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Silvio Benco librettista


a cura di Paola Zelco

 

 

 

“Con animo riconoscente ricordo la considerazione e l’appoggio prestatomi da grandi artisti, e fra questi Silvio Benco, che per le sue meravigliose attitudini di poeta scrivendo per me la Falena, Oceana, Abisso e Morte dell’usignolo, che per dolorose circostanze non ho potuto completare, mi diede modo di spaziare sopra un terreno senza dubbio più alto di quello al quale si informava il teatro lirico italiano – ciò forse con isvantaggio di entrambi.” (Dal testamento di Antonio Smareglia – 18 gennaio 1923)

 

 

 

Il libretto d’opera è un genere poetico che richiede la straordinaria capacità di saper collaborare con il compositore. Il poeta del testo drammatico deve possedere una grande sensibilità attenta alla parola scenica e al componimento musicale.

La dote di un libretto deve essere in primo luogo la musicabilità, i versi di un libretto devono essere consapevoli di dover essere messi in musica.

Questa era l’opinione di Silvio Benco.

L’entusiasmo di Smareglia per i libretti di Benco era dovuto proprio alla loro linea poetica in cui tutto tendeva alla musica e ciò si armonizzava pienamente con le aspirazioni del sinfonismo di Smareglia.

 

Ma andiamo con ordine.

 

Silvio Benco è stato uno dei rappresentanti più nobili del giornalismo italiano ed eclettica figura culturale di spicco, romanziere, poeta, storico, saggista, traduttore e grande critico d'arte, letterario e musicale.

Era nato a Trieste nel 1874 e dal padre Giovanni, giurista e studioso, gli venne imposto il nome di Enea Silvio, in onore dell'umanista Piccolomini, vescovo di Trieste, divenuto poi Papa Pio II.

Nel 1890 iniziò giovanissimo l'attività di giornalista dapprima al quotidiano l’ 'Indipendente’, poi dal 1903 al ‘Piccolo’ di Trieste, quotidiano di cui diverrà direttore nel 1943. Collaborò anche con ‘Il Resto del Carlino’, il ‘Secolo’ , la ‘Stampa’, il ‘Corriere della Sera’, il ‘Messaggero’ e a numerose prestigiose riviste tra cui ‘Il Ventesimo’, ‘Pegaso’, ‘La Fiera Letteraria’ nonchè ‘Umana’, di cui fu il fondatore.

Accanto al giornalismo coltivò il lavoro di saggista e di storico (da ricordare la sua opera di rievocazione della fine del dominio asburgico ‘Gli ultimi anni della dominazione austriaca a Trieste’ pubblicata nel 1919) ma soprattutto la creazione narrativa.

D'Annunzio che gli fu amico si prodigò presso le edizioni Treves per far pubblicare i suoi primi due romanzi “La fiamma fredda”, che uscì nel 1903 e "Il castello dei desideri” nel 1906.

Tutta l'opera di Silvio Benco dagli esordi sino alla “Contemplazione del disordine”- un'esemplare meditazione storica sul secondo conflitto mondiale e sull'incerto destino di Trieste, pubblicata nel 1946 - e' stata oggetto di studi critici autorevolissimi (tra cui quelli di Vittorini e di Montale).

La vita di Benco fu spesso segnata dalla sofferenza: sin dall'adolescenza si manifestarono i sintomi di una osteomielite che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e costretto a frequenti degenze in ospedale e ad interventi chirurgici. Durante la prima guerra mondiale fu costretto al confino a Linz fino al 1918 e durante il secondo conflitto mondiale nel 1943 sarà costretto a dimettersi dall'incarico di direttore del ‘Piccolo’ e ad abbandonare il giornale a seguito di violenze e minacce di morte. Nell'ultimo periodo della sua vita venne colpito da un male incurabile contro il quale dovette lottare per molti anni con gravi sofferenze, pur continuando a lavorare instancabilmente fino all’istante in cui la morte lo colse a Turriaco il 9 marzo 1949.

 

Gli interessi musicali in Benco si manifestarono sin dalla prima giovinezza: si dedicò molto presto allo studio, seppur irregolare, del violino e iniziò a pubblicare le sue prime critiche musicali a partire dal 1890, dapprima sulla ‘Rivista Musicale Illustrata’ e in seguito sull’ ‘Indipendente’ e altre pubblicazioni.

 

La musica è presente e protagonista, anche in alcuni dei suoi romanzi, in specialmodo in “Nell'atmosfera del sole”, pubblicato nel 1921. Gli scritti musicali più significativi di Silvio Benco, apparsi su vari quotidiani e riviste, sono stati riuniti e ripubblicati in una antologia uscita nel 1974 a cura di Gianni Gori e Isabella Gallo.(1)

Di estrema importanza sono i contributi critici di Benco sull'opera wagneriana e naturalmente su quella smaregliana sulla quale darà l'apporto essenziale con i “Ricordi di Antonio Smareglia” pubblicato postumo nel 1968, un libro - come dirà Vito Levi - “pieno di bontà e saggezza” che ci dà il ritratto più umanamente vero del Maestro Istriano”, in cui “tutto è detto pacatamente, anche là dove sono ricordati i casi tragici del musicista, l'atteggiamento malevolo riservatogli da buona parte della società di allora; quanto a dire l'eterna guerricciola con cui i mediocri cercano di rivalersi dell'uomo superiore. Di che Benco, “l’inseparabile compagno di navigazione” del musicista, ebbe pure a fare un tantino di esperienza.” (2)

 

L’incontro con Smareglia fu particolarmente significativo per la vita di Benco: non solo inizio di una collaborazione artistica tra poeta e musicista ma soprattutto origine di una comunione spirituale protrattasi per tutta la vita e contraddistinta da grande umanità e profonda ammirazione reciproca.

Nel 1895 Benco scrive il primo libretto per Smareglia “La Falena”, rappresentata al Teatro "Rossini" di Venezia il 6 settembre 1897. Nel 1898 inizia la stesura del libretto di "Oceana", rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano il 20 gennaio 1903, diretta da Arturo Toscanini. Il terzo e ultimo libretto per Smareglia. “Abisso” vide la luce nel 1906.

I tre libretti per le opere di Smareglia non furono gli unici testi drammatico-musicali di Benco. Per Smareglia scrisse anche il libretto "La morte dell'usignolo", libretto di cui non si è ritrovato il testo, e la cui partitura, lasciata incompiuta dal compositore, è andata perduta. Il libretto sarà poi musicato successivamente dal M.o Gastone de Zuccoli, cugino della moglie di Benco, per il quale Benco aveva scritto anche ‘Il Lago’ , ma entrambe le opere non verranno pubblicate.

Sempre per Smareglia, Benco iniziò a scrivere anche il libretto ‘La leggenda del Tricorno’, tratto dallo “Zlatorog” di Rudolf Baumbach, che lasciò però insoddisfatto il compositore che preferì musicare la favola mitica “Oceana”.

Dal legame di amicizia con Gian Francesco Malipiero nascono anche i libretti "Elen e Fuldano" (1907) e "Canossa" (1911), scritti da Benco, ma dei quali sembra non sia rimasta alcuna traccia dopo la distruzione delle partiture ad opera del compositore.

 

Testo fondamentale dell'estetica musicale di Benco è "Musica e Nostalgia", titolo di una conferenza tenuta nel 1903 alla Società Minerva. Benco delinea la sensibilita' del suo mondo creativo che non rimane estraneo ai fermenti culturali dell'epoca: il movimento simbolista con la sua dimensione mitica, magica e incantatoria, la polemica contro il naturalismo, l'intuizionismo di Bergson, l'aspirazione wagneriana alla fusione delle arti, e da ultimo le teorie freudiane.

Benco si armonizza alle idealità rappresentate dalla cultura di fine secolo (soprattutto da autori quali lbsen e Maeterlinck, Baudelaire, Verlaine e Mallarmè), ma rimane nel contempo estremamente indipendente e critico nei confronti della produzione artistica del suo tempo.

Benco prevedeva che l'opera di Richard Strauss avrebbe avuto vita breve. Vedeva in Richard Strauss il caposcuola di una tendenza musicale moderna caratterizzata da organicità e tecnica, ma priva di afflato spirituale, priva della bergsoniana ‘Anima della Realta’, una musica essenzialmente cerebrale, in cui l'artista si compiace dell'effimero e nella quale i valori della Grande Arte - concretizzati nella musica di Beethoven, di cui Benco ci parla quale musica “mai...pensata con un fine mortale o formale” (3) - sono irrimediabilmente perduti.

Leggiamo quanto dice a questo proposito:

 

"La moderna tendenza musicale - e per non riuscire oscuro metto subito il nome del suo capo, Riccardo Strauss - si organizza tecnicamente, come si organizzavano a loro modo i grandi contrappuntisti del passato, ma spiritualmente si disorgana e perde la nozione degli stati d’animo nei quali la musica è chiamata a riempire il vuoto del mondo... Quelli che si danno a scrivere musica non hanno più una grandiosa anima, che cerchi intonare la propria eloquenza al soffio che viene dall’Infinito; ma hanno un'anima angusta e mingherlina, sovraccarica di scienza frivola della vita, socraccarica di piccole idee letterarie e pittoriche, sorseggiate qua e là bevendo il caffè in qualche ritrovo delle arti gemelle o disputando dei capricci delle donne; hanno quel bisogno fatale, proprio della nostra generazione e delle nostre antiche stirpi, di far vedere che non si crede a grandi cose, che si gioca, che si coltiva l’arte per un dilettantismo raffinato, che non si sa godere, se non senza entusiasmo, o con l’entusiasmo gradasso e tronfio degli ebbri, che non si sa soffrire se non vi sia nel dolore lo spunto incoerente e satanico della follia. L'ambizione non si limita più ad essere uomini grandi nelle tre forme di grandezza che conosce la vita psichica: negli affetti, nelle visioni di sogno, nella resistenza all'idea della morte; l’ambizione prediletta è quella di mostrarsi uomini superiori, nel senso di non lasciarsi ingannare da alcuna illusione, di controllare esattamente la meccanica dei propri affetti, dei propri sogni, delle proprie lotte cerebrali, e di saper dissertare con spavalderia e civettare con eleganza su ognuno di tal turbamenti che pigli l’inconseguente femmina interna che è l’anima umana. Che cosa può dare la musica, presa come esponente di questa concezione della vita che discompone l’unità vasta delle aspirazioni umane?"(4)

 

La concezione musicale è segnata in Benco da una idealità legata al misticismo che è già presente in molta opera tedesca ottocentesca e che si ricollega anche alla mitologia simbolica (pare a tale proposito che Benco avesse avuto interesse per gli scritti di Swedenborg). L'arte nel suo ruolo conoscitivo è per Benco collegata al misticismo e la musica, “l’amore del suono”, è e rimane una aspirazione all'Assoluto, non certo una effimera o artificiale fuga dalla realtà:

 

“...I grandi musicisti non hanno scritto soltanto accordi di note, ma hanno scritto accordi di interpreti. E’ condizione essenziale in chi li ama che una parte della natura umana sia sacrificata, quella parte che spinge ai rancori, agli alterchi, alle antipatie mute ed acri, e che resti soltanto dell'uomo quella parte che può fondersi con gli altri uomini nell'armonia d’amore e di volontà necessaria all’armonia musicale.

Questo l’ambiente psicologico nel quale vivono incoscienti e inconsciamente felici i sudditi dell’orecchio.

Come una parte della natura umana è repressa, così è obliato molto di questo mondo, di tutto quello che in questo mondo è più malvagio, più irritante e più sconsolante…

I virtuosi, i celebri concertisti con aureola, i semidei della tastiera e dell’ugola e i semidiavoli della quarta corda, sono quelli che forse meno amano la musica, poiché nella loro vita di esibizione l’amore di lor medesimi sopraffà facilmente l’amore del suono”(5)

 

Silvio Benco può essere considerato un precursore nell’ambito del libretto d’opera italiano perché scrisse libretti creativi, attinse alla fiaba e alla leggenda, alla dimensione mitica, al sogno e al soprannaturale.

“Non ho scelto la leggenda – o più propriamente il Maerchen tedesco – per la leggenda, ma per la Falena. Era una visione che mi passava in mente, musicalissima per una musica irrequieta e bizzarra: visione che entrando nel dramma vi divenne come un simbolo pittorico della Notte e della sua azione perturbatrice – mediante il senso dell’ignoto e l’angoscia – su le semplici ed esaltate creature umane.”(6)

 

Benco sceglie per il libretto di “Falena” la dimensione della leggenda dai contorni storici e geografici volutamente indistinti, relegati nel mito e nelle scarne indicazioni dell’Autore che colloca la vicenda “nei primi tempi cristiani sopra una costa europea dell’Atlantico”.

Nella vicenda si contrappongono i due archetipi di Luce e Tenebra: il buon re Stellio (identificato nella stella, nella luce) che regna con bontà ispirata ai dettami cristici, e la Falena, creatura tenebrosa, regina dell’oscurità, che porta gli uomini alla distruzione e alla morte.

Nell’eterno contrasto tra essere umano e entità extraumane una forza di separazione e divisione allontana l’uomo dalla sua vera natura, divide il suo animo e indebolisce la sua volontà.

Come ci fa notare Benco stesso l’aspetto tragico del dramma è la ‘volontà vacillante dell’uomo’:

“(…) ho voluto evocare (…) una di quelle fatalità indistinte che ingrandiscono l’uomo oltre la sua ragione e lo portano allo stato particolarmente tragico della volontà vacillante finché si ritrovi precipitato in fondo alla frenesia dionisiaca dei baccanali, dove si ama e si brama con lo stesso disordine di affetti...”(7)

La Falena con il suo sguardo magnetico rapisce nel sonno l’anima del re, contempla la sua metamorfosi e lo spinge con un incantesimo ai più efferati delitti ma il suo potere svanisce all’alba. Gli effetti dell’incantesimo abbandonano il re che ora guarda con orrore e tormento le sue mani insanguinate. Ma la sua anima è salva: il finale dell’opera con il sacrificio della vita della donna da lui amata, gli restituisce l’anima e gli ottiene la cessazione della pena.

 

Per il percorso creativo del libretto di ‘Oceana’ , Benco dà delle indicazioni precise. Nei ‘Ricordi’si legge:

“Per me Oceana è nata dal ‘Sogno di una notte di mezza estate’, dalla pittura di Boeckling, dal mirable coro dell'Ifigenia di Goethe “Es fuerchte die Goetter - Das Menschengeschlecht”… Tali e non altre suggestioni frullavano nella mia testa mentre componevo quella commedia: e ancora una volta feci quanto potei” (8)

Anch'essa è una favola, posta nell'alveo onirico e mitico del mare, un sogno, una commedia fantastica venata da una profonda sensibilità nordica. Tra tutte le opere di Smareglia Oceana fu quella che D'Annunzio amò in modo speciale:

“...alle prove di Oceana alla Scala intervenne anche Gabriele D'Annunzio che parlò con Smareglia e si intrattenne con lui e gli parlò di Vincent d'lndy e della Schola Cantorum e gli dimostrò simpatia che si confermò nei giorni di Fiume. La musica di Oceana entusiasmò D'Annunzio. … Parlò con fervore dell' “incantevole tessuto di suoni” e disse: “Non potrei vivere senza riudire Oceana!”

… Toscanini diceva d'Oceana: “c’è troppa musica, sempre troppa musica” e aveva ragione dal punto di vista teatrale: Smareglia nelle sue tenebre aveva immaginato le dimensioni del palcoscenico molto maggiori dal reale e la sufficienza diveniva sovrabbondanza.

Attratto dall'elemento descrittivo dell’opera lo faceva predominare in lunghi sviluppi sinfonici. Essi erano bensì di ammaliante bellezza, ma subordinavano l’azione della commedia”… L’opera era un incanto ma aveva i suoi pericoli. Esigeva un pubblico che non si sentisse schiavo delle proprie abitudini, ma compenetrato dalla natura del musicista, un pubblico capace di abbandonarsi con voluttà alla concezione armonica essenziale, di entrare nel sogno che egli aveva sognato”(9)

 

Anche in Oceana, come già in Falena predomina l'antitesi di due mondi. In Oceana la dimensione del mare, la sua valenza simbolica, si contrappone alla dimensione terrestre, alla realtà umana contingente e esiliata.

Con quest'opera Benco ispirato dalla bellezza del Golfo di Trieste - porta sulle scene l'incanto del mare :

“Fu a Servola che nacque Oceana. Ritornando verso Trieste, lungo la strada che dà sul vallone di Muggia, mentre la luna versava il suo pallido splendore sul mare, quel silenzio fu rotto da Silvio Benco che esclamò: “Quadro meraviglioso! Se si potesse portar sulla scena una simile visione!”. L'emozione data da quello spettacolo fu condivisa da mio padre. Qualche giorno dopo Benco gli disse: “Bisogna fare una commedia fantastica con le deità marine, prendendo a modello la commedia fantastica di Shakespeare e le visioni pittoriche del Boeckling, fuori dall'ambiente tragico di Falena. .” (10)

 

Oceana è il racconto in chiave mistico-mitologica della nascita di una nuova Venere. Nersa, come la dea Venere nata dall'onda dell'oceano, è costretta a vivere sulla terra, pur sentendo di appartenere al mondo del mare. Avrà comunque un destino benevolo: alla fine del racconto diverrà Oceana, divinità marina e sposa di Init il dio del mare.

In Nersa, la bambina nata tra le onde, mentre la madre moriva, si fondono le qualità del mondo intenso e mistico delle divinità marine.

Costretta a vivere nei campi, a falciare il grano assieme a donne che la schernivano per la sua diversità, sentiva per il mare un’attrazione fatale. Essa canta una ballata che viene ripresa per tre volte durante tutta l'opera e che è espressione del suo sogno:

“Ti desidero / ne l’aurora / sol che timido/ lambi il crin...

Ti desidero / quale a sera / scendi al baratro / del destin

Langue e spasima di desio / l’inguaribile canto mio!” (11)

 

Ascoltiamo questa canzone all'inizio del primo atto, quando Nersa falcia il grano nei campi, nel secondo atto nel momento in cui Nersa, deposta sugli scogli del mare, risvegliandosi dal sonno vede chino su di lei il suo sposo Init, re del mare; e all'inizio del terzo atto quando Nersa canta con disperata ironia, angosciata per le imminenti nozze con Vadar, l'agricoltore.

La commedia fantastica di Benco, pur suggellando nel tripudio del finale l'amore tra Oceana e il Dio del mare, sottolinea la crudeltà e la violenza della condizione di Vadar che implora dal Dio del mare l'incantesimo delle sirene preferendo impazzire piuttosto che sopportare la sofferenza del distacco.

 

Assai più gioioso è quindi il finale di sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare a cui pur Benco si è effettivamente ispirato con evidenti e numerose analogie, nel modellare la vicenda d'amore, simile a quella tra Ermia, pur promessa a Demetrio, e Lisandro; nel riferimento alla fuga degli innamorati, analoga all’allontanamento di Nersa che fugge verso il mare; nel ricalcare la scadenza del termine temporale (tipico delle favole) offerto a Nersa, come anche alla shakespeariana Ermia, per scegliere il proprio destino, tra la morte o la segregazione dal consorzio umano. Il tema - analogo - è quello del mistero e della fugacità dell'amore:

“...o guerra. o morte, o infermità

si posero sempre ad assedio dell’amore:

ed esso fu momentaneo come suono,

labile come ombra,

corto come sogno;

rapido come saetta che rivela d’impeto

in fosca notte e cielo e terra

e in men che non si dica “guarda!”

è divorato dalle fauci del buio:

così pronta a dileguare è cosa risplendente”(12)

 

L'analogia tra le due opere si delinea in modo speciale: in entrambe sono le divinità ad ordire a loro piacimento i destini degli uomini ignari e inconsapevoli.

Oberon e Titania, re e regina degli elfi e delle fate, conducono le fila del destino e dell'amore degli esseri umani, servendosi di incantesimi affidati a folletti, spesso sbadati o burloni, così come in Oceana sono affidati ai litigiosi e meschini geni marini Ers e Uls.

Il destino umano è legato al volere degli dei ed è soggetto alle loro inclinazioni.

Le conseguenze ricadono sugli ignari esseri umani e su tutta la natura, compreso il procedere delle stagioni.

Così nel coro dell'Ifigenia di Goethe:

“Tema gli dei la stirpe umana.

Tengono il regno nelle eterne mani,

e lo possono usare come lor piace.

Li tema del doppio colui che essi innalzano”(13)

 

“Abisso” è l'ultimo libretto scritto da Benco per Smareglia ed è quello più valido dal punto di vista stilistico: è un testo poetico di grande valore con versi già di per sé musicalissimi.

Fu l'ultima opera di Smareglia e segnò il culmine della sua produzione artistica. L'opera venne rappresentata alla Scala diretta dal M.o Tullio Serafin, grazie all'interessamento di Boito e Toscanini, ed ebbe grandissimo successo, già alla primissima prova, allorchè dopo il grandioso finale del secondo atto l'orchestra della Scala si era alzata in piedi acclamando lungamente il Maestro.

Benco abbandona la favola e il mito per scegliere un soggetto a sfondo storico ambientato in Lombardia nel 1176 al tempo della battaglia di Legnano, la sfida risolutiva della Lega lombarda contro il Barbarossa, un tema epico patriottico che celebra uno degli episodi più importanti della storia nazionale. Non si ingannò Ariberto Smareglia quando definì ‘Abisso’: “la più gloriosa opera nazionale che in Europa si possa vantare dopo i Nibelunghi di Wagner e il Boris di Mussorsky”(14)

 

Leggiamo quanto scrive Benco sull'origine di questo libretto:

"Come già altre volte erano stati i suoi amici di Trieste ad insistere su me perchè gli componessi un lavoro che egli potesse musicare. Io avevo resistito lungamente a queste sollecitazioni, perchè mi dava tormento la coscienza di aver già pesato troppo sul destino del Maestro col legarne l’ingegno a mie fantasie sulle quali si era sfogata la contrarietà di tanta gente, pur non nascondendomi che le sue più insigni pagine di musica erano nate da quegli spunti fantastici.

Pensavo che nell’assoluto bisogno in cui egli si trovava di una affermazione indiscussa, di un successo senza riserve, senza restrizioni aprioristiche tale da schiudergli largo orizzonte, da farlo vivere, da farlo considerare per quello che egli era, fosse consulto da parte sua scegliersi un melodramma d'autore accetto all’universale, riconosciuto per qualità di poeta e uomo di teatro.

Smareglia non ne aveva voluto nemmeno sentir parlare, si era attaccato a me come a un compagno di navigazione; nulla voleva musicare che non l’avessi io immaginato. Confesso che m'ero trovato su le spine. Alla fine avevo dovuto cedere alle sempre rinnovate preghiere dei miei amici e avevo concepito la trama di ‘Abisso’, un soggetto su sfondo storico remoto, del tempo della lega lombarda che avevo pensato potesse toccare l’animo del pubblico. Non saprei precisare quando Smareglia, irresoluto dapprima incominciasse a musicarlo: so che l’avevo scritto nel 1906 e glielo avevo mandato al finire di quell’anno” (15)

 

Hanno, barone germanico che rapisce le due fanciulle lombarde Gisca e Mariela, è un uomo d’armi criminale, empio, barbaro e superbo.

Irrompe nella povera casa del pastore come una fatalità negativa del destino, lasciando al suo passaggio morte e desolazione. Dopo il rapimento delle due sorelle si determina uno scontro di valori e di sentimenti: l'amore di Gisca e Mariela per il nemico, come per una divinità malvagia porta con sè l'estraneità a sè stessi, la follia e la morte.

Benco stesso più tardi ebbe a riflettere su questo personaggio:

“… fin da allora il maestro vagheggiò di dare maggiore importanza musicale alla chiusa dell'atto terzo e dell'opera: ma soltanto più tardi, dopo gli anni della guerra, egli concepì un disegno concreto della nuova chiusa che doveva essere lirica e temperare in un certo modo, con un paretico canto, la veemente brutalità del personaggio affidato al tenore.

Smareglia sapeva quel che voleva come uomo di teatro e come musicista, poichè invero nell'esecuzione di Trieste, dieci anni e più dopo quella di Milano, la nuova chiusa toccò profondamente l’animo dell'uditorio: e io imparai, ma troppo tardi, che il tenore deve avere un fondo tenero, sia pure egli - per citare supremi esempi - Otello o Sigfrido.” (16)

 

Vi è una valenza patriottica nella trama che pone una distinzione spirituale tra valori e sentimenti.

Gisca non ha la forza di uccidere Hanno e il conflitto la porta alla follia: ucciderà infatti la sorella Mariela spingendola nell’abisso.

La scelta per il nemico la porta a divenire estranea a sè stessa e la conduce alla più indicibile disperazione. Lo scampanio gioioso per la vittoria sul Barbarossa diventa per Gisca, ormai spinta alla follia, un richiamo lugubre e funesto:

“Perchè non ascolto più voce di gioia?

ll silenzio è sì triste…

Io voglio il furore rombante

dei tuoi rintocchi, o campana;

io voglio l’anima ansante

de' tuoi echi fuggenti, o campana:

io voglio sentirti cantare

le grandi cose tradite de l’anima mia,

la patria, l’amore, la morte...

Oh, rompi tutte le porte

del’ ferreo cielo

con la tua feral melodia”! (17)

 

 

‘Abisso’ rappresentato alla Scala nel 1914 fu acclamata con grande fervore quale essa è: uno dei più grandi capolavori dell'arte musicale del nostro secolo.

Ma a questa prima entusiasta accoglienza seguirono il silenzio e l'oblio che sovrasta ancor oggi l'opera del compositore istriano.

Gran parte del merito di aver curato con dedizione e amore il ricordo di Antonio Smareglia va a Silvio Benco che ne ha saputo serbare intatto per i posteri l'essenziale e prezioso ‘culto della memoria’:

“Il culto della sua memoria… Noi amici suoi ce ne sentimmo pieni, il giorno che, dopo i funerali solenni ne scortammo la salma al cimitero. Nei viali di quel cimitero il maestro Teodoro Costantini disse a pochi intimi la vera parola della nostra affflizione: - Ecco, abbiamo composto nella tomba tutta la nostra giovinezza - ... Eravamo così giovani quando avevamo conosciuto il maestro; ci aveva illuminato allora il sentimento che v'era in lui, una profonda sapienza dell'arte, ma anche una bella fiamma creatrice; avevamo imparato dai triboli della sua esistenza come la vita di un artista eletto ad emergere possa assomigliarsi a durissima lotta; avevamo vissuto con lui e per lui le lunghe traversie e i balenii di splendore d’un poderoso ingegno fulminato negli occhi e tenacemente pari a sé stesso nella luce dello spirito; e ci ritrovavamo uomini maturi, incamminati ormai noi stessi verso il declivio della vecchiezza, presso una tomba che chiudeva la sua vicenda terrena ma anche tanta parte di sofferte vicende dell'anima nostra” (18)

 

 

NOTE

 

(1) Gianni Gori - Isabella Gallo ( a cura di )

“Scritti musicali di Silvio Benco”

Ricciardi, Milano, 1974

 

(2) Silvio Benco “Ricordi di Antonio Smareglia”

Editrice Umana, Trieste, 1968

(introduzione di Vito Levi)

 

(3) Silvio Benco

“Musica e nostalgia”

sta in :”Scritti musicali di Silvio Benco”

op.cit. - pag. 127

 

(4) Ibidem pag. 134 -135

 

(5) Silvio Benco

“L’esercizio della musica”

sta in :”Scritti musicali di Silvio Benco”

op.cit. - pag. 184 -185

 

(6) Silvio Benco

“Le origini della Falena”

sta in :”Scritti musicali di Silvio Benco”

op.cit. - pag. 58

 

(7) Silvio Benco

“Le origini della Falena”

sta in :”Scritti musicali di Silvio Benco”

op.cit. - pag. 60

 

(8) Silvio Benco

“Ricordi di Antonio Smareglia”

op.cit. - pag. 82

 

(9) Ibidem pagg.106-108

 

(10) Ariberto Smareglia

“Vita e arte di Antonio Smareglia”

Tipografia Cesare Mazzucconi, Lugano, 1932

pag. 50-51

 

(11) Silvio Benco

“Oceana”

Ferrari, Venezia, 1903 - pag. 10

 

(12) W.Shakespeare

“Sogno di una notte di mezza estate”

trad. Giulia Celenza

Sansoni, Firenze, 1934

 

(13) J. W. von Goethe

“Ifigenia in Tauride”

trad. Nicola Terzaghi

Sansoni, Firenze, 1974

 

(14) Ariberto Smareglia

op.cit.- Prefazione

 

(15) Silvio Benco

Ricordi di Antonio Smareglia

op.cit.- pagg. 128-129

 

(16) Silvio Benco

Ibidem – pg. 154

 

(17) Silvio Benco

“Abisso”

Sonzogno, Milano, pg. 58

 

(18) Silvio Benco

Ricordi di Antonio Smareglia

op.cit.- pag. 167

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