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LE FORME ESTETICHE DEL DIBATTITO FORENSE

IN QUINTILIANO

 

di Manlio Tummolo

 

 

Ottavo Saggio per una Storia delle Teorie Estetiche

(Bertiolo - Udine, febbraio - marzo 2020)

Parte terza

“ 1. Opposta [alla capacità di commuovere] è la capacità grazie alla quale, suscitando il riso del giudice, si dissolvono i sentimenti tristi… si distoglie l’animo… e talvolta lo si ravviva e lo si rinnova dalla noia e dalla fatica .

Quante difficoltà comporti lo insegnano persino i due oratori più grandi, uno principe dell’eloquenza greca, l’altro dell’eloquenza romana; 2. I più credono infatti che a Demostene ne sia mancata l‘attitudine, a Cicerone la misura. E non può sembrare che Demostene non abbia voluto far ricorso al riso: le sue pochissime arguzie, benché non all’altezza di tutte le sue altre qualità oratorie, dimostrano chiaramente come scherzare non gli dispiacesse, ma non gli venisse naturale. 3. Cicerone invece è stato ritenuto troppo amante del ridicolo, non solo fuori dai tribunali, ma anche nelle stesse orazioni .

In verità - che io giudichi rettamente o che mi inganni per troppa ammirazione verso quel grande oratore - secondo me in lui ci fu uno straordinario senso dello spirito. 4. Ricco di facezie era il suo parlare quotidiano, e più di chiunque altro ne infarcì dibattiti e interrogatori di testimoni… 5. E magari il suo liberto (o chi comunque ne pubblicò i tre libri relativi al riso [questo lavoro, citato da più autori, non ci è rimasto, a quel che so]…” [44] .

“ 6. Il ricorso al riso è molto problematico in primo luogo perché una frase spiritosa di solito è falsa, è volutamente deformata e per di più non arreca mai onore a chi ne è oggetto; inoltre, i giudizi degli uomini variano in merito a un fenomeno come l’umorismo, che si giudica non con criteri razionali, bensì sulla base di un moto dell’animo che temo indescrivibile. 7. Sebbene molti vi abbiano tentato, infatti, credo che nessuno spieghi in misura soddisfacente da dove nasce il riso… non viene suscitato da un solo motivo: si ride [ma non nello stesso modo] infatti di affermazioni e gesti non soltanto arguti e garbati, ma anche stupidi, rabbiosi o incerti…

Benché sembri poi reazione di poco conto e che spesso viene suscitata dai buffoni, dai mimi e persino dagli stolti, il riso ha tuttavia una forza - … - davvero incontrollabile e a cui è … impossibile opporsi. 9. Sovente si scoppia a ridere senza volerlo… con la sua potenza scuote il corpo intero…” [45] .

In effetti, Quintiliano rivela una finezza psicologica assolutamente rara ai suoi tempi, e passa poi a ricordare episodi e fatti per spiegare la complessità del fenomeno: il riso, si sa, è frequente tra i bambini, ma anche - talvolta senza ragione apparente - tra adulti ed “intellettuali”. E’ una prassi addirittura penosa perfino in trasmissioni che pretendono d’essere di divulgazione scientifica. In una nota trasmissione di Radio RAI 3, dalle 13 alle 13.45, c’è uno che commenta a suo modo musica e canto e la “spalla” non fa che ridacchiare a ripetizione, senza che se ne capisca il motivo (anche ammesso che si commentino stonature ed errori di esecuzione, che motivo c’è di riderne a ripetizione con belati penosi e stucchevoli ?).

Secondo il nostro Autore, riescono a far ridere anche persone ignoranti, ma – a mio parere – o per smorfie e gesti strampalati, o per volgarità e forme caricaturali. I bambini sono noti per ridere e far ridere facendo la baia ad un compagno loro vittima (cosiddetto bullismo). Quintiliano sottolinea anche la maggior qualità di chi sa replicare alle beffe o alle battute su di lui, usando il medesimo stile e tono, cioè senza – almeno apparentemente - offendersi, ma ripagando i deridenti con pari, o più raffinata, moneta .

E’ un’attitudine naturale quella di trovare spunti comici o di far battute spiritose

che sono più comuni nelle feste, negli incontri conviviali, piuttosto che nelle occasioni politiche, oppure nei dibattiti processuali. Distingue tra vari livelli o modalità di spirito, quale l’ urbanitas caratterizzata da una certa eleganza e da qualche erudizione; il venustum che rappresenta garbo, grazia; il salsum , ovvero il salace, che contiene una certa asprezza; infine il facetum, che implica decoro ed eleganza; lo iocus rappresenta lo scherzo (si dovrebbe intendere quello compiuto su qualcuno, o anche espressione scherzosa, benevola, verso qualcuno); la dicacitas è la causticità, quando si tratta di battute brucianti contro qualcuno. Quintiliano mi pare che non lo dica, ma secondo me il riso è ottimo quando tutti i presenti ridono, godendo insieme della situazione umoristica; meno buono è invece quel riso che è condiviso da molti su pochi o su uno, che, anche se non reagisce, di quelle risate soffre dentro di sé, perché in tal caso il riso non è prodotto da gioia e dal senso dello scherzo, ma è derisione [46].

“ 22. In ogni caso, specifico della materia… è il ridiculum (…), e perciò tutta questa dissertazione è intitolata dai Greci perì geloìou (‘sul ridicolo’). La sua divisione principale, secondo i trattati, è la stessa che vale per tutto il discorso: il ridicolo sta nelle cose e nelle parole. 23. Il suo utilizzo prevede soprattutto tre modalità: traiamo motivi per ridere, infatti, o dagli altri, o da noi stessi, o da elementi intermedi. I fatti altrui li biasimiamo, li respingiamo, li sminuiamo, li facciamo oggetto di repliche o di prese in giro. I nostri li raccontiamo scherzosamente, e, per usare un’espressione ciceroniana, su di noi diciamo delle assurdità. Del resto, le stesse frasi che, se sfuggono a sprovveduti, sono stupidaggini, a fingere di pronunciarle convinti vengono ritenute spiritose. 24. Il terzo genere… consiste nell’ingannare le aspettative, nel fraintendere delle battute…” [47] .

Quintiliano non si esime dal considerare le diverse occasioni in cui il riso può essere correttamente piacevole e quando, invece, non lo è: il riso è ottimo quando tutti i presenti ridono, godendo insieme della situazione umoristica; meno buono è invece quel riso che è condiviso da molti su pochi o su uno, che, anche se non reagisce, di quelle risate soffre dentro di sé, perché in tal caso il riso non è prodotto da gioia e dal senso dello scherzo, ma è derisione :

“… 28. E’ importante dove se ne fa uso. A tavola e nelle conversazioni di ogni giorno, le espressioni scherzose converranno alle persone di basso rango, quelle allegre a tutti. Vorremmo che non si giungesse mai a offendere; ben lungi sia anche il proposito di rinunciare a un amico piuttosto che a una battuta. E proprio nelle battaglie forensi preferirei che si potesse far uso di motti non aspri. Talvolta è consentito parlare in maniera offensiva e dura contro gli avversari, visto che è concesso di accusare anche apertamente e di chiedere con diritto la testa di un altro. Ma pure in casi simili, di solito sembra inumano schernire la sorte altrui, o perché non c’è responsabilità, o perché lo scherno può ritorcersi proprio contro chi l’ha lanciato. Bisogna … considerare chi parla, in quale causa, a quali giudici, contro chi e dicendo che cosa…” [48] .

L’Autore sconsiglia chiaramente all’oratore forense di comportarsi come un guitto o un istrione per far ridere il pubblico o i giudici, ovvero smorfie, gesti, pantomime, mordacità scurrile ed oscenità; l’oratore dev’essere piuttosto naturalmente urbano, non dimostrarsi artefatto e stucchevole nel discorso. Nelle cause penali più atroci non si deve essere scherzosi, come pure in situazioni compassionevoli. Fa seguire poi svariati esempi che ritengo qui superfluo riportare, anche per non appesantire il testo .

I successivi capitoli trattano del dibattito dal punto di vista tecnico giudiziario per cui procedo oltre.

 

DAL LIBRO VII

Questo è destinato alla disposizione, ovvero all’ordine del dibattimento e del discorso di ciascun avvocato, il che riguarda ancora temi strettamente tecnici, coinvolgendo aspetti legislativi, reati, procedure, il che, secondo l’impostazione assunta, è fuori tema. Cito, tuttavia, dal Capitolo II, questa considerazione, perché si ricollega alla sopra riportata necessità di un certo grado di rispetto nei confronti della controparte :

“… 34. … è preferibile astenersi dal criticare la vita passata dell’accusato piuttosto che attaccarlo con accuse irrilevanti o sciocche o palesemente false, perché questo toglie credibilità al resto; e se l’avvocato non rivolge critiche, si può credere che le abbia tralasciate come superflue; accumulare invece critiche infondate significa ammettere di avere come solo argomento la vita passata e aver preferito essere sconfitto… che tacere…. “ [49] .

Sembra, a volte, che Quintiliano si contraddica sul metodo da usare nel dibattito; da un lato incoraggia una certa combattività nell’oratore forense, dall’altro sostiene di limitarla: la contraddizione si scioglie ritenendo che la combattività può diventare aggressiva e anche irrispettosa, se la parte avversa non segue queste regole, per cui l’aggressività altrui verso di noi giustifica la nostra aggressività verso l’opposto; ma se le regole vengono reciprocamente rispettate, devono essere rispettati spontaneamente i limiti della correttezza. Il dibattito in sostanza devono vertere sui fatti, sui princìpi, sulle leggi, e non su questioni personali, neppure per quanto si può del medesimo imputato, oltre che del suo difensore. Questi concetti verranno poi ribaditi nel Libro XII, finale, dove vengono compendiati gli aspetti trattati nell’opera.

D’un certo interesse, se non altro semeiotico, è il Capitolo IX sull’anfibologia o ambiguità, non tanto per la pura questione linguistica grammaticale, quanto per i giochi di parole che si possono fare, cita ad esempio il verso :

“Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse”, verso che si trova negli “Annali” di Ennio: questo verso può essere inteso in due modi opposti, ovvero “Dico, o Eacide, che tu puoi vincere i Romani” oppure “Dico, o Eacide, che i Romani possono vincerti” [50]: la presenza di due accusativi e di due infiniti può creare l’ambiguità del senso. Cita poi ancora altri esempi, quasi tutti di natura poetica. Nel Capitolo X, nella sezione dedicata all’importanza della disposizione, torna ancora su quelle che devono essere le caratteristiche di un oratore professionista (sia forense che politico, in questo caso), ovvero le doti naturali, la preparazione, l’applicazione: per questo occorre passare notti insonni :

“ … 14… ciascuno deve crearsi la propria capacità oratoria, la propria esperienza, il proprio metodo; non deve guardarsi attorno per cercare tutto questo, ma deve averlo a portata di mano, e non come se gli fosse stato insegnato, ma come se fosse innato. 15. Perché si può mostrare la via, ma ciascuno ha la sua velocità; tuttavia l’arte dà abbastanza se mette a disposizione tutti i mezzi dell’eloquenza, è nostro compito saperli utilizzare…” [51] .

DAL LIBRO VIII

Nella Prefazione, dedica una sezione alla “Qualità dello stile”. Si osserva intanto che, secondo Marco Antonio (non il rivale di Augusto, e nemico personale di Cicerone, ma suo zio o nonno, morto comunque prima della nascita del triumviro) celebre oratore, manca una vera eloquenza, anche in lui stesso. Pure per Cicerone, l’eloquenza era elemento caratterizzante. Secondo il nostro Autore, va ribadita la natura spontanea, non artefatta (ecco perché sono essenziali le doti naturali), e va ribadita pure la “virilità”, nel senso di forza, energia, del discorso, che non sia molle, flaccido, debole (torna all’esempio già visto degli effeminati dei suoi tempi). Bisogna pure adoperare un linguaggio chiaro e adatto ai nostri tempi, come consigliava lo stesso Cicerone, il quale : “… 25… aveva stabilito con sufficiente chiarezza la norma che nel parlare il difetto peggiore in assoluto è allontanarsi dal linguaggio corrente e dall’uso approvato dal senso comune…” [52]

Didattica ed apprendimento non devono quindi mirare ad un’artificiosità del discorso, anche se professionalmente inteso, ma alla sua naturalezza, alla coerenza con il carattere singolo di ciascun oratore, con un’impostazione scelta da lui stesso, non da altri, ovvero nulla di semplicemente copiato. Inoltre necessita chiarezza del discorso, non frasi contorte, allusive , tratte - dice Quintiliano - dai poeti più degenerati (anche allora ve ne erano! Nihil sub sole novi…). Soprattutto l’oratore forense deve farsi capire, nell’interesse del patrocinato, dai giudici, e aggiunge :

“… 31. Ma in questa stessa preoccupazione c’è un limite: infatti quando le parole sono in un Latino corretto, pregnanti, eleganti, opportunamente collocate, perché dovremmo fare uno sforzo ulteriore ? Certi oratori però non sanno porre alcun limite all’autocritica…, e anche quando hanno trovato le parole migliori cercano qualcosa che sia più antico, remoto dall’uso… e non comprendono che nel discorso in cui si lodano le parole, il senso è fiacco. 32. Dunque prendiamoci cura dello stile il più possibile, purché siamo consapevoli che nulla deve essere fatto per amore delle parole, … quelle più degne di approvazione sono quelle che esprimono meglio il nostro pensiero…” [53] .

Non siamo qui lontani dalla lezione di Seneca: essere consapevoli della cosa di cui parlare, averne un concetto preciso, le parole vi si devono adeguare, non il contrario. Ghirigori verbali e vuote perifrasi non solo peggiorano il contenuto, ma lo imbruttiscono. Nei successivi Capitoli approfondisce le singole tematiche della questione. Interessante segnalare, ad esempio, al Capitolo I che egli esprime l’esigenza di una buona dizione e ricorda come Asinio Pollione rimproverasse Tito Livio per la sua patavinitas, un’espressività che oggi diremmo “veneta”, evidentemente non per la pronuncia, ma per certi modi di dire dialettali. Così Quintiliano consiglia :

“… 3. … tutto il vocabolario e la pronuncia rivelino che l’oratore è stato allevato [culturalmente] a Roma, in modo da dare l’impressione che il suo linguaggio sia assolutamente romano, e non che abbia ricevuto la cittadinanza “. Dunque un certo purismo letterario sia nell’espressione scritta, sia in quella orale, e il nostro Autore (come la famiglia di Seneca, colono romano o italico in Spagna) ci tiene a non far distinguere i suoi allievi extra-romani da quelli nati proprio a Roma [54] . Segue dunque il Capitolo II sulla chiarezza, che riguarda anche la funzionalità di ciascuna frase, onde non sia né troppo concisa, né con abuso di termini. Il III sull’ornamento, non molle e non femmineo, ma con espressione virile, e con un uso adeguato dei termini, relativamente alle situazioni descritte. Cita a questo proposito versi di Virgilio, di Orazio, o frasi di Cicerone, poi si dilunga su singole questioni che diremmo, più che estetiche, formalisticamente retoriche (intendo dire che l’uso di forme retoriche può riguardare, in modo spontaneo o voluto, l’estetica di una prosa o di una poesia; non è estetica, ma puramente formalista, la nuda classificazione di queste forme con precise denominazioni, astratte come esercizi matematici).

Il Capitolo VI, in cui si occupa dei tropi , viene introdotto dalla seguente definizione : “1. Il tropo è un mutamento qualitativamente positivo di una parola o di un’espressione dal significato proprio a un diverso significato. A questo proposito sia i grammatici tra di loro che i filosofi hanno in corso una interminabile disputa relativa ai generi dei tropi… alla loro classificazione. 2. … passeremo in rassegna i tropi più importanti e accolti nell’uso, accontentandoci di osservare… che certi sono impiegati per veicolare un significato, certi per ornare il discorso…” [55].

Tra i tropi, egli considera essenzialmente la metafora, come traslato, usata - dice Quintiliano - anche da gente ignorante, allo scopo di abbellire il proprio discorso e cita Cicerone, per l’oratoria, Virgilio per la poesia; meno, frammenti di altri autori (alcuni oggi per noi ignoti). Riguardo alla qualità della metafora, citando il suo modello preferito, il nostro Autore sostiene :

“ … 15. …. Cicerone mostra in modo eccellente che bisogna badare che la metafora non sia volgare… 16. O che sia troppo forte o… troppo debole, e priva di analogia…

Ma anche l’abbondanza eccessiva è un difetto, soprattutto se le metafore sono della stessa specie…

17. … Un grandissimo errore è insito nel pensare che si adattino anche alla prosa le metafore concesse ai poeti, che fanno del diletto l’unica misura di riferimento… [o] per esigenze metriche…” [56] .

Sconsiglia, dunque, nel dibattito forense, metafore come quella di Omero del re come “pastore del popolo”, oppure di Virgilio come in “nuotare nell’aria”. Tratta poi della sineddoche, per dare varietà allo stile, della metonimia o ipallage, dell’antonomasia, dell’onomatopea, ecc., ma qui siamo alle pure denominazioni, brevemente esemplificate [57]. Con ciò si conclude il Libro VIII .

 

DAL LIBRO IX [58]

Qui l’Autore comincia, al Capitolo I, con la distinzione tra le figure retoriche e i tropi, trattati nel Libro precedente. In effetti, però, sottolinea che alcuni rètori non fanno questa distinzione, per cui il § 4 è destinato a chiarire la sua posizione :

“… [4] Perciò occorre rilevare meglio la differenza degli uni e delle altre. Il tròpos, dunque, è una parola, il cui significato è stato trasferito da quello naturale e pregnante ad altro, al fine di abbellire il discorso o, come definisce la maggior parte dei grammatici, è un’espressione, traslata dal significato proprio a altro improprio: la figura, come si può intendere chiaramente dal nome stesso, è, per così dire, una figurazione del discorso, lontana dalle espressioni ordinarie e spontanee… [7]… una 2figura si può realizzare con parole proprie e collocate nell’ordine naturale… [9]…

Nondimeno, è da rilevare come, e il tròpos e la figura, vengano coincidere nei medesimi concetti: ché il discorso viene figurato con parole tanto proprie che traslate “ [59] .

Seguono ulteriormente disquisizioni ed osservazioni di natura strettamente retorica, che, come detto, desidero trascurare, anche per non sovraccaricare il presente Saggio di questioni non propriamente estetiche, ma di natura puramente formale e tassonomica. Procedo quindi al § 21, dove si rivolge agli effetti emotivi che l’uso di determinate figure (ma anche dalle espressioni del viso di un oratore o attore) possono essere trasmessi al pubblico :

“ … Ma la figura contribuisce moltissimo a procurarci simpatia o col rendere gradita la personalità di chi fa la causa o per conciliare favore al processo o per sollevare dalla noia con la varietà o per indicare taluni concetti con più eleganza o sicurezza… “ [60] .

Specifica più avanti che l’adirarsi, il dolersi, il provar compassione, il disprezzare, ecc. non sono figure retoriche, ma semplicemente atteggiamenti o emozioni. Cita poi, per più pagine, brani di Cicerone dal “De Oratore” sull’argomento. Nel Capitolo II, affronta le “Figure di pensiero”:

“[2, 1] ... Perché ho intenzione di trattare quelle figure di pensiero, che si allontanano dalla maniera di esprimere i concetti senza alcuna pretesa, il che so essere piaciuto a molte dottissime persone. [2] Nondimeno, le eleganze tutte, anche quelle di altra specie, sono pregi dell’eloquenza tali, che in loro assenza non si può davvero parlare di orazione…” [61].

Quintiliano poi sottolinea quanto siano necessarie certe procedure del discorso forense e certe modalità espressive, come per lo sdegno, l’esecrazione, ed altro. È pure necessaria la ripetizione per consolidare nei giudici e nel pubblico la consapevolezza dei problemi di fatto nel processo. Cita a questo proposito versi di Virgilio e frasi di Cicerone, a scopo di esemplificazione sulla dissimulazione ironica, sull’anticipazione, sul dubbio (come domanda retorica), sulla simulazione (fingere sentimenti), sull’invocazione, sulle prosopopee (discorsi immaginari, specie di entità collettive, o astratte), sulle ipotiposi (viva rappresentazione di fatti come se vissuti direttamente). Siamo sempre davanti a qualcosa, la cui esteticità o arte del bello, non dipende tanto dalla classificazione, ma dal modo con cui un autore o poeta sa rendere affascinante ciò che descrive. Come sosteneva Cicerone per la grammatica, occorre saper usare le regole della retorica in modo ragionevole, corretto e proporzionale, senza necessità di ricordare a memoria le denominazioni di ciascuna figura e di ciascun tropo.

Il terzo Capitolo espone le figure retoriche, che non sembrano differire da quelle del Capitolo II, ma - secondo Quintiliano – quelle retoriche subiscono cambiamenti (c’è una moda nella retorica ?). La differenza riguarderebbe un linguaggio moderno, rispetto alle forme più antiche dello stesso. Segue poi un’ulteriore analisi di queste figure, che, malgrado citazioni varie di Virgilio, Orazio, Catullo, tuttavia non dimostra un interesse specificamente estetico, ma soprattutto come discorso processuale, al fine di convincere. Conclude il Capitolo III con le seguenti considerazioni:

“… [100] Quanto a me, anche per le figure vere aggiungerò brevemente che. come esse, qualora usate opportunamente, abbelliscono il discorso, così sono davvero insulse, quando si voglia impiegarle a tutti i costi [artificiosamente]. Ci sono alcuni che, senza essersi dati pensiero del peso dei fatti e della forza dei concetti, se hanno guastato anche le parole di poco conto per farle diventare figure, si credono degli artisti della parola e perciò non cessano d’intrecciar figure: ma il guaio è che andarne in cerca senza darsi cura della sostanza è tanto ridicolo, quanto cercare di dar vita e movimento a un manichino. [101] Non bisogna, però, nemmeno accumulare troppo quelle usate efficacemente: perché nell’azione molto valgono il mutar l’atteggiamento del viso e la direzione dello sguardo: ma se uno non smettesse di far assumere al volto delle mosse studiate e di far tremolare fronte e occhi, finirebbe per suscitare il riso. Anche il discorso ha … un aspetto diritto, che, come non dovrà essere immobile quasi fosse istupidito, così dev’essere contenuto nei limiti della naturalezza…” [62] .

Naturalezza: ecco la chiave di volta di ogni discorso estetico: Quintiliano irride alle pose artefatte, a certi atteggiamenti da “duro” cinematografico o da istrione circense, di un celebre personaggio che dominò la politica italiana dal 1922 al 1943; ma altri, anche peggiori, si comportano - nei decenni a noi più vicini - con pose stereotipate. In ogni momento, chi parla deve saper cosa fare e come comportarsi,

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