top of page

PIERANTONIO 
QUARANTOTTI GAMBINI
Prosa e Poesia
 

a cura di Paola Zelco
 
Pierantonio Quarantotti Gambini - scrittore e poeta istriano di grande impegno spirituale e di profonda passione civile – non ha mai disgiunto nella sua opera il legame vigoroso dei vincoli familiari dagli eventi storici e bellici della sua epoca e della sua terra.
In un lungo ciclo narrativo intitolato “Gli anni ciechi” egli descrisse la trama incantata dell'infanzia vissuta nell'Istria prebellica, rivelando le dimensioni benefiche del passato, le presenze care, l'innocenza, la meraviglia e la suggestione di un piccolo mondo ancora intatto.

Con il trascorrere degli anni però queste memorie si faranno sempre più effimere per dar spazio agli eventi e agli sconvolgimenti epocali che travolgeranno i destini dei singoli e la sorte della sua amata patria.

 

Il suo esordio narrativo avvenne nel 1932 con i tre primi racconti "I tre crocifissi", "Il fante di spade" e "La casa del melograno", successivamente riuniti nella raccolta "I nostri simili".

Si trattò di un esordio di eccezione: la sua narrativa manifestò sin dal suo sorgere un legame intenso con la grande stagione letteraria europea, con ascendenze letterarie e spirituali riconducibili a Thomas Mann, a Tolstoj ma anche a Dostoevskij, a Goethe.

Quarantotti Gambini infatti, nato a Pisino d'Istria il 23 febbraio 1910, contribuì in maniera determinante, come sostenne Saba, all'accoglimento dell'Istria, quale provincia geografica e culturale, nella grande letteratura italiana e, più generalmente, in quella europea.

Nel 1935 uscì per la prima volta a puntate sulla rivista “Pan” il romanzo "La rosa rossa", poi pubblicato nel 1937 dalle edizioni Treves e in seguito, in varie ristampe, da Garzanti e da Einaudi.

A tale proposito Umberto Saba, il grande poeta triestino, in una lettera datata 29 novembre 1937 e indirizzata all'Autore, così scriveva:

“La novità del racconto è che esso aggiunge, per la prima volta, l'Istria alle altre province della letteratura italiana. Non solo il carattere dei personaggi, ma tutti quei minuti particolari (il moscato rosa, la finestrella ad uovo, il salottino giallo, il teatrino, il fumo dei vaporetti sul mare) ogni cosa respira il paese a te caro. Senza nulla di provinciale o di crepuscolare: il tuo attaccamento all'Istria non è un vezzo, una maniera per essere ironico a buon mercato: è amore.” (1)

 

E ancora Saba in un'altra lettera a Quarantotti Gambini del 12 gennaio del 1946:

“Trieste ha dato all'Italia, da trenta e più anni a questa parte, il suo miglior romanziere (Svevo), il suo miglior poeta (Saba), il più impressionante poeta popolare (Barni), e adesso ha dato il più luminoso e complesso dei suoi giovani narratori (Pierantonio Quarantotti Gambini). Di questo l'Italia sembra essersi accorta poco e a denti stretti; Trieste poi è lo schifo che sai. C'è poco altro da dire o da fare; perchè è difficile risvegliare i morti e più ancora difficile far ricredere sui loro errori i falliti invidiosi. E per di più, vecchi e colla barba.”(2)

 

La 'rosa rossa' rappresenta il simbolo di amore e di elezione verso colui che sta per compiere il viaggio dal tempo all' Eternità.

Per due volte, e a più di quarant'anni di distanza, il protagonista trova il fiore posto in un bicchiere sul lavamano della sua casa di Capodistria. In gioventù si era trattato di un omaggio di saluto, il mattino della partenza per un lungo viaggio. Quarant'anni più tardi aveva ritrovato la rosa una sera, tornando da teatro. La rosa sanciva sempre il distacco e la partenza, ma quella della sera, come una clessidra, avrebbe segnato il tempo che lo separava dall'estremo passaggio.

Questo tema ricorda una fiaba narrata dai fratelli Grimm: una dolce visione dona un bocciolo di rosa ad un bimbo poverissimo promettendogli di ritornare da lui non appena la rosa fosse sbocciata. La madre del bimbo pone la rosa nell'acqua, e la mattina dopo, accostandosi al letto, trova il figlio morto: accanto a lui la rosa dischiusa, segno del tempo compiuto e del richiamo dell'Eterno.

 

Il romanzo è ambientato a Capodistria, in una vecchia casa della piccola nobiltà locale nel periodo immediatamente seguente alla fine della prima guerra mondiale e alla sconfitta dell'impero austroungarico. Protagonista del romanzo è il conte Paolo, ex-generale dell'Impero, che, finita la guerra, ritorna nella vecchia casa di famiglia dove vivono suo cugino Piero con la moglie Ines, la vecchia governante Basilia e la giovane cameriera Rosa. Paolo vi ritorna per passarvi gli anni della vecchiaia e per morirvi, ormai quasi in incognito, nel declino della sua passata dignità militare, in una nuova cultura postbellica che si faceva ormai beffe dell'Austria e della sua passata potenza. La morte per il conte Paolo, però, sarebbe arrivata prematuramente, pochi giorni dopo.

 

Anche la piccola, incantata Capodistria, che vive nei ricordi dello scrittore, diventerà una società frantumata e disgregata che andrà incontro ad una grave e severa metamorfosi.

L'atmosfera che vi domina, incardinata sul trinomio malattia - amore - morte, rievoca da un certo punto di vista, la “Montagna incantata”. La valenza simbolica dell'allora malattia per eccellenza, la tubercolosi, è presente anche ne “La rosa rossa”: l'ultimo rampollo della discendenza, il contino Pier Francesco Basseri Lorisca, si ammala e si reca in Svizzera per curarsi in un sanatorio.

Il lettore apprende che Pier Francesco, analogamente ad Hans Castorp, guarirà e tornerà nel mondo.

Questo ritorno però sarà pieno di incognite: i giovani dovranno affrontare un mondo ormai totalmente cambiato, la fine di una civiltà, con la sua pesante ma preziosa eredità, e la sua ricostruzione spirituale.

All'intimo finale de “La rosa rossa”, allo spegnersi della vita e delle coscienze dei due vecchi, serrate al mondo esterno incomprensibile e ostile, potremmo affiancare le parole finali del capolavoro manniano, l'angoscioso interrogativo sul destino dell'uomo e del mondo:

"Da questa festa mondiale della morte, da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l'amore?" (3)

 

Con "L'onda dell'incrociatore", il suo secondo grande romanzo, Quarantotti Gambini vinse nel 1948 il Premio Bagutta. Di quest'opera Umberto Saba mise in risalto soprattutto l'aspetto linguistico.

In una sua lettera (4) Saba accomunava la limpidezza dello stile narrativo di Quarantotti Gambini a quelle “bellezze riposte” (dello stile) delle quali il Leopardi scrive – facendo parlare per lui il Parini – nelle “Operette morali”.

Una di queste “Bellezze riposte” era per Saba certamente il finale del capitolo VII dell' “Onda dell'incrociatore”, un libro, come scrisse Saba, “scritto meravigliosamente bene; forse nessuno scrive oggi in Italia come te (…) “ammirevole è nell'Onda la lingua con la quale ti esprimi. Mi sembra che, in questa direzione, il tuo libro possa fare addirittura testo; ed è bene (se qualcosa in questo senso può essere bene) che sia un testo giuliano”(5)

 

I grandi temi dell'opera di Quarantotti Gambini delineano la sua passione civile e il tenace amore per la sua terra, la sua capacità di analisi dei problemi etico-spirituali dei primi decenni del Novecento, il tramonto di una intera civiltà, come pure l'approfondimento psicoanalitico dei motivi dell'infanzia, dell'adolescenza e dell' approccio “iniziatico” alle valenze generative (temi tanto cari a tutta la letteratura triestina da Svevo a Slataper, da Saba a Giani Stuparich).

Su tutti però emerge un'istanza che per Quarantotti Gambini rivestì sempre un significato particolare e che riguarda da vicino l'etica e la responsabilità morale del singolo.

Umberto Saba, a proposito del 'classicismo' nella scrittura di Quarantotti Gambini, definì lo scrittore istriano un “aristocratico del Settecento”(6)

Potremmo pensare a “Le affinità elettive” un'opera in cui il pensiero si rispecchia nella trasparente sensibilità simboleggiata da Ottilia - stupendo ed enigmatico personaggio goethiano – che esalta l'educazione 'intrinseca' all'uomo, cioè il “talento per il Bene”:

“Non esiste alcun segno esteriore di cortesia che non abbia una profonda ragione morale. Vera educazione sarebbe quella che manifestasse il segno esteriore e insieme l'intimo sentimento.

Il contegno è uno specchio nel quale ognuno mostra la propria immagine. Esiste una cortesia del cuore; essa è apparentata con l'amore”(...) (7)

Certamente Quarantotti Gambini è stato un scrittore coraggioso: non sarà stato certo facile in quel momento storico dare voce ad istanze spirituali ormai estranee alla depauperata sensibilità dell'epoca.

Carlo Bo nella commemorazione dello scrittore istriano al Circolo della Cultura e delle Arti a Trieste, affermò:

“Tanto Quarantotti poteva apparire delicato e sensibile nella descrizione di certe sensazioni rare, segrete, altrettanto risultava sicuro di sé, fermo, convinto delle proprie idee quando si trattava di indicare le fonti del suo patrimonio spirituale e morale (…) (8)

“...sapeva molto bene come far stare insieme il gioco liberissimo dell'invenzione e il senso di una regola morale, la libertà assoluta dell'invenzione, e un patrimonio di cose indiscutibili e che rientravano nell'ambito di una più alta verità morale (…) (9)

E più oltre:

“Quarantotti tornava su quello che era il suo terreno d'origine perchè la sua arte era un'arte di meditazione, di lenta approssimazione, e soprattutto perchè era convinto che la vita debba essere interpretata nel suo quadro d'origine, letta attraverso quelli che sono i dati eterni della nostra vicenda.”(10)

 

Negli anni seguirono in successione altri impegnativi romanzi: "La calda vita" del 1958 e la raccolta rimasta incompiuta "Gli anni ciechi" che contiene i bellissimi racconti "Il cavallo Tripoli" (1956), "L'amore di Lupo" (1964) e "I giochi di Norma" (1964).

La raccolta era stata concepita come un lungo ciclo narrativo, rimasto purtroppo incompiuto per la prematura scomparsa dello scrittore.

 

"La calda vita" (11) è un romanzo ampio e complesso, nel quale, si snodano estesi varchi narrativi diacronici (pur nell'esaurirsi della vicenda principale nel breve spazio di quattro giorni), in cui lo scrittore delinea il quadro storico di due generazioni, dai primi anni del Novecento alla immediata vigilia della seconda guerra mondiale.

Protagonista del romanzo è - come altrove in Quarantotti Gambini - la terra istriana, impersonata da Sergia, la quale, rappresentata nella sua età fiorita a simbolo del mondo rigoglioso di quella regione, subisce nel corso degli eventi pesanti mutilazioni:

"Che cosa abbiamo fatto di lei?- si chiese sentendo quasi un brivido alla nuca, e si volse a guardarla.

“I capelli bianchi, stuprata, il seno sterile; che cosa abbiamo fatto di questa ragazza che forse nella sua vita, chi sa, sarà migliore di tutti noi? E sono questi i soli segni - si domandò ancora - con cui Sergia torna dall'isola?” (12)

 

La collocazione temporale del romanzo, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, è in consonanza con l'approssimarsi dell'imminente tragedia. L'evento storico inquadra il momento morale-spirituale in cui versano terre e popoli. Anche i personaggi del romanzo, votati alla morte, vivono per similitudine ogni funesto presagio.

Dagli accadimenti narrati deriva un unico denominatore comune che si estrinseca nella dissolutezza che dagli individui si estende alle famiglie, ai popoli e al destino delle nazioni.

Il delitto compiuto da Oscar, rimasto impunito, causerà, nell'amalgama dei comportamenti individuali, uno stato di disequilibrio che sfocerà nel decadimento di un'epoca che avrebbe visto la specie umana nell'immoralità più feroce.

Accanto al tema della vendetta e a questo connesso, si sviluppa nel romanzo la problematica della maturazione etico-morale.

Centro focale è il concetto di misericordia, una virtù – come sottolinea Quarantotti Gambini - che l'uomo dovrebbe conquistare per sè stesso:

"È l'uomo, non Dio, che dev'essere supremamente giusto, supremamente misericordioso, sempre pronto al perdono e, pieno d'amore per tutte le creature ... (13)

Nessuno è contro Dio, non si può essere contro Dio, ciò è inconcepibile data l'essenza stessa di Dio.

Ma il guaio è che taluni sono contro gli uomini, e questo è il peccato. L'assassino è contro l'uomo, il ladro è contro l'uomo, la spia è contro l'uomo, chi tiranneggia è contro l'uomo e chi ha avidità di soldi altrettanto. Quello che manca e che si deve insegnare non è il rispetto di Dio ... ma il rispetto dell' uomo" (14)

 

Quarantotti Gambini stigmatizza il nichilismo e l' indifferenza nei confronti del male. Lo scopo dell'esistenza terrena non può essere solo "vedere, sapere e conoscere", ma anche adoperarsi nel nostro "margine" di libertà per porre in essere quella maturazione il cui fulcro è la misericordia:

"Quel margine tra il destino e la nostra volontà esiste... Piccolo o grande che sia, sta a noi di riempirlo. Vedere, sapere, conoscere non basta ... Bisogna magari spaccarsi il muso ma raddrizzare qualcosa che va storto" (15)

 

Immanenza e trascendenza, destino e fatalità: la 'misericordia' si manifesta nel romanzo nella sorte dei singoli e nel rapporto tra vittime e carnefici.

Alla vittima, che diventa il vero 'iniziato', è richiesto l'immane sforzo di trascendere la propria umanità calpestata, come è stato richiesto al Cristo morente:

“Se una cosa posso aspirare ad essere, è semplicemente questa: un uomo!” “Un vero uomo...Chi è stato un vero uomo? Puoi dirmene uno?” “Pensa a uno solo: Cristo. Che non è soltanto un uomo... ma anche un culmine dell'uomo...” “Capisci dunque … in che cosa consista l'unico progresso umano? ...” “Il solo progresso è questo: far aumentare di generazione in generazione il numero dei veri uomini...” (16)

Le vicende del romanzo rappresentano per i giovani protagonisti una iniziazione ai valori dell'umanità autentica:

“(...) indicandogli problemi da affrontare, con un impeto, ch'egli già sentiva, di battaglia. Il 'vir' latino, il battezzato di Cristo, “uomini siate” di Dante, il 'sii gentiluomo' di casa sua. (Che cos'era o che cosa avrebbe dovuto essere il gentiluomo ai primordi...se non l'uomo completo, sotto tutti gli aspetti? Oggi rimane in genere ai gentiluomini soltanto il cognome, qualche volta le maniere. Una spoglia, un simulacro. E il resto? Non vi è più quasi traccia d'altro)” (17)

 

Nel sito storico-spirituale che Quarantotti Gambini descrive nel suo romanzo si preannunciano il germe della distruzione e la perdita di tutti i valori auspicati dallo scrittore. L'umanità autentica rimarrà un'utopia, l'uomo come vero fulcro della storia verrà distrutto.

 

'La calda vita' è il simbolo della promessa che riceviamo nella giovinezza, è la fede e l'entusiasmo di un cuore giovane che si prefigura attese benevole e positive e dona tutto sé stesso all'idealità in cui crede. Come quasi sempre accade però, la realtà, nella sua successione di eventi ed esperienze, riporta dolorosamente il cuore del giovane a confrontarsi con il tema della caducità degli ideali e delle speranze, con il conflitto e la barbarie.

Il titolo del romanzo è tratto dai versi della 'Nona fuga' di Umberto Saba:

 

“Non sono quella che un tempo tu amavi,

la calda vita?

che più fugge chi n'è più disperato amante;

che nel petto il suo artiglio, t'ha piantato

più straziante;

che in me la voluttà, l'amore ardente

profonde;

e se ti lagni, oh come dolcemente

l'Eco risponde.” (18)

 

Quarantotti Gambini ne fa espressa menzione nelle pagine del suo romanzo, facendo esclamare ad uno dei personaggi: “Sono versi di Saba... Caro e grande Saba! Lo dicono spinoso, un uomo impossibile. E' invece, forse, l'uomo più saggio e più disperato che si possa conoscere. Con me d'altronde è stato anche gentile e aperto, e lieto, delizioso” (19)

 

"Gli anni ciechi", come già si è detto, è un ciclo di racconti, rimasto incompiuto, che avrebbe dovuto delineare la storia di Paolo - una storia per molti aspetti autobiografica - dall'infanzia alla maturità, in un periodo compreso indicativamente tra il 1913 e il 1960. Questa narrazione non giunse mai al termine. Alcuni racconti ("Le redini bianche", "La corsa di Falco") furono pubblicati postumi a cura del fratello di Quarantotti Gambini, Alvise.

Essenziale è nel libro, come notò Saba (20) l'approfondimento psicologico sul personaggio di Paolo, che all'inizio del ciclo è un bimbetto di 4 o 5 anni, le cui sensazioni ed emozioni vengono tratteggiate da Quarantotti Gambini con eccezionale capacità di analisi psicologica, che assume, soprattutto nel rapporto d'amore tra Paolo e il nonno, colorazioni liriche delicatissime. Nella figura del nonno è adombrato il nonno di Pierantonio deputato italiano al Parlamento di Vienna, come autobiografici sono anche gli altri personaggi familiari, tra cui lo zio Pio Riego Gambini caduto sul Podgora nella prima guerra mondiale.

 

Accanto all'aspetto strettamente psicologico e sentimentale della narrazione si delinea anche il tema civile e patriottico: la situazione dell'Istria nei primi cinquant'anni del nostro secolo fa da sfondo alle vicende. Il tema della responsabilità etico-morale nei fatti storici sarà poi ulteriormente approfondito da Quarantotti Gambini in “Primavera a Trieste”.

 

All'inizio del ciclo è posto come premessa il racconto dal titolo “Tre bandiere”, una digressione temporale rispetto alla struttura dell'opera. La narrazione si colloca nel secondo dopoguerra, ed è il resoconto autobiografico del “breve, amaro e angosciato ritorno in Istria, a Capodistria, a Semedella...”(21) del protagonista:

“Tornava dopo centinaia d'anni a Capodistria. Nonostante alcuni mutamenti, tutto era – si poteva dire – uguale: la Piazza, il Belvedere, la Calegaria, il Brolo; gli stessi muri, le stesse case: eppure nulla era più come un tempo... Perchè ci sono i vivi, i nuovi vivi; ma io non so chi essi siano (i loro volti non hanno nulla in comune con quelli della gente che ho conosciuta in queste vie quando anch'io stavo qui). E io sono estraneo ad essi: uno sconosciuto (di cui ignorano quanti ricordi porti in sé di cose accadute dove essi abitano). Uno sconosciuto? Meno ancora: proprio un morto. Un fantasma”. (22)

 

Le tre bandiere sono il simbolo del lungo dramma storico vissuto nel giro di venticinque anni: “... tre bandiere: lotte, guerre, catastrofi e tre bandiere...” (23)

 

L'opera di Quarantotti Gambini non fu mai disgiunta dall'impegno civile per le sorti della sua terra d'origine e si può dire che il poeta stesso ne sia diventato il simbolo. Indro Montanelli, di cui Quarantotti Gambini fu molto amico, lo definì “un eroe istriano”.

Il suo impegno in tal senso si delinea soprattutto in "Primavera a Trieste" in cui pone l'accento sull'atroce ingranaggio che ha sempre caratterizzato tutte le rivoluzioni: “Non è possibile dunque abolire i privilegiati, ma soltanto sostituirli?” (24)

 

La sua passione civile non è stata vuota retorica: il suo impegno civile era vòlto ad una umanità redenta e ragionevole ancora in grado di incarnare i valori della vita e dello spirito.

Quarantotti Gambini cercava l' 'umanità autentica': una ricerca spesso tenacemente legata al passato, segnata dall'assoluta solitudine di una voce inascoltata.

Ai temi caratteristici della sua opera si unisce, quale principio poetico e strumento critico al servizio dell'arte, il concetto etico-estetico di Bellezza, quello sforzo costante dell'essere umano che anela a ciò che Tolstoj chiamava la "vera vita": "In questo allargarsi continuo dei confini dell'amore risiede l'essenza della (…) vera vita dell'uomo in questo mondo (…) E questa nascita continua è ciò che, nella dottrina cristiana, si chiama la vera vita”(25)

 

Anche l'essenza della sua produzione poetica, per quanto considerata piuttosto marginale e secondaria, riprende i temi sviluppati nella prosa.

Le raccolte poetiche pubblicate sono: “Racconto d'amore” edita nell'anno della sua morte (Mondadori, 1965), e “Al sole e al vento”, pubblicata postuma a cura del fratello Alvise, nel 1970 (Einaudi, Torino, prefazione di Guido Davico Bonino; nota di Alvise Quarantotti Gambini)

 

"Racconto d'amore" e' un diario intimo che narra una vicenda personale vissuta tra il 1958 e il 1965. Contiene una premessa, nella quale l'Autore si rivolge con una lettera ideale a Umberto Saba, maestro ed ispiratore della sua poesia.

La confessione autobiografica in queste righe raggiunge toni estremamente dolorosi, e in queste pagine l'influsso sabiano è evidente e si rivela nella semplice e disarmata espressione dei sentimenti, fedele alla propria coscienza e alla propria vita interiore.

 

La raccolta “Al sole e al vento” è breve e comprende quasi esclusivamente poesie composte dall'Autore nei suoi ultimi mesi di vita, tra il marzo e l'aprile del 1965.

“E' singolare notare - scrisse il fratello Alvise nella Prefazione - che nell'ultimo mese della sua vita e persino durante le sue ultime ore PierAntonio era ritornato al mezzo espressivo che era stato quello delle sue primissime prove di adolescente”

In questa raccolta il linguaggio poetico, esprime adesione umana e sentimentale per gli animali domestici, la natura, i luoghi e le città, fatte rivivere come creature sensibili, e per una terra particolare, la patria perduta per sempre assieme alla sua gente, lontana, sconosciuta e umile, travolta e tradita dalla vita e dalla storia.

 

La raccolta riprende anche i temi più cari della sua narrativa sviluppando poeticamente simboli, immagini e temi della sua prosa.

L'aspetto ciclico della complementarietà del suo lavoro tra prosa e poesia è messo in evidenza nella lirica “Il cerchio”:

 

I miei racconti ed i miei versi, in sè

han la stessa radice. Tutto insieme

parte ed arriva, per vie opposte: in cerchio.

 

Chi i racconti conosca, qua uno specchio

ritroverà che ne riflette l'intima

necessità.

Se in prosa ho scritto, qua

c'e' in ritmi e rime l'altra mia metà. (26)

 

Il gruppo di poesie "Paolo e Norma" riprendono i racconti de "Gli anni ciechi", la poesia "Nel mandracchio" ricorda esplicitamente i protagonisti de "L'onda dell'incrociatore", le poesie "A Sergia penso" oppure 'Isola immaginaria' ripropongono i temi de "La calda vita".

Dalla memoria del passato affiora anche la tragica esperienza della sconfitta e della morte.

Il presagio, il silenzio, la premonizione del distacco diventa nella raccolta uno dei motivi dominanti. Il cerchio sta per chiudersi portando a compimento il passaggio che ci attende:

 

"La porta"

 

Piccolo, inerpicandomi su un monte,

un giorno giunsi ad una grande porta.

 

Alta, isolata, sopra uno sperone

erboso. Piano spinsi il suo battente.

 

Che cosa vidi? Ancora ciuffi d'erba

ed altro niente.

Là il sentier moriva

E dove di trovar credevo prima

forse una casa, o campi, o voci umane,

c'era soltanto un baratro, un ciglione

e poi più nulla,

in mezzo a un indicibile silenzio.(27)

 

Ritornano nelle poesie i grandi temi e tutto riaffiora ciò che non è più: persone e luoghi amati dell'incantata infanzia, gli ideali, i rimpianti, i lutti, le sconfitte. Ritornano gli avi ormai trapassati e sono solo ombre sì, ma appaiono intense e luminose: il cerchio del tempo sta per chiudersi.

La nostalgia dilaga nel suo cuore ed ha mille volti, quelli di un'intera vita. Accanto a questi, un rimpianto ancora più intenso, un'aspirazione dell'anima ancora più sottile e devastante lo accompagna e si schiude all'Inconoscibile:

 

"Ciò che perdemmo a noi per sempre resta,

non ciò che abbiamo.

 

L'anima ricupera

col desiderio ciò che il cuore ha perso.

 

Nel cielo dei ricordi, sempre terso,

ridente ti ritrovo, ancora mia

sei e rimani. In me ti porto.

 

Sia la sola verità segreta questa

intima nostra.

 

E l'ultima mia festa” (28)

 

 

 

NOTE

1. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, "Il vecchio e il giovane" carteggio 1930-1957, Mondadori, Milano 1965 - pag. 145

2. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, op.cit.- pag. 27

3. Th. Mann, "La Montagna incantata" Dall'Oglio, Milano, 1976. vol. II, pag. 405 - trad. Bice Giachetti Sorteni)

4. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, op.cit.- pag. 97

5. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, op.cit.- pag. 10

6. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, op.cit.- pag. 146

7. J.W. Goethe “Le affinità elettive”, De Agostini, Novara, 1983 – pag. 233 - Trad. Renato Ferrari - Introduzione di Michele Maggi

8. Carlo Bo “PierAntonio Quarantotti Gambini” sta in “Umana” - Trieste nov-dic. 1967 pag.24

9. Ibidem pag.24

10.  Ibidem pag.24

11. P.A. Quarantotti Gambini “La calda vita” , Einaudi, Milano, 1965

12. Ibidem pag. 819

13. Ibidem pag. 755

14. Ibidem pag. 753

15. Ibidem pag. 826

16. Ibidem pag. 716-717

17. Ibidem pag. 750-751

18. Umberto Saba “Canzoniere” , Einaudi, Milano, 1974, pag. 375-376

19. P.A. Quarantotti Gambini “La calda vita” op. cit. pag. 779

20. U. Saba, P.A. Quarantotti Gambini, "Il vecchio e il giovane" carteggio 1930-1957 – op. cit. pag.160

21. P.A. Quarantotti Gambini “Gli anni ciechi”, Einaudi, Milano, 1965, pag. 659

22. Ibidem pag. 20

23. Ibidem pag. 31

24. P.A.Quarantotti Gambini “Primavera a Trieste e altri scritti” - ed. Italo Svevo – 1985 - pag. 106

25. Lev Tolstoj, "Perché vivo?" - Epos, Palermo, 2004, pag. 125

26. P.A.Quarantotti Gambini “Al sole e al vento”, Einaudi, Torino, 1970 – Prefazione di Guido Davico Bonino. Nota di Alvise Quarantotti Gambini – pag. 111

27. P.A.Quarantotti Gambini “Al sole e al vento” - op.cit. pag. 133

28. P.A.Quarantotti Gambini “Al sole e al vento” - op.cit. pag. 138

bottom of page