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LE FORME ESTETICHE DEL DIBATTITO FORENSE

IN QUINTILIANO

 

di Manlio Tummolo

 

 

Ottavo Saggio per una Storia delle Teorie Estetiche

(Bertiolo - Udine, febbraio - marzo 2020)

Parte quinta

“… 23. … Per gli oratori non necessita infatti una voce agile e delicata, ma forte e salda, poiché se i maestri di canto possono sempre temperare i toni più alti nella modulazione del canto, noi dobbiamo per lo più parlare in modo acceso e concitato, e passare, vegliando, le notti, e berci la fuliggine delle lucerne [un problema oggi inesistente, ma non è lontanissimo il tempo in cui si fumava in pubblico, e l’oratore doveva respirare l’odioso puzzo delle sigarette, forse anche più dannoso della fuliggine], e resistere in una veste bagnata di sudore. 24. Perciò, non ammorbidiamo la nostra voce … ; ma l’esercizio si uniformi al compito cui è destinato, né abbia soste di silenzio, ma si rafforzi con la pratica…” [88] .

Paragona quindi l’oratore agli atleti (è un atleta della voce, ma anche del pensiero), e quindi la comune necessità dell’esercizio, la noncuranza verso il tempo meteorico (caldo, freddo, piovoso, assolato, ecc.): non si può abbandonare il patrocinato a causa di questi fenomeni del tutto normali. Bisogna pure evitare pranzi e bevute eccessive (il che oggi ci appare una banalità, ma forse non lo era allora). Il linguaggio dev’essere corretto, chiaro (la chiarezza, che è fondamentale, spesso oggi viene trascurata perché si confonde l’oscurità e la complicazione con la profondità e complessità dell’argomento [89]), ornato e appropriato, in modo da apparire fluido, piacevole, urbano, senza errori di pronuncia .

Il discorso, tuttavia, dev’essere energico, ma armonioso, specifica Quintiliano, citando Cicerone che critica chi non parla, ma “abbaia”, ovvero grida e sproloquia in modo nevrotico. La pronuncia dev’essere chiara e completa per ciascuna parola, diremmo scandita ma senza monotonia, sapendo quando può essere accelerata, quando rallentata, quando detta con normale (ma udibile) tonalità, quando elevata :

“… 40. La dizione è efficace ed elegante quando è confortata da una voce non sforzata, forte, ricca di modulazioni, salda, dolce, costante, timbrata, pura, che taglia l’aria e penetra nelle orecchie (c’è infatti, per questo un tipo di voce ben udibile, non tanto per il volume, quanto per una propria qualità)… capace di tutte quelle inflessioni e modulazioni che si richiedono… assistita da polmoni ben saldi e da un fiato regolare nella sua misura… 41. Il timbro, poi, quello molto grave e quello molto acuto non si convengono all’oratoria … “ [90].

Sempre approfondendo il tema della modulazione vocale, il nostro Autore dice anche cose che, al nostro orecchio, sono alquanto sgradevoli oltre che banali, quali il non dover tossire, sputare e spruzzare di saliva i vicini (un tema assai attuale in tempi di COVID 19 [91]). Egli non apprezza neppure la tonalità prossima al canto, per lui il difetto peggiore perché, a suo parere, istrionico e più degno delle cene che del foro, anche ammette che vi sia nell’orazione una certa musicalità o, come dice il citatissimo Cicerone, “Un canto più occulto” [92]. La velocità di pronuncia dev’essere correlata anche ai sentimenti, per esprimerli con maggior accentuazione, più veloce nell’ira, ma più lenta nel voler suscitare odio; quando si chiede o si blandisce, dev’essere sommessa. Si spinge quindi alla posizione del corpo, della testa, all’espressione dello sguardo: qui mi pare vi sia una certa astrattezza, perché in un discorso che, in tutti i casi, deve apparire naturale, il mettersi in posa, o studiare l’intera gestualità corporea finisce o per bloccare chi parla, o per renderlo troppo teatrale. Eppure su tali argomenti si dilunga per diversi paragrafi, come un regista vuole insegnare tutti i “trucchi del mestiere”, diventando qui un po’ stucchevole, ma nondimeno conclude il Capitolo e l’intero XI Libro con questa giusta osservazione :

“… 183. …. Ma già ormai è invalso ed accettato un modo un po’ più concitato e lo si reclama ed a certe parti si conviene, a condizione che venga, però, contenuto, affinché, mentre cerchiamo l’eleganza dell’attore, non uccidiamo la dignità dell’uomo probo e virtuoso” [93] .

Ciò che conta, nella sostanza, non è l’apparire di un discorso, ma la sua sincera qualità, il correlare armoniosamente e proporzionalmente la verità del dire con la sincerità degli atteggiamenti esteriori. Nulla di più stantìo che la posa, l’artefatto: essere se stessi, conoscendo (socraticamente) se stessi, non è solo la cosa più morale, ma anche quella più gradevole per chi ascolta .

 

DAL LIBRO XII .

Il Libro in esame è l’ultimo delle “Istituzioni Oratorie” ed è sostanzialmente un riesame sintetico, non semplicemente riassuntivo, degli argomenti affrontati in tutti gli altri Libri, sottolineando una volta di più di caratterizzare non solo gli aspetti tecnici e metodologici di una retorica esteticamente funzionale, ma anche gli aspetti morali: come si vede, la differenza tra Quintiliano e Seneca non consiste in obiettivi opposti o molto diversi, ma solo su quelli di stile letterario (in pratica: il modello ciceroniano, oppure un modello asciutto, sintetico, apparentemente freddo), che per il primo sceglie quello ciceroniano:

“… la mia temerità si spingerà anche a dargli dei costumi ed a prescrivergli dei doveri e così, sebbene sia impotente a seguire costui che mi precede [Cicerone], tuttavia devo procedere più oltre nell’argomento come la questione comporterà…

I.

NON PUO’ ESSER ORATORE SE NON L’UOMO ONESTO

1. Sia dunque l’oratore che noi abbiamo formato, quello che è definito da M. Catone uomo onesto, esperto nell’arte del parlare. Ma ciò che egli ha posto in primo luogo è anche la cosa migliore e più pregevole che c’è nella stessa natura, cioè un uomo onesto; non soltanto perché se la forza del dire costituisce strumento di successo per la perversità, non ci sarebbe niente più dannoso per gli interessi pubblici e privati dell’eloquenza, ma anche perché noi stessi che ci siamo sforzati, per quanto abbiamo potuto, ad accrescere questa facoltà del dire, avremmo reso un pessimo servigio alla società se avessimo preparato queste armi per dei briganti…

2. … La stessa natura in quel dono [la parola retta dal pensiero] con cui sembra aver favorito gli uomini in particolar modo e averli distinti dagli altri animali, si sarebbe mostrata non madre, ma matrigna, se avesse inventata la facoltà del dire come compagna delle scelleratezze, contraria all’innocenza, nemica della verità. Meglio sarebbe stato infatti per noi nascere privi della parola e dell’uso di ragione che volgere questi doni della provvidenza ad una mutua distruzione [quanta attualità in queste considerazioni, osservando la serie delle operazioni che la specie umana ha compiuto, e sta compiendo anche in questi giorni in cui scrivo, per la propria stessa distruzione!]. 3. Ma io vado più in là con questa mia affermazione: perché non asserisco soltanto che un oratore deve essere uomo, ma anche che non può essere oratore altri che l’uomo onesto…” [94] .

In sintesi, per essere più precisi: in Seneca la bellezza dell’arte e la moralità dell’arte coincidono; per Quintiliano si distinguono, ma devono coinvolgersi, cooperare. Pur trattandosi di un’epoca difficile, si smentisce storicamente la tesi di un mondo pagano dedito al vizio, rispetto ad una cultura cristiana più severa e sobria. Se il Cristianesimo, lentamente ma continuamente, tra ondate di persecuzione e bonacce di tolleranza, si diffonde con successo, ciò avviene - questo va sottolineato con fermezza - anche per la condivisione di un messaggio etico severo, almeno teorico, rispetto al lassismo pratico di larga parte delle classi dirigenti, rispetto agli intellettuali e alla semplice popolazione. Un popolo integralmente corrotto, e ancora selvaggio, non si commuove e non si converte nel vedere folle di Cristiani abbandonate alla fame dei leoni .

Ora, come si potrebbe definire Quintiliano un semplice rètore, leggendo questi capoversi ? Non sarà forse un grande filosofo originale, non dirà cose assolutamente nuove, non sarà neppure uno scrittore fortemente sistematico e deduttivo: spesso è pure ripetitivo, talvolta tendenzialmente contraddittorio (fatto non raro, anche nei maggiori filosofi e scienziati), ma è da escludere che fosse stato un semplice rètore o un esteta formalista, e basta. In sostanza, egli carica l’oratore forense e politico, spesso riuniti in una sola persona come fu Cicerone, di un compito estremamente complesso e non facile: armonizzare abilità dialettica ed estetica con l’azione concretamente onesta, l’abilità tecnica del giurista alla finalità di difendere tramite la verità, e non la menzogna, così l’innocente come il colpevole, ovviamente con un rapporto diverso, perché con l’innocente si deve ottenere la verità senza sforzo; con il colpevole, bisogna trovarla quasi tirandola fuori con la forza, perché il colpevole, per difendersi, cerca di nascondere i fatti reali anche al proprio difensore. Certamente, egli, se non filosofo generale, fu in pieno un grande educatore nel senso professionale, ma al tempo stesso aperto ad una formazione di humanitas culturale ed estetica, che forse non diede frutti al suo tempo, ma si proiettò nel futuro contribuendo alla nascita dell’umanesimo italiano ed europeo circa 1300 anni dopo la sua morte .

Questa sua dottrina etico-estetica, non lontanissima quindi dal pensiero senechiano per i contenuti, sebbene non per le forme stilistiche proposte, viene ribadita ed approfondita nelle pagine successive, chiedendosi come si possa reggere ad uno studio e impegno professionale così grave e continuo, se dovesse, contestualmente, condurre una vita viziosa e dissipata; quale esempio di vita potrebbe dare ai suoi patrocinati e agli stessi avversari, e ai giudici, se si comportasse iniquamente ? quale valore avrebbero le sue parole, se non corroborate coerentemente da azioni oneste ? A chi gli obietta l’interrogativo se Demostene e Cicerone, non sempre ottimi esempi morali, siano o non siano stati dunque veri oratori, egli risponde che i due comunque non ebbero mai comportamenti o idee disdicevoli, tali da danneggiarne la capacità oratoria .

“… 24. … dovremo forse donare il sacro nome di oratore ad un traditore, ad un disertore, ad un prevaricatore ? … 25. Infatti noi non diamo una qualunque educazione forense, né forniamo un mercenario che metta la sua voce in vendita, né (…) un difensore utile nei processi … , ma un uomo che si elevi per la tempra dell’ingegno e che abbia la mente ricolma di vaste e belle conoscenze, un uomo concesso alla terra, tale quale l’antichità non ne ha mai veduto un eguale, un uomo unico, perfetto in tutto, ammirevole per i suoi sentimenti e per come li esprime… “ [95] .

Il compito di questo oratore non sarà soltanto di difendere gli innocenti, di reprimere i delitti, di agire nelle cause pecuniarie, ma anche svolgere attività politica pubblica, nel Senato e nei Comizi [96]. Ritorna poi sull’argomento del rapporto tra arte oratoria e le scienze, quali la morale e la filosofia, per cui va determinato quale dei sistemi filosofici sia opportuno per spiegare meglio situazioni giudiziarie: sempre sulla linea ciceroniana, sembra prediligere il platonismo, ma non trascura né Aristotele, né lo stoicismo. Da buon pragmatico romano, sostiene pure che, se in etica i Greci prevalgono per precetti, i Romani prevalgono per esempi di vita, a suo parere più efficaci [97] .

Nei Capitoli III e IV ritorna alle questioni di pedagogia della scienza forense (Diritto, morale, religione dello Stato, storia); nel V sulle questioni tecniche dell’oratoria: conoscenza e uso delle figure retoriche, idoneità della voce (essenziale in tempi in cui non esistevano né megafoni, né altoparlanti elettrici, e la potenza vocale doveva farsi chiaramente udire anche in luoghi aperti). Interessante, confermando questo suo orientamento morale nella formazione dell’oratore, la seguente asserzione nel Capitolo VII :

“… 6. Ma bisogna stare in guardia contro due tipi di ambizione, l’una di non voler prestare la propria opera se non ai potenti contro agli umili, l’altra, in cui si manifesta maggiore boria, di appoggiare sempre i piccoli contro i grandi, perché non è il rango a rendere le cause giuste o ingiuste…” [98] .

Prosegue poi col consiglio di non voler approfittare del patrocinato per arricchirsi, e, se non è costretto dalla povertà, ad evitare di chiedere denaro. Seguono consigli tecnici, che ribadiscono osservazioni fatte nei Libri precedenti . Nel Capitolo X, paragona poi l’arte oratoria alla statuaria, facendone in sintesi la storia: ricorda la rigidezza delle statue etrusche e di quelle greche arcaiche, che divennero più plastiche e “mobili” in un certo senso: cita molti pittori e scultori, quali Polignoto e Aglaofone, Zeusi e Parrasio, Protogene e vari altri. Questo per insistere sulla necessità di liberarsi anche dalla rigidezza espressiva, ed assumere naturalezza e vivacità nel discorso. Sottolinea la differenza tra lo stile asiano, pomposo e verboso, quasi un barocco ante litteram, e quello più semplice e naturale, cioè l’attico, a cui va nettamente la preferenza di Quintiliano. Procede ancora con la pronuncia che ritiene più dura in latino, piuttosto che quella greca .

Asserisce ancora che tra la forma del parlato e dello scritto non debba esserci troppe differenze, ma non nel senso di quel nostro detto “Parla come mangi”, ovvero con schiettezza e semplicità, ma anche con una certa rozzezza; si deve parlare come si scrive, e viceversa, ossia con eleganza naturale e non artificiosa .

Così conclude l’opera al Capitolo XI :

“… 30. Con tutto l’animo aspiriamo dunque alla maestà stessa della eloquenza, che è senza dubbio il miglior dono che gli dei immortali abbiano dato agli uomini, e tale che senza di essa ogni cosa sarebbe muta, nulla sarebbe illuminato dalla luce nella vita e niente passerebbe alla memoria dei posteri; e non cessiamo mai di sforzarci di perfezionarla; così facendo giungeremo ai sommi fastigi dell’arte … “ [99] .

Dunque, una concezione dell’arte che, partendo da antichi mirabili modelli, possa non rinnegarli, ma perfezionarli ulteriormente .

NOTE :

[1] Di quest’opera, giuntaci completa, mi avvalgo in tre edizioni: la BUR (Milano, 2006) per i Libri dal I all’VIII (due volumi, con le traduzioni di Cesare Marco Calcante e Stefano Corsi, e l’ Introduzione di Michael Winterbottom), e la ZANICHELLI (Bologna, 1993) per i Libri dal X al XII (a cura e traduzione di Orazio Frilli). Mancandomi il solo Libro IX, a causa della pessima abitudine delle librerie di vendere tali opere a volumi singoli, invece che integralmente, così ciò che pure il tempo ha salvato, riesce poi di fatto parziale. Grazie tuttavia alle Biblioteche, e nel caso specifico a quella Civica di Codroipo (UD), ho potuto utilizzare il volume II, pagg. 230 - 385, dell’ ed. UTET (Torino, 1968) a cura di Rino Faranda, testo latino a fronte. Riguardo ad opere generali, rinvìo alla bibliografia riportata nel saggio 7° su Seneca .

[2] Com’è noto, Platone criticava fortemente la retorica, puramente stilistica e formale (ma sarebbe stato facile obiettargli che, quando tentava di risolvere grossi problemi come quello della conoscenza, lo faceva tramite miti di perfetto stile letterario, quali quello della “caverna” e della “biga alata”, e dunque artifici retorici), in nome della dialettica, sia di tipo socratico (maieutica), sia di tipo dimostrativo (confutazione mediante il principio di non-contraddizione oppure di verifica empirica, sistematica o sperimentale sui fenomeno naturali), ovvero una metodologia del tutto razionale, dialettica quindi schiettamente scientifica .

[3] Come ho, in questi Saggi ed altrove, ribadito, la retorica in sé e per sé ha solo poteri fascinatori, suscita interesse in chi legge o ascolta, ma in realtà non ha poteri di convinzione profonda, come già il Manzoni aveva sottolineato in uno spiritosissimo aneddoto sul giudice che finisce per dar ragione contemporaneamente a tre tesi contrapposte. Affascinare ed interessare sono utili, ma convincere richiede ben altro .

[4] Il processo, nell’antica Roma, prevedeva ben giudici, ma non pubblici ministeri: accusa e difesa erano, come nel procedimento civile, parti private. La figura dell’accusatore pubblico, magistrato a ciò incaricato ovvero pubblico ministero, talvolta giudice istruttore, nasce nel Basso Medioevo con il procedimento inquisitorio, tipico delle “Sante” Inquisizioni .

[5] Non dimentichiamo che in latino i termini “perfectus, perfectio”, ecc., non si riferiscono ad un’idea superlativa, bensì derivano dal verbo “perficio, -ere”, qualcosa di “compiuto, completo, compiere, completare”ecc., anche non nel senso di “ottimo” come superlativo assoluto. Quindi, l’oratore “perfetto” è colui che è completamente formato, con basi culturali, ampie, solide, approfondite, non il migliore di tutti, per il semplice motivo che vi sarà sempre uno più o meno buono, uno più o meno colto, e così via, evidentemente: se tutti fossero di uguale livello, chi potrebbe vincere o perdere una o più cause ?

[6] Cicerone è il modello stilistico per l’oratore di Quintiliano. Se sulla forte natura morale dell’uomo che esercita tale professione egli non differisce molto dal pensiero di Seneca, sul piano formale stilistico Quintiliano si oppone fortemente a tutto ciò che non segua la “concinnitas”, l’eleganza armoniosa dei discorsi di Cicerone, ovviamente dei testi scritti, rielaborati sempre dopo averli pronunciati. Dobbiamo supporre che anche Cicerone sia stato meno elegante e più conciso nell’improvvisazione totale o parziale: i discorsi che conosciamo sono sempre rielaborazioni successive, anche se non va ignorato che egli fu tra i primi ad adottare una forma di stenografia (tachigrafia = scrittura veloce), e quindi a conservare una traccia precisa di quanto effettivamente detto e, poi, di rielaborarla arricchendola non solo di eleganza, ma anche di aggressività contro l’avversario .

[7] Marco Fabio Quintiliano, “Institutiones Oratoriae”, ed. it. BUR, citata nella premessa, vol. I, pagg. 45 – 47 .

[8] ibidem, pag. 53 .

[9] ibidem, I. 1, pag. 55 .

[10] ibidem, IV. 4, pagg. 101 – 103 .

[11] ibidem, V. 5, pagg. 123 – 135 .

[12] ibidem, pagg. 203 – 205. Molto interessante sarebbe confrontare le mode del I secolo d. C. con quelle di oggi, il che richiederebbe spazio e tempo: tuttavia si può sottolineare che vi sono analogie ma anche molte dissomiglianze con i nostri tempi, dove recitazione, dizione, pronuncia, espressività ecc. sono molto trascurate. Senza ritornare al “fine dicitore”, satireggiato nella macchietta di Gastone da parte di Ettore Petrolini, non si può non osservare che perfino alla Radio RAI - ai tempi del “deprecato” Bernabei un centro di cultura e di educazione all’arte - ci si è adeguati al pessimo gusto (in tedesco Kitsch) delle radiotelevisioni di marca americana e, da noi, private. Tutto è divenuto barbaramente rozzo e volgare, dove dominano pubblicità spesso a livelli di demenza, talaltra di infantilismo; auto-esaltazioni, slogans, sigle “musicali” elettroniche fastidiose; interferenze con altre radio (anche per sollecitarti a comprare una nuova digital radio); discorsi pronunciati in modo isterico, con accento tra il partenopeo e il romanesco, con una miseria di lessico che fa pena, canzonette e canzonacce inframmezzate perché si considera la capacità di attenzione dell’ascoltatore bassa come quella di un bambino sotto i 6 anni: il tutto rimescolato a balbuzie provvisoria o stabile, in mezzo a risatine e risatelle, anche parlando di cose non solo serie, ma addirittura gravi e tragiche; si parla in contemporanea, si interrompe, ci si scavalca uno sull’altro. Se si vuole ascoltare musica (seria…), ti sommergono di vane chiacchiere; se si vuole sentire un discorso continuo ed approfondito, lo interrompono per le canzonacce. Perfino quando si tratta di comunicare un numero di telefono, questo viene pronunciato a tutta velocità, come se gli ascoltatori avessero la penna e carta pronte per scrivere: ora, se gli ascoltatori conoscono già il numero, a che serve dirlo ? E se non lo conoscono, di certo non farebbero in tempo a prenderne nota. In altri casi i toni sono leziosi, dolciastri, ipocritamente cordiali ed amichevoli, in un sottofondo di antagonismo (ti ordinano di seguire la stessa rete !).

Alla radio, dove tutta l’attenzione è concentrata sull’ascolto (non vi sono immagini che spostino l’attenzione su altri aspetti), questo viene reso torturante spesso in modo insopportabile, tanto da costringere a chiudere. E quanto ai contenuti ? Stucchevoli, ripetitivi, privi di argomentazione, fissi, ma con pretesa di risolvere in 30 minuti, interrotti da digressioni, risatelle e musichette, problemi vitali e complessi ! E ciò avviene in un servizio pubblico ! O tempora, o mores ! dovremmo ripetere con Cicerone…

[13] ibidem, pag. 231 e sgg. La musica rientra nel capitolo sull’esigenza di una cultura generale, non superficiale, per il futuro oratore .

[14] ibidem, Libro II, pagg. 345 – 349 .

[15] ibidem, pag. 351 .

[16] ibidem, pag. 355 .

[17] ibidem, pagg. 357 – 359 .

[18] ibidem, pag. 381 .

[19] ibidem, pagg. 383 – 419 .

[20] ibidem, pag. 419 .

[21] ibidem, pagg. 419 – 421. Qui appare assai interessante per un certo paragone tra il rètore senza scopo e un lanciatore di ceci entro la cruna di un ago, confronto che ricorda quello di Gesù a proposito di corde e di cammelli, e di ricchi che non entrano nel regno dei cieli. Infatti i filologi discutono se Quintiliano intendesse acum oppure orcam (vaso), per riuscire a gettare ceci da una certa distanza. Il commentatore (Stefano Corsi) nota che allora aghi e crune potevano avere varie dimensioni, ma relativamente ai ceci, più che un ago, sarebbe occorsa una fiocina o una lancia, per avere un foro adeguato al passaggio dei ceci: in realtà, potrebbe trattarsi di espressione metaforica per indicare un lavoro inutile, senza risultato, emblematicamente tipica di un mondo mediterraneo, esattamente come sarebbe vana la pretesa di un ricco, che non rinunci alle proprie ricchezze, di entrare nel Regno dei Cieli .

[22] ibidem, pag. 425. Aggiunge poi, contro una possibile obiezione, che il coraggio è certamente una virtù in sé, come anche la capacità di resistere alla tortura, ciò non toglie che queste virtù possano essere manifestate da delinquenti: l’azione quindi è lodevole, ma non lo scopo con cui è compiuta 

[23] ibidem, pagg. 427 - 429 . Qui si fa ulteriormente forte con un argomento di Cicerone, ove questo dice che non vi è argomento di cui non si possa parlare con stile retorico.

[24] ibidem, pag. 451 .

[25] L’opera di Quintiliano, troppo trascurata nella storia del Diritto romano, è importante anche per capire, almeno in relazione al I secolo d. C., come funzionassero tribunali e giudizi, ben più che testi di gran lunga successivi, quali quelli da Giustiniano fino all’intero Medioevo, che pure sono massimamente considerati ed utilizzati nella valutazione dell’intero Diritto romano .

[26] ibidem, Libro III, pag. 471 .

[27] ibidem, pagg. 581 – 583 .

[28] ibidem, Libro IV, Cap. I, pagg. 623 – 625 .

[29] Con i sistemi giudiziari moderni e con giudici professionalmente preparati e dipendenti dallo Stato, questo è ben più difficile. Al tempo di Quintiliano il giudice poteva essere un politico eletto (es.: i pretori) o anche un privato, quindi a maggior rischio di corruzione .

[30] ed. BUR, cit., vol. II, pag. 763. La prima tesi è sostenuta, secondo la nota 1, da Aristotele, che evidentemente era a favore di un’esposizione “scientifica”, ovvero ontologicamente determinata, degli eventi reali, senza sollecitazione di fattori psicologici .

[31] Ogni tanto, malgrado l’Illuminismo, malgrado Beccaria e predecessori, malgrado i giusti e santi divieti legislativi contro l’uso in tutti i casi di questa orribile procedura, non solo persistono simili orrori, ma perfino politici che ne reclamano, sia pure in forma “moderata” (!!!), la legittimità e la riadozione, solo per ottenere scorciatoie ad una presunta ricerca della verità dei fatti (come se la tortura potesse mai essere una scorciatoia nelle indagini). Si ignora completamente che già 1700 anni o più, prima di Beccaria, si era affrontato il tema dell’inutile crudeltà della tortura. Ne è un documento l’opera di Quintiliano, tutt’altro che semplice rètore ma anche, sulla scìa di pensatori greci, vero e proprio filosofo ed educatore del Diritto. Ecco quanto scrive sull’argomento al Capitolo IV del Libro V (ed. cit., vol. II, pag. 773) :

“1. Lo stesso [relativamente alle dicerie, calunnie, ecc.] vale anche per la tortura, fonte d’argomentazione usata molto frequentemente: c’è infatti chi la definisce come costrizione a confessare la verità, e chi, spesso, anche come causa di false deposizioni, poiché ad alcuni la capacità di sopportare il dolore renderebbe facile mentire, mentre ad altri la debolezza lo renderebbe necessario. Ma perché dilungarsi su simili questioni ? I discorsi degli antichi e dei moderni ne sono pieni. 2. … Se infatti verrà in discussione il ricorso alla tortura, moltissimo dipenderà da chi la richieda a chi, o da chi se ne incarichi, e contro chi e per quale ragione; se invece già se ne sarà fatto uso, conterà sapere chi vi abbia presieduto, chi l’abbia subita e secondo quali modalità, se abbia poi pronunciato rivelazioni credibili e coerenti fra loro, se sia rimasto sulle posizioni di partenza o abbia mutato qualcosa per effetto del dolore…”. Cfr. anche: Capitolo X, fine §70, vol. II, pag. 847 .

Ora, Quintiliano, da puro giurista, non approfondisce la questione sul piano etico, ma certamente fa ben capire che la verità dei fatti non si può ricavare da una sofferenza che alcuni possono reggere (per la presenza delle endorfine, come sappiamo oggi, oppure per forme di masochismo), altri invece no, e confessano delitti non compiuti solo per cessare il dolore subìto. Oggi, sappiamo che l’uso della tortura ha solo una motivazione sadica da parte di chi la fa applicare, o la applica, gusto per la sofferenza inferta ad altri .

[32] ed. e volume citati, pagg. 875 – 877 .

[33] ibidem, pagg. 915 – 919 .

[34] Libro VI, Prefazione, ibidem, pagg. 975 – 977 .

[35] ibidem, pag. 987 .

[36] ibidem, pag. 987 .

[37] ibidem, pag. 989 .

[38] ibidem, pag. 997 .

[39] ibidem, § 26, pag. 999 .

[40] ibidem, §§ 30 - 34, pagg. 999 - 1001. Anche i Greci, malgrado quanto detto prima, non erano alieni da simili trucchi: pensiamo all’etera Frine, di cui il difensore Iperide mostrò le nudità, per dimostrare come e perché gli uomini “impazzivano” per lei (secolo IV a. C., età alessandrina) .

[41] ibidem, pag. 1011 .

[42] Sui sentimenti, ibidem, pagg. 1013 – 1031. Al § 35 ricorda nuovamente l’identificazione dell’attore, come se fossero suoi, nel fatto e nel personaggio rappresentati .

[43] Va ricordato, a questo proposito, Umberto Eco che, nel romanzo “Il nome della rosa”, fa ruotare il giallo del monastero benedettino in un misterioso codice dell’opera perduta di Aristotele appunto sul riso e sul comico, codice che è mezzo d’attrazione dell’interesse di alcuni monaci, ma anche arma di delitto, perché le pagine sono avvelenate dal monaco bibliotecario, che così punisce questo interesse per lui peccaminoso .

[44] Ed. cit., Volume II, pagg. 1033 – 1035. Direi necessario qui fare alcune osservazioni, a proposito del ridere, sorridere, sogghignare, manifestazioni diverse sia per le modalità (satirica, ironica, sarcastica, insultante). Cicerone, soprattutto contro certi personaggi, Clodia o Marco Antonio, usò toni più che sarcastici, veramente insultanti. Non lo osò contro un Catilina, verso cui in più tarda età espresse addirittura forme di ammirazione e di apprezzamento. Certi punti delle “Filippiche” arrivano a una descrizione assolutamente volgare di Marco Antonio, rappresentato come un ubriacone senza controllo . Riguardo poi alla causa del riso, specialmente sguaiato, più che da raffinato spirito ironico o satirico, il grosso e grasso pubblico si diverte con le più basse e oscene volgarità. Ritornando a certi orrori della RAI, vecchi di oltre vent’anni, ricordo due personaggi, un noto presentatore ancora di moda e un guitto che passa tuttora per grande attore, che fecero ridere a squarciagola un pubblico di imbecilli toccando, o facendo finta di toccarli, i testicoli di chi li presentava (non li nomino per carità cristiana e di patria). Basti questo per vedere come siamo ricaduti ad un livello, che caratterizzò l’antico teatro classico, greco (prima della riforma di Menandro), italico (prima di Plauto e Terenzio), italiano (prima del Goldoni): incapacità di far ridere con battute raffinate, sia pure allusive, ma senza essere stupide, oscene, con smorfie esagerate, e tanto meno con gesti inqualificabili. Ma questo fu, ed è la RAI post-Bernabei, delle grandi “riforme” del decennio VIII e successivi del secolo XX .

In effetti, far ridere, sorridere e sogghignare non è facile: lo è spesso meno facile del suscitar commozione, ma non è una giustificazione per le brutture che, ad una persona intelligente (anche se non coltissima), suscitano ripugnanza e nausea .

[45] ibidem, pagg. 1035 – 1037 .

[46] ibidem, pagg. 1041 – 1043 .

[47] ibidem, pagg. 1043 – 1045 .

[48] ibidem, pag. 1047 .

[49] Cfr. Libro VII, Cap. II, § 34, pag. 1169 .

[50] ibidem, pag. 1241 .

[51] ibidem, pag. 1253 .

[52] ibidem, Libro VIII, Prefazione, pag. 1267 .

[53] ibidem, pagg. 1269 – 1271.

[54] ibidem, pag. 1273. A mio parere, una certa inflessione dialettale dell’oratore o dell’uomo pubblico (non negli attori) può anche essere piacevole, o comunque non disturbare, perché, anzi, dimostra la ricchezza e varietà linguistica e culturale del nostro popolo. Tuttavia, quando diventa pesante ed invasiva, dà evidente fastidio. Se pensiamo a certo “rrrromano de Rrrroma”, in uso ormai alla RAI - Radio e TV - all’abuso della particella pronominale “ci”, che in italiano significa o “a noi”, o “in questo luogo”, come se esistesse un verbo “c’avere”, sulla cui coniugazione si potrebbe fare pesante ironia, non si può non sentire un certo ribrezzo .

[55] ibidem, pag. 1369. Cfr. pure, alla medesima pagina, la nota 2 del Curatore.

[56] ibidem, pagg. 1377 – 1379 .

[57] Cfr. pagg. 1379 - 1412 .

[58] Come segnalato nella Nota 1, qui mi avvalgo dell’ed. UTET (1968), a cura di Rino Faranda, pagg. 231 - 385 .

[59] ed. UTET, cit., vol. II, pagg. 231 - 233. Ricordo qui che le parentesi quadre in carattere corsivo sono del Curatore – traduttore, da non confondere con le mie per le note, in carattere tondo .

[60] ibidem, pag. 239 .

[61] ibidem, pag. 247 .

[62] ibidem, pag. 331 .

[63] ibidem, pag. 333 .

[64] ibidem, pag. 333 .

[65] ibidem, pag. 335 .

[66] ibidem, pag. 347. “ O nata fortunata Roma, sotto me console !”, dice di sé Cicerone, per aver soffocato, con indubbia abilità poliziesca (ma scarsa legittimità), l’organizzazione insurrezionale di Catilina a Roma .

[67] ibidem, pag. 373 .

[68] Per quanto riguarda gli ultimi Libri, dal X al XII, come anticipato alla nota 1,

utilizzo l’edizione ZANICHELLI, a cura di Orazio Frilli, la cui traduzione - a mio parere - risulta la migliore tra le tre complessive che ho utilizzato. Ritengo personalmente che un’ottima traduzione è quella che concilia il più possibile il testo letterale con lo spirito che l’autore da tradurre voleva esprimere (già madame de Stael - la sottolineatura della “e” sostituisce la dieresi, che non so come rendere al computer, ovvero Anna figlia del celebre Necker - l’aveva sostenuto nei primi decenni del XIX secolo), e ciò si comprende non solo dal contesto espresso nel singolo periodo, ma anche nell’intera opera, in cui solo la lettura pressoché integrale può dimostrare l’intenzione complessiva dello stesso autore, soprattutto se alcuni passi possano apparire ambigui, per necessità o per ironia, o per altra forma retorica. Non sono piacevoli quelle traduzioni che, per eccessiva discrezionalità, superficialità, fretta imposta dall’editore o tendenza ad adattarsi a rozzi frasari attuali, vìolano sia la lettera, sia lo spirito originale dell’autore, oppure quelle che, sapendo anche bene la lingua da cui si traduce, si conosce male o si applica frettolosamente quella in cui si traduce. Essenziali sono le traduzioni, di ottima qualità, per approfondire il pensiero di scrittori antichi, o di lingue correnti straniere, perché non tutti i lettori conoscono tali lingue in modo veramente preciso oppure non le conoscono per nulla, ma vogliono comunque conoscere culture altrimenti ignote in lingue non comprese, né si potrebbe pretendere che ciascun lettore conosca tutte le lingue e dialetti esistenti in modo perfetto .

[69] Mi scuso se la mia traslitterazione dal greco al nostro alfabeto non è forse corretta, ma non sempre è facile esserlo .

[70] ed. ZANICHELLI, cit., vol. 5°, pagg. 5 – 7 .

[71] ibidem, pag. 19 .

[72 ] ibidem, pagg. 25 – 27 .

[73] ibidem, pag. 31 .

[74] ibidem, pag. 41. Alla nota 92 di pag. 369, il curatore Frilli pensa che ci si riferisca a Fabio Rustico, ma mi sembra che o il curatore, o io stesso equivochiamo, perché Cremuzio è un nome, Fabio un altro. Né Fabio Rustico pare aver poi avuto il successo, almeno come nome, che Quintiliano si sarebbe aspettato. Non è vero poi quanto scrivono diversi Autori (vedi anche Concetto Marchesi) che Tacito elogi questo Fabio Rustico: risulta sì che lo cita, ma non vi è alcun elogio nei suoi confronti. La mia opinione è confermata da quella di Rino Faranda che, alla nota 90 di pag. 425 dell’ed. UTET, II volume, identifica, senza dubbi, Cremuzio Cordo con lo scrittore condannato da Seiano, tramite il Senato, durante l’Impero di Tiberio. Secondo Svetonio ne salvò le opere, sia pur censurate, l’imperatore Caligola; secondo il Faranda, una figlia di Cremuzio ne aveva una copia, tale da poter poi ottenerne la ripubblicazione. Più che Tacito, è Svetonio a dare rilievo a Cremuzio Cordo .

[75] Non meravigliamoci per quello che potrebbe sembrare a noi servilismo, piaggeria, pedanteria pedagogica, un uso eccessivo della memoria, ma non va dimenticato che oggi abbiamo mezzi di registrazione del pensiero, allora del tutto inimmaginabili. A proposito della nota precedente (74), si racconta che, mentre bruciavano gli scritti di Cremuzio Cordo, un cittadino gridasse: “Gettate anche me tra le fiamme, perché conosco quelle opere a memoria !” . Non sappiamo però se lo presero sul serio, ma non era improbabile che allora lo studio mnemonico fosse stata una capacità diffusa, perché considerata necessaria. Quanto all’episodio di questo ammiratore di Aulo Cremuzio Cordo, non si trova negli “Annali” di Tacito (ma mancano vari Libri), né in Svetonio. Suppongo trattarsi di narrazione successiva in qualche Epitome .

[76] ibidem, pagg. 47 - 49 .

[77] ibidem, pagg. 59 - 61 .

[78] ibidem, pagg. 91 – 93 .

[79] ibidem, pagg. 93 – 95 .

[80] ibidem, pag. 97 .

[81] ibidem, pag. 109 .

[82] ibidem, pag. 113 .

[83] ibidem, pag. 119 .

[84] ibidem, pag. 129 .

[85] ibidem, § 84, pag. 143. Sarebbe qui da ricordare che già il “sofista” Gorgia di Leontini (V sec. a C), nel suo celebre “Encomio di Elena” troppo spesso ricordato, ma erroneamente, quale puro esercizio di retorica, condanna con estrema chiarezza - nella generale mentalità misogina, soprattutto in ambiente ellenico - la violenza carnale (cfr. III capoverso del discorso) .

[86] ibidem, pag. 171 .

[87] ibidem, pag. 173 .

[88] ibidem, pag. 179 .

[89] Chiariamo: oscurità è quella di colui che, per contorsionismo mentale, usa un linguaggio ambiguo, oppure non sa esprimersi e fa inutili e talvolta contraddittori giri di frase; complicazione è la composizione in parti diverse senza una funzione ben chiara, atta dunque a sviare (vedi il labirinto, che è complicato e non complesso). Profondo è il discorso di colui che supera l’apparenza esteriore dei fenomeni e si addentra nel tentativo di cogliere l’essenza e la causa di quei fenomeni che studia. Infine, complessità è la costituzione di parti (organi), ciascuna delle quali ha una precisa funzione in cooperazione con gli altri, ad esempio l’organismo vivente ed in specie quello del corpo umano. Un discorso complesso è quello di uno studioso che tenta di analizzare e sintetizzare una situazione di per sé complessa. Oggi si tende a complicare ed oscurare tutto, mai ad approfondirlo e ad analizzarlo ai fini di una coerente sintesi .

[90] ibidem, pag. 185 .

[91] ibidem, § 56, pag. 191 .

[92] ibidem, § 60, pag. 193 .

[93] ibidem, § 183, pag. 243. Il neretto, nella citazione, è mio .

[94] ibidem, pagg. 249 - 251 .

[95] ibidem, pag. 259 .

[96] Cfr. anche le pagg. 261 - 271 .

[97] Implicitamente, si riferirà a lui Giuseppe Mazzini, ritenendo che nell’educazione dei fanciulli, dei giovani ed anche degli adulti, la “virtù dell’esempio” prevalga su ogni affermazione propagandistica, di pura esaltazione: sulla virtù dell’esempio egli fonda l’ideale dell’Italia repubblicana, rispetto a quella antica, sia imperiale che medioevale e rinascimentale .

[98] ibidem, pag. 297 .

[99] ibidem, pag. 359 .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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