta per giungere contro Villefort quando dichiara:
"- Mio padre è un procuratore del re - disse tranquillamente Andrea
- Si, e poiché volete sapere il suo nome, ve lo dirò: si chiama Villefort .
I sentimenti, così a lungo repressi..., proruppero da tutti i petti come un'esplosione e per cinque minuti le esclamazioni di stupore, le ingiurie lanciate a Benedetto, i gesti di minaccia, gli sghignazzamenti... riempirono l'aula d'un frastuono indescrivibile. Finalmente i magistrati e i gendarmi riuscirono a ristabilire il silenzio...
Villefort... completamente annichilito, sedeva con la testa fra le mani, mentre una decina di persone cercavano di consolarlo e incoraggiarlo .
- Voi vi prende te gioco della giustizia! - gridò finalmente il presidente volgendosi all'imputato''
Benedetto o il falso Andrea ha facile gioco nel dimostrare quanto afferma , enunciando fatti e particolari troppo precisi per non risultare veri. Alla richiesta delle prove, egli esorta a guardare il signore di Villefort, il quale, ormai in penose condizioni, riconosce la verità dei fatti descritti :
" - Ho il cervello a posto, signor presidente - rispose - soltanto il corpo soffre, e si capisce. Mi riconosco colpevole di tutto ciò di cui l'imputato mi accusa e da questo momento mi terrò in casa a disposizione del procuratore del re che mi succederà..."
Costretto ormai da questa confessione, il presidente deve rinviare il processo a nuova udienza con un nuovo pubblico ministero. Per un momento Villefort, che ancora ignora il suicidio della moglie e la morte del figlioletto, si illude di poter fuggire con loro, di perdonare la moglie, ma giunto a casa trova la moglie agonizzante e il bambino già morto. Appare anche Montecristo che gli si disvela e tenta vanamente di salvare il fanciullo. Villefort, ormai travolto dalle atroci disgrazie, impazzisce e si mette a scavare qua e là alla ricerca dell'altro figlio, che egli credeva di aver seppellito alla sua nascita .
Fine della prima parte